di Luca Chiarei
Dal Blog di Franco Arminio riporto un intervento del 18/9/2017 che mi ha fatto ancora una volta riflettere:
1. La poesia è una forma di pentimento. Tentiamo di farci il bene dopo che ci siamo fatti del male. 2.La poesia è il corpo che decide di parlare, è un’insurrezione della carne. 3.La poesia viene sempre da un confine, non è mai centrale. 4.La poesia è sguardo messo ad asciugare. Lo sguardo messo ad asciugare diventa parola. 5.La poesia non si fa con le tue parole, non ne hai. E non si fa neppure con le parole degli altri, non ci servono. 6.La poesia è un fallimento con le conseguenze migliori, ma è comunque un fallimento. 7.La poesia non c’entra niente con le cose che si capiscono e neppure con quelle che non si capiscono. 8.La poesia è un messaggio che viene dal corpo, una fitta dietro l’orecchio, un’arancia nascosta dietro un ginocchio, il fegato che chiede acqua, una piccola vela nella testa. 9.La poesia non sa e non deve sapere. La poesia deve vedere. 10.La poesia è un’intimità provvisoria col mistero. La poesia se ne va, resta il mistero.
Certamente se rivolgessimo la domanda, ma più che altro una affermazione, che pone Franco Arminio a 100 poeti o a 100 lettori di poesia, riceveremmo senz’altro 200 risposte diverse. Questo esito lo possiamo anche ritenere inevitabile e legittimo in quanto le diversità non possono certamente né essere “compresse” né censurate per quanto possano essere estranee alle nostre convinzioni; allo stesso tempo non possiamo limitarci a prenderne semplicemente atto come le “democrazia espansiva” dei social ci vorrebbe insegnare. Al contrario di questo orientamento prevalente che in nome della diversità da “valorizzare” accetta qualsiasi opinione in merito alla poesia (e non solo) senza discuterne, credo che sulle risposte possibili si debba ragionare perché non tutte sono equivalenti e alcune possono essere più convincenti di altre.
Se così non facessimo, ci limiteremmo all’affermazione banale che in fondo tutti i gusti sono gusti, affermazione condivisibile se parliamo di cibo da mangiare, molto meno se parliamo di cultura, arte, produzione artistica in generale.
Apprezzo molto l’opera culturale di Arminio, i suoi libri come il suo blog e le iniziative di cui si fa promotore; credo che dia voce ad una parte del paese che non ha alcuna rilevanza nei circuiti economici e culturali dominanti. E insieme apra delle prospettive culturali interessanti che in qualche modo reagiscono, non limitandosi a subirla, alla crisi del presente.
Nonostante ciò, o forse proprio per questo, questa riflessione sul senso della poesia l’ho trovata spiazzante. Intanto per il suo contenuto generale dal quale emerge una idea di poesia come una sorta di entità misteriosa, oscura ed esterna alla realtà ordinariamente percepita. In sintesi mi è apparso rientrare in quel filone particolarmente fecondo, soprattutto nei media generalisti, per il quale parlare di poesia significa avere a che fare con una specie di particolare religione, laica, ma pur sempre religione.
Non vedo quale altro senso sia possibile attribuire alle considerazioni finali: “La poesia non sa e non deve sapere. La poesia deve vedere. La poesia è un’intimità provvisoria col mistero. La poesia se ne va, resta il mistero.”
Di quale mistero si tratta? E se è così allora con la poesia non si può dire e comunicare niente se non sensazioni o emozioni? Sembrerebbe di si, se si afferma: “La poesia non si fa con le tue parole, non ne hai. E non si fa neppure con le parole degli altri, non ci servono.” Dunque fino ad oggi nessuno ha scritto poesia e se lo ha fatto è stato solo in virtù di stati modificati della coscienza o sotto l’influsso di ispirazioni che dal cielo, dalla natura selvaggia, dallo “spirito” sono scesi sulla terra?
