di Alessandra Pavani
Immaginate una larga cornice rettangolare, come lo schermo di un cinema. Immaginate che sia una finestra spalancata, da cui entrano la luce e l’aria. Non si può chiuderla, altrimenti si morirebbe soffocati, nelle tenebre più fitte, anzi, non si nascerebbe nemmeno. D’altra parte è collocata troppo in alto. Ma a voi che cosa importa? È sempre stata così, a nessuno è mai venuto in mente di arrampicarsi fin lassù per vedere oltre. Tanto non è veramente una finestra. Capita perfino che vi dimentichiate della sua esistenza. Ma poi accade qualcosa. Un giorno commettete un errore. Non un errore qualsiasi, però. Tutti sbagliamo, a questo mondo, e sappiamo che alcuni dei nostri sbagli comportano determinate conseguenze. Ebbene, l’errore che avete appena commesso vi costa un castigo oltremodo bizzarro: in qualche maniera vi portano all’altezza di quella cornice rettangolare, vi incatenano, e vi costringono ad affacciarvi e a guardare per bene al di là della finestra. E lì, sotto i vostri occhi, dispiegata come un’immensa carta geografica, vi appare la vostra mente, il vostro cervello, con tutti i suoi più segreti recessi illuminati senza pietà da un faretto di scena. Immaginate una cosa simile. Non avreste paura di precipitare? Non precipitereste dentro voi stessi?
Ma non anticipiamo. Quella che sta per cominciare è una storia che slitta già abbastanza di per sé tra presente e passato; non è proprio il caso che noi ci si metta a pasticciare con i vari fotogrammi e a confonderli tra loro. Partiamo dall’inizio.
L’immagine è in un nitido bianco e nero. Al centro dello schermo c’è una persona seduta per terra, che si abbraccia le ginocchia e ci nasconde il viso. Non abbiamo bisogno di guardarlo in faccia per capire che è un ragazzo, e che sta soffrendo. Sono i suoi singhiozzi a rivelarcelo. È strano, però; deve esserci un problema di acustica, perché quel pianto non sembra provenire dalla figura rannicchiata, bensì dalle quattro enormi pareti che la circondano. Il suono è come amplificato, rimbalza da un lato all’altro e sommerge l’intera scena. Eppure è proprio il ragazzo a piangere, ne abbiamo la conferma quando finalmente solleva lo sguardo, e noi vediamo il suo volto congestionato dal dolore. Quegli occhi. Sarebbero azzurri se l’immagine fosse a colori; sono invece di un grigio chiaro, della stessa sfumatura che ha la luna quando la si vede di giorno. Anche i capelli sono grigi, naturalmente, ma non è difficile immaginarli biondi. Attorno a lui c’è il nulla, un nulla opprimente, denso, che sa di metallo. La luce che riempie questo nulla è gelida, proviene da un tubo al neon che però non entra nell’inquadratura, noi non lo vediamo. Anzi, non esiste nessun tubo al neon. È la coscienza del prigioniero a illuminare il vuoto. E sulle quattro enormi pareti si muovono in silenzio delle sagome oscure: sono le ombre che lui si porta dentro. Senza misericordia, senza sconti, vengono proiettate attorno a lui tutte le tenebre che sgorgano dal suo cervello, e ovunque si volti non può fare a meno di vederle. A volte cerca di sfuggire a questa tortura coprendosi gli occhi, ma così facendo soffre doppiamente, perché allora il suo cuore si lacera, il sangue schizza da tutte le parti: è come annegare dentro se stessi. Nemmeno nel sonno trova conforto: allo spegnersi della coscienza gli incubi si scatenano. Se non ci credete, aspettate che il giovane si addormenti: vedrete quali fantasmagorie a colori appariranno sul vostro schermo senza luce! È così che in questo cubo di metallo il ragazzo sconta la sua pena. Ma quale delitto avrà commesso? È tanto bello che è difficile crederlo capace di un crimine; però eccolo versare fiumi di lacrime, e lacrime così strazianti non possono essere che di rimorso.
Quando gli chiesero se era stato lui, non tentò di negare né di giustificarsi. Abbassò solo gli occhi, e si lisciò i capelli: un gesto bizzarro, in quel momento, irritante e tenero insieme. Poi con voce triste ma limpida rispose:
“Sì, sono stato io a farle del male.
