Introduzione e traduzione di Virginia Arici
di Kurt Vonnegut
Nato l’11 novembre del 1922 a Indianapolis, Indiana, Kurt sembrava destinato ad una carriera di scienziato; la sua vita universitaria però finì quando si arruolò nell’esercito per combattere nella Seconda Guerra Mondiale. Nel dicembre del 1944 si trovò a combattere la battaglia delle Ardenne contro l’esercito tedesco, ma la sua unità fu distrutta e Vonnegut venne fatto prigioniero. Inviato in Germania a Dresda, la Venezia del nord, venne messo a lavorare con altri prigionieri in una fabbrica di sciroppo di malto per donne incinte. Si trovava ancora lì quando la notte del 13 febbraio 1945 gli Alleati bombardarono la città; le esplosioni crearono una colonna di vento con temperature fino a 1400 gradi che consumarono tutto l’ossigeno dell’aria, causando la morte per asfissia di un numero a oggi ancora imprecisato di civili; la stima varia fra 35.000 e 130.000. Vonnegut sopravvisse al bombardamento perché era alloggiato in una cella per la conservazione delle carni vari piani sotto terra.
Dopo la guerra, Vonnegut tornò negli Stati Uniti ancora deciso a diventare uno scienziato, ma la sua proposta di tesi venne respinta dall’Università di Chicago. Trovò allora un impiego presso la General Electric. In questo periodo iniziò anche la sua carriera di scrittore.
Negli anni era cresciuta anche la sua voglia di raccontare la sua esperienza a Dresda, e durante un periodo in cui aveva trovato impiego presso l’Università dello Iowa, si rese conto che il suo essere sopravvissuto al bombardamento non poteva essere raccontato in un modo convenzionale; il risultato fu Mattatoio 5, pubblicato nel 1969. Il libro usa la fantascienza e l’idea del viaggio nel tempo per raccontare gli eventi da lui vissuti, usando come alter ego il personaggio di Billy Pilgrim. Fu questo libro a dare una enorme fama a Vonnegut.
Anche nella breve storia offerta qui sotto l’autore utilizza la fantascienza per immaginare un mondo futuro dove tutti sono uguali, grazie a vari emendamenti della costituzione e a spedizioni punitive da parte degli agenti del potere centrale. Anche in questa storia Vonnegut si schiera con l’individuo contro il sistema, contro la tecnologia e contro qualunque tipo di ideologia con uno stile veloce, caustico e comico insieme, che intrattiene e fa pensare al contempo. Vonnegut muore l’11 aprile del 2007 a Manhattan, New York, all’età di 85 anni. (Virginia Arici)
Correva l’anno 2081 e tutti finalmente erano uguali. Non erano solo uguali di fronte a Dio e alla legge. Erano anche uguali in ogni singolo aspetto. Nessuno era più intelligente di nessun altro. Nessuno era più bello di nessun altro. Nessuno era più forte o più veloce di nessun altro. Tutta questa uguaglianza era dovuta agli emendamenti 211, 212 e 213 della Costituzione e alla incessante vigilanza degli agenti del Grande Handicappatore (G-H) degli Stati Uniti.
Alcuni aspetti della vita non erano tuttavia ancora del tutto a posto. Aprile, per esempio, continuava a far impazzire la gente per il suo clima instabile. Fu proprio in quel mese umido che gli uomini del G-H si presero Harrison, il figlio quattordicenne di George e Hazel Bergeron.
Fu un evento tragico, certo, ma George e Hazel non furono in grado di pensarci su troppo. Hazel era dotata di un’intelligenza assolutamente nella media, il che implicava che non era in grado di pensare a nulla se non per un tempo brevissimo. E George, per quanto la sua intelligenza fosse al di sopra della media, portava in un orecchio una radiolina che funzionava da handicap mentale. Tale radiolina era sintonizzata su una trasmittente governativa, e lui era tenuto per legge a portarla costantemente. Ogni venti secondi circa la trasmittente inviava un forte suono che impediva a persone come George di trarre un indebito vantaggio dal proprio cervello.
George e Hazel stavano guardando la televisione. Sulle guance di Hazel c’erano delle lacrime, ma, in quel momento, non si ricordava più per che motivo.
Sullo schermo del televisore apparvero delle ballerine.
Un segnale acustico risuonò nella testa di George. I suoi pensieri si dileguarono, in preda al panico, come banditi messi in fuga da un antifurto.
«Davvero bello il balletto che hanno appena fatto» disse Hazel.
«Eh?» disse George.
«Quel balletto è stato carino» disse Hazel.