Non vorrei apparire come un “teorico” dell’arte di matrice “illuminista” o razionale: è quasi banale dire che ogni espressione artistica trasforma la realtà e la rielabora e non è solo il prodotto di una semplice capacità tecnica, che pure si deve possedere.
Allo stesso tempo credo che per scrivere poesia si debba avere una idea, una concezione della realtà e dei contenuti che si intendono comunicare.
Se pensiamo alle massime realizzazioni poetiche nella nostra tradizione letteraria, dalle quali non è possibile prescindere anche nella nostra contemporaneità, come ad esempio la Divina Commedia di Dante, non siamo forse in presenza di un viaggio che è anche un percorso di vita – pianificato dal primo all’ultimo verso – con il quale il poeta interpreta il suo tempo nel quale è pienamente calato e lo giudica, lo analizza e propone la sua idea “politica” di cambiamento? E nello Zibaldone Leopardi non afferma in vari passi che la poesia nasce da una precisa concezione filosofica, anzi, che la poesia è un modo per declinare una concezione filosofica: poesia e filosofia per Leopardi sono ”…le facoltà le più affini tra loro, tanto che il vero poeta è sommamente disposto ad esser gran filosofo, e il vero filosofo ad esser gran poeta, anzi ne l’uno ne l’altro non può esser nel gener suo né perfetto né grande, s’ei non partecipa più che mediocremente dell’altro genere…”(Zibaldone). Una posizione difficilmente conciliabile con l’affermazione che “La poesia è un messaggio che viene dal corpo, una fitta dietro l’orecchio, un’arancia nascosta dietro un ginocchio, il fegato che chiede acqua, una piccola vela nella testa.” Belle immagini certamente, ma per dire che cosa…?
In questa concezione para-religiosa della poesia che mi pare emergere da questo decalogo, il poeta oggi diventa una sorta di sacerdote privilegiato che si offre al giudizio del pubblico (slam poetry?…) oppure al suo intrattenimento colto (reading…?) e lo fa con cerimonie e riti precisi – si legge di poesie bruciate nel fuoco, appese per le strade, agli alberi…- con i quali annuncia le sue indiscutibili verità al mondo.
“La poesia è il corpo che decide di parlare, è un’insurrezione della carne.” In che senso? Dobbiamo tornare a contrapporre il corpo e l’attività della mente? E perché? Per quale motivo la carne dovrebbe insorgere? La consapevolezza di sé non è una condizione possibile nel quale entrambi questi momenti possono convivere e tutto questo non può diventare poesia?
Mi è poi capitato tra le mani l’ultimo libro di poesie di Arminio “Cedi la strada agli alberi” ed. Chiarelettere e lo spiazzamento è continuato. Da una parte per la perentoria affermazione di Saviano che ci avverte che “Franco Arminio è uno dei poeti più importanti di questo paese“…dall’altra perché mi aspettavo che riflettessero lo spirito di questo decalogo: non è esattamente così. A parte le poesie della sezione più intimista “Poeta con la famiglia”, nella quale Arminio si rivolge attraverso se stesso alle relazioni personali intessute negli anni, comunque con risultati apprezzabili:
“Io recrimino sul mondo
sempre più sfinito e astratto
mio padre non pensa al mondo
ma solamente al pianto”
Poesie come “Pietrantonio” e quelle rievocative del terremoto e versi come i seguenti, che stralcio da vari testi, hanno poco di misterioso e/o mistico arrivando con diretta evidenza non solo al cuore ma anche all’intelligenza del lettore:
“la tavola del mondo è inospitale.
Un dio barbaro getta i sassi
dal cavalcavia”
…
“venticinque anni dopo il terremoto
dei morti sarà rimasto poco
dei vivi ancora meno”
…
“l’Italia di oggi
ha perso miseria e garbo,
ha perso l’altezza e la bassezza
è tutto un viavai di pensieri
a mezz’aria”
E lo fanno in forza della parola che serve, eccome se serve, a declinare una riflessione personale sulla realtà che deforma lo spazio che circonda Arminio e tutti noi. In questo senso speriamo che ci siano ancora alberi a cui cedere il passo, altrimenti andiamo a piantarli, anche quella sarebbe poesia urgente, forse…
APPUNTI IN VISTA DI UN *CANTIERE SULLA POESIA*
1.