Scorsero allora i titoli di testa, con in sottofondo una canzone che diceva:
Piccole vite si aggirano
Intorno alla lampada
La Musa mi ha lasciato da solo
Con il mio cervello
Che va alla deriva
Scende il crepuscolo
Sopra il giardino
Dove giocavo da piccolo
Ho bisogno di abbracciare
Qualcuno che non conosco.
Fu fatto salire su una lunga automobile nera, dove un uomo gli fece delle domande. Si rendeva conto di quello che aveva fatto? Come aveva potuto spingersi fino a quel punto? Aveva una vaga idea di quale fosse la punizione che spettava a coloro che arrivavano a compiere un gesto simile? La macchina correva lungo lo schermo, nel grigio crepuscolo invernale. Il ragazzo era perfettamente lucido, comprendeva la portata del suo crimine, ma anche tornando indietro nel tempo lo avrebbe commesso di nuovo. Fu questo, grossomodo, che disse all’uomo che lo interrogava. L’uomo portava un lungo impermeabile e un cappello scuro; mentre faceva le sue domande fumava un sigaro. A tratti il fumo offuscava lo schermo.
“Non ci saranno guardiani a sorvegliarti”, diceva. “Non ce ne sarà bisogno. Di là non si può fuggire in alcun modo. Né togliersi la vita, tanto perché tu lo sappia. La morte arriverà comunque, ma prima dovrai pagare. Gli occhi ti si fonderanno in lacrime di dolore, sempre che tu non decida di strapparteli dalle orbite. Ti si sfonderà il cuore. È triste che debba essere così, ma è una tortura a cui ti sei condannato da solo, di tua spontanea volontà.”
“Sì, può darsi”, rispose il giovane, mentre fuori dal finestrino le figure procedevano a ritroso. “Può darsi che io l’abbia fatto, come dice lei, di mia spontanea volontà. Però, sa, in quel momento sentivo di non avere altra scelta. Si era venuta a creare quella combinazione di tempo e luogo in cui doveva succedere, ed è successo a me. Badi, può sembrare una contraddizione in termini, ma sebbene io sia tormentato dai sensi di colpa non sono pentito. Lei crede che sia un controsenso?”
“Non è a me che devi fare certe domande, piuttosto a te stesso. Comunque se hai voglia di parlare ti consiglio di farlo adesso, perché sono l’ultimo essere umano che vedrai.”
Il ragazzo impallidì, ma per lungo tempo rimase in silenzio, guardandosi le mani.
“Allora sarò completamente solo”, disse infine.
“No, questo no”, rispose l’uomo col cappello, sorridendo in modo sadico e al contempo triste.
“Non capisco.”
“A tempo debito lo capirai.”
“A tempo debito…”, ripeté il giovane.
Il tempo. Ma il tempo doveva aver già cominciato a comportarsi in maniera strana, perché a lui sembrava di trovarsi in quella macchina da ore ed ore, eppure nel cielo permaneva ancora il grigio del crepuscolo. Un interminabile crepuscolo d’inizio inverno.
“Quegli alberi!”, esclamò ad un tratto.
Li conosceva, quegli alberi, delimitavano il giardino di una casa che distava pochi passi dalla sua.
“Non capisco, stiamo forse girando in tondo? Questo viaggio sembra non avere fine, sto già dimenticando quando ha avuto inizio, tuttavia siamo ancora nei pressi di casa mia.”
“La colpa è tua. Stai continuando a riavvolgere la pellicola perché non ti senti ancora pronto. In realtà è breve la distanza che ci separa dai nostri dèmoni, ma ci vuole del tempo per arrivare a guardarli in faccia. Sei ancora troppo debole. Comunque non importa, prima o poi ci arriverai. Ci arrivano tutti. Vedrai, all’inizio saranno solo ombre.”
Il ragazzo non replicò, tanto non sarebbe servito a niente. Era inutile chiedere ulteriori spiegazioni all’uomo col cappello, bisognava accontentarsi di quelle oscure parole. Evidentemente un condannato doveva scoprire da sé la propria condanna. L’avrebbe scoperta col tempo, diceva l’uomo, era una questione di tempo. Ancora il tempo. Eppure il giovane era sempre più convinto che il tempo stesse imboccando dei sentieri sconosciuti, incomprensibili, vertiginosi. E quando gettò uno sguardo allo specchietto che rifletteva il volto dell’autista, vide che era proprio lui a guidare quella macchina, ma era lui da vecchio. Riconobbe gli occhi chiari, la fronte bassa, le linee crudeli della bocca, ogni lineamento alterato dai segni dell’età. Era un vecchio che accompagnava se stesso a scontare una pena per un reato commesso in gioventù. Non si sarebbe mai chiuso quel cerchio?