«Già» disse George. Tentò di riflettere un po’ su quelle ballerine. Non che fossero particolarmente brave, comunque non più brave di quanto sarebbe potuto essere chiunque altro. Erano appesantite da piombi e da sacchetti di pallini da caccia e avevano i volti mascherati di modo che nessuno, vedendo movenze libere e aggraziate oppure un bel viso, si sentisse sciatto. George stava flirtando con la vaga idea che, forse, delle ballerine non dovessero essere menomate. Ma quella riflessione non fece molta strada prima che un altro suono nel suo orecchio disperdesse i suoi pensieri.
George trasalì. E trasalirono pure due delle otto ballerine.
Hazel lo vide trasalire. Siccome lei non aveva handicap mentali, dovette chiedere a George che tipo di suono fosse stato l’ultimo che aveva sentito.
«Come se qualcuno avesse colpito una bottiglia di latte con un martello da muratore» disse George.
«Mi sembra che debba essere molto interessante poter udire tutti quei suoni diversi» disse Hazel, un po’ invidiosa. «Tutte le cose che escogitano».
«Mah» disse George.
«Se io fossi il Grande Handicappatore, sai cosa farei?» disse Hazel. In effetti, Hazel assomigliava molto al il Grande Handicappatore, una certa Diana Moon Glampers. «Se io fossi Diana Moon Glampers» disse Hazel «farei suonare le campane di domenica. Campane e basta, come in onore della religione».
«Se fossero solo campane, riuscirei a pensare» disse George.
«Be’, magari a volume davvero alto» disse Hazel. «Credo che sarei davvero un bravo Grande Handicappatore ».
«Brava come chiunque altro» disse George.
«Chi più di me sa che cos’è normale?» disse Hazel.
«Certo» disse George. Stava iniziando a fatica a pensare al suo figlio anormale, Harrison, che in quel momento era in carcere, ma venne interrotto dal rimbombo di una salva di ventun cannoni nella sua testa.
«Che bel colpo, ragazzi!» disse Hazel.
Era un tale colpo che George era sbiancato e tremava tutto e aveva gli occhi rossi colmi di lacrime. Due delle otto ballerine erano crollate sul pavimento dello studio e si stringevano le tempie.
«Di colpo sembri stanchissimo» disse Hazel. «Perché non ti stendi sul divano, così puoi posare sui cuscini la tua sacca da handicap, tesoruccio mio?». Stava parlando dei ventuno chili di pallini da caccia contenuti in un sacco di tela, che George doveva portare al collo senza mai poterselo sfilare. «Va’ a posare il sacco per un po’» gli disse. «Non mi importa se per un po’ non sei uguale a me».
George soppesò il sacco con le mani. «Non mi dà fastidio» disse. «Ormai, non me ne accorgo nemmeno più. Fa parte di me».
«Da qualche tempo sei stanchissimo, un po’ esaurito» disse Hazel. «Se esistesse un modo per aprire un buchino nel fondo del sacco e potessimo tirar fuori qualche pallino di piombo… Solo qualche pallino, niente di più».
«Due anni di prigione e duemila dollari di multa per ogni pallino che dovessi tirare fuori» disse George. «Non mi pare un grande affare».
«Se solo potessi tirarne fuori qualcuno quando torni a casa dal lavoro» disse Hazel. «Davvero, qui non devi competere con nessuno. Qui, devi semplicemente rilassarti».
«Se cercassi di liberarmene» disse George «lo farebbe anche qualcun altro e in breve tempo ci ritroveremmo nel medio evo, con tutti che competono contro tutti. Non ti piacerebbe, no?».
«Lo odierei» disse Hazel.
«Ecco» disse George. «Secondo te, nel preciso istante in cui la gente dovesse iniziare ad aggirare la legge, cosa succederebbe alla società?».
Se Hazel non fosse riuscita a trovare una risposta a quella domanda, George non gliene avrebbe potuto fornire una. Una sirena stava ululando nella sua testa.
«Immagino che si sgretolerebbe» disse Hazel.
«Che cosa si sgretolerebbe?» disse George con voce spenta.
«La società» disse Hazel, senza troppa convinzione. «Non è quello che hai appena detto?».
«E chi lo sa?» disse George.
La trasmissione venne interrotta bruscamente da un’edizione straordinaria del telegiornale. All’inizio, non era chiaro quale ne fosse l’argomento, dato che l’annunciatore, come tutti gli annunciatori, soffriva di una grave balbuzie. Per circa mezzo minuto e in uno stato di grande nervosismo, l’annunciatore cercò di dire, «Signore e Signori».
Alla fine rinunciò e consegnò il bollettino a una ballerina perché fosse lei a leggerlo.
«Ci ha provato» disse Hazel a proposito dell’annunciatore. «L’importante è quello. Ha fatto del suo meglio, con quello che Dio gli ha dato. Dovrebbero assegnargli un bell’aumento di stipendio per lo sforzo che ha fatto».