Questa riflessione di Chiarei offre già degli spunti di riflessione per il nostro *cantiere* sulla poesia. (Un altro, che avevo quasi dimenticato, di due anni fa mi è stato riproposto proprio ieri su “Poliscritture FB” per automatismo del sistema: https://www.poliscritture.it/2015/11/27/quale-poesia-oggi-orbilius-vs-samizdat-e-viceversa-narratorio/).
2.
Autoraccomandazione. Io ripartirei dal riconoscimento che non sappiamo che cosa sia la poesia, che abbiamo da imparare da tutti; e che le risposte verranno, se verranno, alla fine di una seria ricerca. Magari ricontrollando ( e mettendo temporaneamente tra parentesi ) quelle che abbiamo sulla punta della lingua o sono frutto di nostre passate letture.
3.
Chiarei fa bene a chiedersi cosa sia la poesia partendo da questo testo di Franco Arminio e dalla lettura di una sua raccolta. E fa bene anche a rifiutare che, per un malinteso rispetto della “diversità”, tutte le risposte a questa domanda vadano bene. (Un altro spunto ancora: tanti anni fa – 26 maggio 2010 – feci la stessa obiezione a Giuseppe Muraca sostenitore della tesi che «La poesia ha cento strade» (http://www.backupoli.altervista.org/IMG/Abate_QUALE_POESIA_OGGI_26_MAG_2010.pdf).
4.
Quando passa ad analizzare il caso concreto di Arminio e gli contesta che le sue definizioni della poesia la ricollocano nel campo di una « particolare religione, laica, ma pur sempre religione» , chiederei di essere più preciso: sì, Arminio sta dentro un filone romantico e orfico di poesia lirica, ma qual è questa sua religione? Bisognerebbe capire meglio. E senza timore di apparire succube di una visione della poesia o dell’arte di « matrice “illuminista” o razionale», che oggi – si dice – è passata di moda.
5.
A differenza di Chiarei, non credo che « per scrivere poesia si debba avere una idea, una concezione della realtà e dei contenuti che si intendono comunicare». Questa idea non può essere una *premessa* o *precondizione*. Sarebbe troppo burocratico. Perché l’idea della poesia (e della propria poesia) si costruisce nel tempo, nel fare ( o tentare di fare) poesia. Non è pianificata o pianificabile. Manco Dante pianificò e poi scrisse in poesia la «Commedia». Certo le sue conoscenze filosofiche e l’adesione al tomismo alimentarono al momento della scrittura la sua ricerca poetica. Ma egli fa altra cosa rispetto ad un filosofo. Usa la stessa * materia filosofica* , ma fa altro. E lo stesso modo leopardiano di « declinare una concezione filosofica» non è riducibile alla pura filosofia. (Ricordo la polemica di Fortini contro Negri o Luporini o altri, che secondo lui riducevano il poeta Leopardi a filosofo). Insomma e semplicemente: il poeta non è un filosofo che si traveste da poeta. L’affermazione di Leopardi: « il vero poeta è sommamente disposto ad esser gran filosofo, e il vero filosofo ad esser gran poeta» non fa saltare le distinzioni tra i due generi di ricerca. Guardare alla filosofia da poeta è cosa diversa che guardare alla poesia da filosofo. Anche se dovessimo trovare in un autore punti di sovrapposizione tra poesia e filosofia ( o tra poesia e politica, ecc.) o di indecidibilità. Del resto, credo che anche Nietzsche, pur avvicinandosi tanto nella sua scrittura ad uno “stile poetico”, resti fondamentalmente filosofo.
6.