Il cerchio era di fumo, e l’uomo col cappello lo soffiò fuori dalla bocca verso la cinepresa. Ecco, lo schermo si annebbia. La bobina ci sfugge dalle mani, rotola giù lungo i pendii della memoria. Ci ritroviamo nel cubo di metallo in cui il ragazzo è tenuto prigioniero. Le lacrime lo hanno spossato; non è più seduto, ma sdraiato in posizione fetale. Tuttavia non è addormentato. Se lo fosse non riusciremmo nemmeno a vederlo, poiché è la sua coscienza ad illuminare la scena. Sulle quattro pareti scorrono ancora delle ombre, quelle ombre partorite dal suo cervello che lui è costretto a guardare come se fosse al cinema. E sebbene siano mostruose, è evidente che il giovane si sforza di rimanere sveglio: con le dita si ostina a tenere sollevate le palpebre che gli pesano, e tra i denti mugola una melodia su cui cerca di fissare la sua concentrazione. Sembra già una preda della follia, anche se è la paura a dettargli quei gesti. Non sa ancora cosa gli accadrà quando sarà vinto dal sonno, ma i brividi che sferzano il suo corpo gli preannunciano qualcosa di atroce. Addosso ha già l’angoscia di chi non riesce a svegliarsi da un incubo. Per questo a tratti stacca le mani dal viso e prende a pugni il pavimento; altre volte si afferra i capelli e tira con violenza. Lotta disperatamente contro le ondate di sopore che salgono ad avvolgerlo. Ma è inutile. Prima o poi sia il fisico che la mente hanno bisogno di dormire. Noi vediamo che inevitabilmente la luce si affievolisce. Le ombre sui muri non sono più così nitide, si scorgono ancora vagamente i contorni di una forca, di un cappio che non è una corda ma una collana di diamanti, e di un abito da sera scosso dal vento. Poi ogni cosa scompare, le palpebre scendono, lo schermo si oscura.
Buio.
E improvvisamente uno squarcio, uno schianto, in faccia vi schizza una ridda di osceni colori, come uno schiaffo, come vernice che sprizza, vi frusta l’immagine urlante di un folle pagliaccio che sghignazza. I suoi occhi sono rossi, e sono dappertutto. Si odono le grida di una donna. Anche le sue grida sono rosse. Le pareti del cubo diventano pareti di un organo interno, molli, soffocanti. È un incubo melmoso in cui si sprofonda, immondo, vischioso. Palpita e batte, palpita e batte. Vi inghiotte. È magma vomitato dal cratere del subconscio. A tutto volume. Come affogare dentro le proprie viscere. E mentre il pagliaccio ride, strabuzzando gli occhi da rospo, la donna continua a gridare. La sua voce è una lama che si conficca ripetutamente nella vostra testa. Vorreste che il ragazzo si svegliasse, vorreste fuggire da questa sala cinematografica in fiamme. Già gli occhi del pagliaccio sporgono pericolosamente, sul punto di uscire dalle orbite, già le urla della donna fanno sanguinare gli altoparlanti. Il cervello, da dentro, preme contro i bulbi oculari, li fa schizzare fuori; sulle guance del clown ghignante scendono rivoli di materia grigia, come lacrime putride. Un ultimo grido, un’ultima risata, e il rantolo estremo di una ragione che si smarrisce per sempre. Infine il silenzio.
Il ragazzo si sveglia, e con il riaccendersi della sua coscienza si riaccende anche la luce. Ma ogni colore è scomparso dal nostro schermo. Nel cubo di metallo rimangono solo il bianco dell’inesistente tubo al neon e il nero delle ombre proiettate sulle pareti. E naturalmente il grigio. Il grigio di quell’interminabile crepuscolo d’inizio inverno.
Flashback.
A un certo punto del viaggio l’automobile si fermò in una piazzola, dove sostavano poche altre macchine, e l’uomo col cappello scese, invitando il giovane a fare lo stesso.
“Non è qui che si trova la tua prigione”, disse l’uomo, guardando il pallido sole che tramontava dietro i tetti della città. “Ma ci siamo quasi. Ormai si fa sera, e tu hai qualcosa da raccontarmi.”
Il ragazzo annuì. Sentiva di essere pronto. I suoi ricordi non erano mai stati così nitidi.