«Signore e Signori» disse la ballerina, leggendo il bollettino. Doveva essere di una bellezza straordinaria, considerato quant’era raccapricciante la maschera che indossava. Ed era facile capire che era la più forte e la più aggraziata tra tutte le ballerine, perché i suoi sacchi di handicap erano grossi come quelli indossati da uomini di novanta chili.
E dovette subito scusarsi per la voce, una voce sconveniente, che una donna non avrebbe mai dovuto usare. La sua voce era una melodia calda, luminosa, senza tempo. «Scusate» disse, facendo in modo che la sua voce fosse assolutamente non competitiva.
«Harrison Bergeron, di quattordici anni» disse, con una specie di squittio, «è appena evaso dal carcere, dove si trovava, sospettato di aver tramato per rovesciare il governo. È un genio e un atleta, è sotto-menomato e va ritenuto estremamente pericoloso».
Una foto segnaletica di Harrison Bergeron apparve sullo schermo, capovolta, poi sghemba, poi nuovamente capovolta e poi nel verso giusto. La foto mostrava Harrison nella sua altezza completa, indicata da un fondale su cui appariva una scala di misurazione in metri e centimetri. Era alto esattamente due metri e tredici.
Per il resto, Harrison si presentava come una specie di maschera di carnevale di ferro. Nessuno aveva mai portato menomazioni più pesanti. Era cresciuto così in fretta che gli uomini del G-H non riuscivano a tenere il passo con gli handicap. Al posto della radiolina impiantata in un orecchio, come menomazione mentale indossava un paio di pazzesche cuffie e occhiali dalle lenti spesse e ondulate. Gli occhiali erano concepiti non solo per renderlo mezzo cieco, ma pure per procurargli dei mal di testa infernali.
Addosso a lui erano appesi vari rottami di metallo. Di norma, c’era una certa simmetria, un ordine militare nelle pastoie assegnate alle persone forti, ma Harrison sembrava un ammasso ambulante di rottami. Nella corsa della vita, Harrison si portava appresso centotrentacinque chili.
E, per nascondere il suo bell’aspetto, gli uomini del G-H lo costringevano a indossare costantemente una palla di gomma rossa sul naso, a tenere i sopraccigli rasati e a coprire i denti bianchi e regolari con capsule nere che lo facessero sembrare sdentato.
«Ripeto, se doveste vedere questo ragazzo, non cercate di ragionarci» disse la ballerina.
Si udì il forte cigolio di una porta strappata dai cardini.
Grida e urla di costernazione uscirono dal televisore. La foto di Harrison Bergeron sussultò più volte sullo schermo, come se stesse ballando al ritmo di un terremoto.
George Bergeron identificò esattamente la natura di quel terremoto e non avrebbe potuto fare altrimenti, dato che la sua casa aveva ballato spesso a quel ritmo fragoroso. «Mio Dio» disse George. «Deve trattarsi di Harrison!».
Questa presa di coscienza venne cancellata dalla sua mente nel preciso istante in cui udì in testa il rumore di uno scontro automobilistico.
Quando George riuscì a riaprire gli occhi, la foto di Harrison non c’era più. A riempire lo schermo era Harrison in carne e ossa.
Sferragliante, clownesco e gigantesco, Harrison si ergeva al centro dello studio. Stringeva ancora in mano il pomello sradicato della porta dello studio. Ballerine, tecnici, musicisti e annunciatori si erano rannicchiati in ginocchio davanti a lui, convinti di essere sul punto di morire.
«Sono l’Imperatore!» urlò Harrison. «Avete sentito? Sono l’Imperatore! Tutti devono fare immediatamente come dico io!». Sbatté un piede in terra e lo studio tremò tutto.
«Malgrado le menomazioni, le pastoie, i malanni» tuonò «sono il sovrano più potente di qualsiasi uomo mai venuto al mondo! E ora guardatemi diventare ciò che posso diventare!».
Harrison si strappò le cinghie dell’imbracatura delle sue pastoie, come se fossero di carta bagnata, cinghie concepite per sopportare un peso di duemilatrecento chili.
I rottami di ferro che rappresentavano le pastoie di Harrison caddero sul pavimento con grande fracasso.
Harrison infilò i pollici sotto il lucchetto che assicurava l’imbracatura intorno alla sua testa. Il lucchetto si spezzò come un gambo di sedano. Harrison distrusse cuffie e occhiali, scagliandoli contro il muro.
Gettò via la palla di gomma dal naso e mise in luce un uomo di cui Thor, il dio del tuono, avrebbe avuto soggezione.
«Ora sceglierò la mia Imperatrice!» disse, posando lo sguardo sulle persone rannicchiate. «Che la prima donna che osa alzarsi in piedi reclami il suo compagno e il trono!».
Trascorse un momento e poi una ballerina si alzò in piedi, ondeggiando come un salice.