A me pare che Chiarei, per sottrarsi alla suggestione del tipo di poesia romantica di Arminio (ma il discorso andrebbe esteso a moltissimi altri poeti; e non li nomino per non distrarmi dal ragionamento), si aggrappi aipoeti-pensatori come Dante e Leopardi. Che sono di sicuro inconciliabili con chi, come Arminio, sostiene: «La poesia è un messaggio che viene dal corpo, una fitta dietro l’orecchio, un’arancia nascosta dietro un ginocchio, il fegato che chiede acqua, una piccola vela nella testa.». In sostanza, però, la sua critica ad Arminio si riduce a notare una contraddizione: le sue discutibili affermazioni di poetica sarebbero smentite dalla sua pratica che lo dimostrerebbe comunque poeta. Ma allora in cosa consiste la poesia di Arminio? In cosa si distingue da quella di altri poeti? Questo problema per ora mi pare eluso. Non voglio ora dare io una risposta. Ma credo che l’affermazione di Arminio ( « La poesia è un messaggio che viene dal corpo ») riecheggi pratiche poetiche e teorie (penso al filone psicanalitico, alle esperienze di Artaud, al femminismo) che andrebbero ripercorse e valutate.
…Molto interessante l’articolo di Luca Chiarei che invita a riflettere sulla poesia, partendo da uno scritto di Franco Armonio. Ma non ho provato alcuno “spiazzamento ” leggendo i dieci punti introduttivi, in quanto non penso che pretendano di dire “Che cos’è la poesia…”, ma esprimono alcuni sentimenti, emozioni, convinzioni che accompagnano la scrittura poetica, pertanto legate all’esperienza soggettiva del fare poesia. Come lettrice più che come autrice mi riconosco in particolare nelle prime due, solo anzichè “pentimento” direi riparazione, come se gli esseri umani fossero normalmente “fuori asse” e si sforzassero con la poesia di “rimettersi in linea”, cioè di dare una voce unica alle ragioni della mente. del sentimento e dell’istinto, anche ” …il corpo che si decide di parlare..un’insurrezione della carne.”
Per Luca Chiarei, Arminio affermerebbe una poetica ideologica che si sovrappone al suo effettivo fare poesia, ma la contraddizione tra poetica e scrittura, che Chiarei accentua, sarebbe di per sé un problema da interrogare.
Un piccolo passaggio per comporre quella contraddizione lo trovo nelle due frasi del decalogo di Arminio, apparentemente “orfiche” e romantiche.
Al punto 2 del decalogo Arminio scrive: “La poesia è il corpo che decide di parlare, è un’insurrezione della carne”; e al punto 8: “La poesia è un messaggio che viene dal corpo” con le immagini seguenti che servono a mettere in luce una eterogeneità: arancia e ginocchio, piccola vela e testa dicono una eterogeneità propria della poesia, tra materialità del corpo che scrive e astrattezza della scrittura. (E questa è una riflessione filosofica.)
Quale materialità, dove è il corpo? Per esempio nella rima, per un effetto che questa produce, secondo Mannacio, in uno scritto che potremo vedere presto. La rima, dice Mannacio, non è una parola ma un rapporto tra elementi del testo (del “corpo” della poesia) e stabilisce un percorso all’indietro mentre si procede, una retroazione interna come fa qualunque gesto umano con l’emozione di cui è seguito e che rinforza.
Ecco il corpo che decide di parlare, con i suoni parla all’udito esterno e interno, e insieme stabilisce legami di tipo logico, affinità, contrasti, echi, che sono processi mentali. Insorge e fa il corpo della poesia.
COS’E’ LA POESIA.
1.
Alcune delle definizioni proposta da Arminio nel suo decalogo sono davvero geniali e da ammirare. Hanno la forza suggestiva degli aforismi. Ma tutte anziché sciogliere l’enigma lo complicano introducendo nel suo nodo intrecci ulteriori.