“È stato proprio a quest’ora del giorno che l’ho incontrata per la prima volta”, cominciò, voltandosi anche lui verso il sole che calava. “Il momento preciso in cui non è più pomeriggio e non è ancora sera. Aveva piovuto tanto. E poi, improvvisamente, come se volesse ricordarci che esisteva ancora, era uscito il sole. Una fugace apparizione prima di ritirarsi per la notte. Come lei.”
L’uomo rimase impassibile, seguitando a fumare il suo sigaro. Il ragazzo deglutì, a disagio, quasi commosso dai ricordi.
“Ero seduto a un tavolino, guardavo la gente che passava, non pensavo a nulla. E improvvisamente passò lei. La riconobbi subito, si capisce, l’avevo vista tante volte apparire sullo schermo d’argento dei cinema. Era la dea che avevo sempre venerato. Lei non mi notò nemmeno, naturalmente. Mi passò davanti a testa alta, fiera, e un istante dopo aveva già girato l’angolo. Fu allora che mi accorsi che il bicchiere che tenevo in mano era andato in frantumi. Mi sentii come se per anni non avessi fatto altro che aspettare quel momento. Nell’arco di pochissimi secondi la mia vita aveva trovato e subito perduto tutto il suo significato.”
L’uomo col cappello annuì più volte, sempre in silenzio, tenendo lo sguardo fisso sulla città che pian piano andava oscurandosi. Parcheggiata a pochi passi di distanza, l’automobile aspettava pazientemente che i due ritornassero a bordo.
“C’era un film quella sera”, continuò il ragazzo, con una sorta di spietata determinazione. Lui ci era andato al cinema, quella fatale sera, ma non era entrato nella sala di proiezione. Per tutto il tempo era rimasto nascosto nell’atrio. Da lì aveva sentito che la donna ringraziava i suoi ammiratori prima di fondersi col buio. C’era stato un applauso lunghissimo, poi era cominciato lo spettacolo. Dietro una tenda il ragazzo aveva aspettato in silenzio, senza fretta. Finalmente la donna era uscita da sola, mentre nella sala proseguiva la proiezione del suo film. Era in abito da sera, e al collo portava una collana di diamanti. Era così bella da risplendere. Ma nel vasto atrio all’improvviso si era spenta la luce; solo un faretto era rimasto acceso, puntato su di lei, e aveva cominciato a seguire ogni suo movimento, illuminandola e impedendole di nascondersi nell’ombra. Soffocando un grido, la donna si era addossata a una parete. Da dietro la tenda il ragazzo aveva visto sul suo volto il terrore e la certezza di essere osservata. E poi il faretto si era messo a lampeggiare, luce, buio, luce, buio, luce, buio, sempre più in fretta. Era il momento. Uscito allo scoperto, il giovane le si era buttato addosso e l’aveva presa con la violenza.
“Smettila!”, aveva urlato lei, cercando invano di difendersi.
“Non posso”, aveva detto lui piangendo.
Per la prima volta da quando il ragazzo aveva cominciato il suo racconto l’uomo col cappello si voltò a guardarlo.
“È tutto?”
Il giovane annuì.
“Allora è tempo di andare.”
I due si incamminarono lentamente verso l’automobile. Ora che la pellicola si era sbloccata, il tempo aveva ripreso a funzionare, e nel parcheggio faceva ormai buio.
“Ricordati che stai per entrare dentro di te”, disse l’uomo dopo essersi risistemato sul sedile posteriore della macchina. “Lì non sentirai né fame né sete. Non avrai necessità fisiologiche, non proverai alcun impulso sessuale. Soltanto di una cosa avrai un costante desiderio, un bisogno che non verrà mai appagato: della quiete. Dormirai, certo, ma non conoscerai un solo istante di pace. Gli incubi ti perseguiteranno. E al risveglio non avrai sollievo, perché sulle pareti illuminate dalla tua coscienza ricominceranno immediatamente a riflettersi le ombre che ti porti dentro. Sarà un po’ come vivere in un cinema, non credi? In cui danno solo film dell’orrore, però.”
Quella non era una battuta, e infatti nessuno rise. Ma una risata, a noi che stiamo seguendo il ragazzo nel suo viaggio, sembra uscire dagli amplificatori. La cinepresa adesso riprende l’interno del cubo di metallo. Quanto tempo è passato? Anche se l’immagine è in bianco e nero vediamo negli angoli i primi segni di ruggine e di corrosione. Evidentemente il cervello del giovane ha già cominciato a guastarsi. Eccolo là, che si rotola per terra. È lui che ride. La follia si è aperta un varco nella sua mente sovraccarica. E lui ride di disperazione.