Harrison le staccò la menomazione mentale dall’orecchio, le strappò di dosso con estrema delicatezza le menomazioni fisiche. Infine le sfilò la maschera.
La ragazza era di una bellezza abbagliante.
«Ora, facciamo vedere alla gente il significato della parola ballo» disse Harrison, prendendola per mano. «Musica!» ordinò.
I musicisti si affrettarono, con qualche impaccio, a raggiungere le proprie sedie e Harrison strappò via anche le loro pastoie. «Suonate al meglio delle vostre capacità e io vi farò baroni, duchi e conti».
La musica iniziò. Dapprima, fu normale: banale, sciocca, finta. Ma Harrison strappò due musicisti sulle sedie, li fece ondeggiare come bacchette mentre cantava la musica nel modo in cui voleva che loro la suonassero. Li rimise bruscamente sulle loro sedie.
La musica riprese, decisamente migliorata.
Harrison e la sua Imperatrice per un po’ si limitarono ad ascoltare la musica, ad ascoltare con aria solenne, come se stessero sincronizzando i battiti del loro cuore con il ritmo di quella musica.
Spostarono il proprio peso sulle punte delle dita dei piedi.
Harrison posò le sue grosse mani sul vitino della ragazza, facendole avvertire l’assenza di gravità che presto sarebbe stata sua.
E poi, con un’esplosione di gioia e grazia, i due spiccarono un balzo nell’aria!
Non solo vennero abbandonate le leggi della terra, ma pure la legge di gravità e le leggi del moto.
Fecero piroette, mulinelli, avvitamenti, scatti, balzi, capriole e volteggi.
Saltellarono come cervi sulla luna.
Il soffitto dello studio raggiungeva un’altezza di nove metri, ma ogni balzo vi avvicinava i ballerini, fino a quando fu chiaro che baciare il soffitto era il loro obiettivo, e lo baciarono.
E poi, neutralizzando la forza di gravità con l’amore e la mera forza di volontà, rimasero sospesi nell’aria a pochi centimetri dal soffitto e si baciarono per un tempo infinito.
Fu proprio allora che Diana Moon Clampers, il Grande Handicappatore, mise piede nello studio, armata di una doppietta di grosso calibro. Fece fuoco due volte e l’Imperatore e l’Imperatrice morirono ancor prima di cadere sul pavimento.
Diana Moon Clampers ricaricò il fucile. Lo puntò contro i musicisti e disse loro che avevano dieci secondi per indossare nuovamente le pastoie.
Fu in quel momento che il tubo catodico del televisore dei Bergeron si spense.
Hazel si voltò per dire qualcosa a George a proposito di quel blackout. Ma George era uscito dalla stanza per andare in cucina a prendersi una lattina di birra.
George tornò nella stanza con la birra e si fermò un momento mentre uno dei suoi suoni lo scuoteva tutto. Alla fine tornò a sedersi. «Hai pianto» disse a Hazel.
«Già» gli disse lei.
«Per cosa?» le disse.
«Non ricordo» disse la donna. «Qualcosa di molto triste in televisione».
«Tipo? » le chiese.
«È tutto confuso nella mia mente» disse Hazel.
«Dimentica le cose tristi» disse George.
«Lo faccio sempre» disse Hazel.
«Brava la mia bambina» disse George. Trasalì. Nella sua testa c’era il rumore di una sparachiodi.
«Cavolo… che botto! » disse Hazel.
«Puoi dirlo forte».
«Cavolo…. che botto!» ripetè Hazel
(Ottobre 1961)
L’ho ribloggato su cerumeletterario.it
Hazel
Non ho letto mai niente di Kurt Vonnegut, certo che in questo racconto la potenza di Harrison e la bellezza della sua Imperatrice, che ballano uno strepitoso rock ‘n roll e si baciano arrivando al soffitto, rimandano a eroi dei fumetti e a pellicole hollyvoodiane, sono l’altra faccia della frastornata e ridotta alla modestia coppia genitoriale.
Diana Moon, Dea lunare, potrebbe forse essere in associazione immaginaria con i lanci dei satelliti russi (Laika nel ’57 e Gagarin nel ’61), che in quel momento facevano dannare gli americani.
…nel racconto di K. Vannegut mi colpiscono le lacrime dei due meschini genitori, una fragile memoria del corpo senza la consapevolezza del pensiero…Una “innocua” falla nel sistema tecnologico repressivo del G. H. mirante alla omologazione delle masse…Ma è anche il racconto della non accettazione di un limite: da una parte la forzatura criminale di una società che nega ogni specificità alle persone, dall’altra una esaltazione del valore dell’individuo supereroe che proclama “Tutti devono fare immediatamente come dico io”. A un potere assoluto si alternerebbe un altro…In compenso, secondo me, il G. H. di oggi ci omologa facendosi però sentire tutti dei grandi eroi..