Non è “ colpa “ né di Arminio né dei lettori. Tale affermazione non vuole essere un facile assoluzione- Dice Shakespeare – “ una confessione enigmatica esige un’assoluzione enigmatica “ ( Romeo e Giulietta atto II , scena III ).Dunque perché definirla? Rilke – che accoppiava autenticità di poeta e rigore di sperimentatore – si rifugia da un lato nell’enunciazione negativa che “ i versi NON sono sentimenti “ e dall’altro nella descrizione del processo attraverso i quale si passa dai ricordi al testo poetico, ma non definisce la poesia (I quaderni di Malte Laurids Brigge, Adelphi 1992, pag. 21 ) . Persino gli scienziati – di fronte ad alcuni fenomeni coinvolgenti la totalità dell’esperienza umana come il sonno e i sogni si rifugiano saggiamente in rilievi analitici che descrivono il modo di manifestazione di essi ( vd. ad esempio. M. Mancia: Sonno & sogno , Ed Laterza 1996, pag. 3 ).
2.
Per la poesia le difficoltà della sua definizione sono particolarmente complicate se confrontate con quelle che possono essere utilizzate per altre arti, in questo mostrando una parentela molto stretta con la musica, ammesso che conservi la propria dignità teorica, la definizione dell’arte di aristotelica memoria ( arte come imitazione della natura ). Il viso, il paesaggio, il frutto dipinti si possono confrontare con il viso di una creatura umana, con la visione di una marina, con un cesto di melograni. Ma la poesia con cosa può confrontarsi? Non esiste una entità precedente il testo poetico quale che sia ( scrittura o declamazione orale ) il mezzo della sua manifestazione.
La poesia non pietrifica lo spazio nelle sue tre dimensioni reali, come fa la scultura. Non costringe la visione nell’inganno di linee chiuse, come fa la pittura. Non cattura suoni e rumori nella proporzione dei numeri come fa la musica.
Dunque prima di dire cos’è la poesia, dobbiamo porci il problema di cosa fa, DI SUO.
3.
Nel generico e banale rilievo che la poesia è una esperienza umana è contenuta l’esigenza che di essa vada esplorato anche il “ significato “ umano “ cioè la sua direzione: come è nata la poesia, perché si scrivono versi?
Ma è proprio questa la prima difficoltà che si deve affrontare? In questa direzione si può risalire alle origini e avere qualche indicazione interessante. Ma la Natura fa il suo cammino e la Cultura il suo. I rapporti tra di loro sono continui e in parte inesplorabili, sicché è fuorviante chiedersi chi sia nata prima. Certo non possiamo più cullarci nell’idea della funzione magica dei versi. Dobbiamo fermarci senza dimenticare, per quanto occorra.
Va piuttosto rilevato che la Poesia presenta alcune particolarità rispetto alle altre arti; e ritorno alla pittura e alla scultura . Queste ultime incontrano una sorta di “ opacità “ nei materiali sui quali l’artista agisce. Il marmo è materia bruta; i colori, le tele, i legni anche. L’artista deve in qualche modo agire su di essi, renderli significativi assemblando i vari elementi di cui abbiamo visione per così dire solitaria ed autonoma.
Lascio da parte – magari ci si può tornare su – la tematica degli “Oggetti trovati “, degli “ Eventi “ ( secondo termini politicamente corretti ), delle trovate mercantil-politiche di molti artisti contemporanei per tornare al punto. Il poeta non ha davanti a sé una materia bruta da dominare ma trova GIA’ la propria materia ben formata: il linguaggio. E’ dentro di noi, non fuori. E’ con questo che deve operare. Al poeta non occorre nessuna abilità tecnica per usare la lingua. Semmai per deformarla totalmente. Può essere una proposta. Ma a quale prezzo? Quello della incomunicabilità. Anche questa può essere una proposta da considerare.
Si tratta ovviamente di “ provocazioni “ salutari però per impostare un discorso su cos’è la poesia.
Nel momento in cui osserviamo che il materiale di essa è alla portata di tutti, l’esigenza di stabilire criteri differenziali tra lingua poetica e lingua “ comune “ diventa ineludibile. Sempre che non si pronunci l’amara sentenza della impossibilità di una distinzione e, dunque, della sua estinzione.
Avverto che l’espressione “ lingua comune “ non ha significato spregiativo o classista. Con essa intendo riferirmi alla lingua attraverso la quale una certa comunità pone e definisce rapporti sociali di diverso tipo, li vive e li consuma.