Su una delle quattro pareti di metallo si è spalancata una ferita verticale, come se il metallo si fosse fuso. Sembra un taglio nel cielo. I suoi margini, tuttavia, non rimangono immobili; quella bocca a metà capovolta respira, si contrae e si dilata dolorosamente. Qualcosa di nero esce a fatica dalle sue oscure profondità. È una vagina oltraggiata che partorisce forme mostruose. Il giovane ride, graffiandosi a sangue le guance, sbatte la fronte contro il pavimento fino a diventare strabico. Le cose figliate dalla vagina urlante gli strisciano addosso. L’immagine sullo schermo vacilla, si fa sfocata, poi torna chiara, impietosa. Il giovane tenta di difendersi, si strappa i vestiti. Ormai non sa più se è sveglio o se sta sognando, ma in fondo a che serve saperlo? Con le unghie, disperatamente, cerca di aggrapparsi alle pareti, di arrampicarsi, di fuggire, ma è lì, prigioniero del suo cervello; come può fuggire da se stesso?
“Hai toccato ciò che si poteva solo guardare da lontano”, dice fuori campo la voce dell’uomo col cappello. “Hai violentato la fantasia, hai insudiciato il sogno. Hai oltrepassato il confine. Hai squarciato lo schermo. In questa luce continua cercherai un’ombra per nasconderti, ma le sole ombre che vedrai sono quelle che ti porti dentro.”
Sfinito, sopraffatto, il ragazzo alla fine si arrende. Nudo e ferito, dal pavimento guarda con occhi spenti la vagina che lo partorisce tra i tormenti, e poi lo partorisce di nuovo, e poi ancora, e ancora innumerevoli volte, fino a sfaldarsi. Adesso la parete non esiste più. Per un istante la cinepresa inquadra un cielo limpido, poi lo schermo si oscura. Per sempre.
“Sei perdonato”, dice una voce femminile.
E su un quartetto d’archi scorrono i titoli di coda.
La nascita, e venire al mondo come colpa, questo il velo sottile, la trama che attraversa il racconto, mentre lo leggo. Non l’accusa a un maschio di avere fatto violenza a una donna, a meno che, in un quadro mitologico antico, la nascita stessa non sia la ferita mortale alla dea madre.
Trovo molto suggestiva la Sua interpretazione. In realtà mi capita di spesso, pur essendone l’autrice, di non riuscire a comprendere il vero significato dei miei racconti; credo che questo capiti perché la maggior parte delle volte prendo l’ispirazione dai miei sogni. Nell’esperienza onirica, infatti, una qualche Verità passa attraverso di noi, sotto forma di immagini e parole, rimanendo però indecifrabile. La sensazione è quella di aver solamente sfiorato con la punta delle dita ciò che forse, in fondo, non abbiamo il coraggio di afferrare.
Infatti sono stata folgorata dalla sua immagine di un’alta finestrella, che ora non riesco a ritrovare nel racconto, e che è stato un mio sogno. Sogno vivissimo che ho interpretato come necessità di partorire, poco tempo dopo rimasi incinta del primo figlio. Il vero ci attraversa è proprio così.
…cerco di interpretare il racconto di Alessandra Pavani che scuote parecchio per la bravura narrativa e per il tema che sembra affrontare…Il giovane personaggio, come una falena dalla luce, si ritrova intrappolato in uno schermo cinematografico e in un film, il cui copione è già scritto per lui…Compie una violenza, che sia reale o solo immaginata, sulla donna più ammirata che lo seduce per la bellezza e la collana di brillanti, e finisce per tormentarsi sino alla fine dei suoi giorni, in un viaggio circolare senza uscita dal suo cervello, una scatola d’acciaio pullulante di immagini violente e ipnotiche…Chi è il regista o i registi del film? Chi conduce infine il ragazzo a vivere e a rivivere la sua nascita dalla vagina materna sino a ritrovarsi “nudo e ferito dal pavimento…”, proprio come un indifeso neonato? Una voce maschile conduce l’indagine, una femminile concede il perdono…Un triangolo affettivo non proprio rasserenante…Dalla parte di chi?
La ringrazio per le belle parole. Quanto alle Sue domande, temo di non saper rispondere nemmeno io, come già ho spiegato nella mia risposta al commento della signora Fischer. Posso solo riassumere il mio pensiero citando René Char: “Le parole che sorgono sanno di noi ciò che noi ignoriamo di loro”.