4
E’ la lingua comune che serve a scrivere leggi, a comprare prodotti, a stipulare contratti, a fare propaganda commerciale e politica a comunicare notizie, a dettare precetti morali e – dulcis in fundo – perché no? – anche a manifestare sentimenti di differenti qualità.
Quale tra queste funzioni attribuiamo propriamente alla Poesia ? L’ultima funzione della lista ci sembra la più conveniente al Poeta . Ma alcuni pensatori ci dicono di no e noi stessi- semplici sperimentatori di questa esperienza – sappiamo bene che i sentimenti buoni o cattivi non sono garanzia, rispettivamente, di buona o cattiva poesia. Anche i semplici amanti della poesia incontrano tale esperienza , attratti soprattutto dalla “ maestria “ con la quale i sentimenti sono trattati. Ma non voglio entrare nel campo minato dei “ giudizi di gusto “ né affrontare il tema in che cosa consista tale maestria. E’ – invece – interessante analizzare la struttura comunicativa della poesia che ha – a mio giudizio – una particolarità interessante rispetto a quella della lingua che ho chiamato comune. Quest’ultima ha un destinatario definito o definibile. Il legislatore indirizza le norme alla polis di cui si può stabilire anche l’entità numerica: la richiesta di acquisto si rivolge al venditore e così via. La Poesia non si rivolge ad alcuno o una moltitudine indefinibile. La dedica a persone individuate nominalmente NON E’ destinazione del messaggio poetico ma solo una consuetudine di relazione mondana. La poesia non ha fini pratici e si giustifica indipendentemente dal risultato e solo per il suo manifestarsi. Viene respinta o accettata per quello che rappresenta ma tali atteggiamenti non comportano alcuna conseguenza se non quella – tutta interna al fruitore – di uno spostamento spaziale e temporale che è reale quanto all’effetto sul lettore ( anche ciò che i sensi avvertono leggendo appartiene alla realtà ) ed è irreale rispetto al mondo esterno perché ne mancano gli elementi materiali che chiamiamo oggetti.
5.
Una cosa è la ragione del PERCHE’SI SCRIVE IN POESIA e altra cosa SONO LE RAGIONI DELLA POESIA.
La prima questione è oggetto di indagini antropologiche e psicologiche. Si può arrivare allo struggente desiderio di una sorta di immortalità? I filosofi riscontrerebbero – forse – in tale ragione una sorta di contraddizione in termini dato che l’immortalità basta ed avanza rispetto ad ogni altro desiderio.
Così ci rifugiamo nella ricerca delle RAGIONI DELLA POESIA e cioè in quella delle condizioni attraverso le quali la poesia produce gli effetti che la caratterizzano. Sembra che a tali effetti siano convenienti una serie di particolarità come: parlare anche dei morti e con i morti; attualizzare il passato; proiettarsi nel futuro; scostarsi in vario modio dal comune linguaggio ovvero adoperarlo per fini diversi da quelli che ad esso sono propri; creare collegamenti tra le cose o trovarli….Ogni persona che incontra un’esperienza poetica cerca in questa direzione e con fortuna e/o abilità la trova. O spera di trovarla. Mi chiedo sempre perché al poeta – a differenza di altri artisti cui si chiede perizia, impegno, fatica, pazienza e così via – debba essere concesso il PRIVILEGIO di usare “il linguaggio comune “. La maiuscola è usata pour cause ma ciascuno la legga come vuole.
“ Solo gli insegnanti di fisica di provincia che bevono qualche birra di troppo possono pensare che la poesia sia campo di assoluta libertà “ ( A.Zagajewski: Ordinario e sublime- Tre saggi sulla cultura contemporanea – Ed, Casagrande – Bellinzona 2012, pag. 40 ) . G.Mannacio.
“Così ci rifugiamo nella ricerca delle RAGIONI DELLA POESIA e cioè in quella delle condizioni attraverso le quali la poesia produce gli effetti che la caratterizzano. Sembra che a tali effetti siano convenienti una serie di particolarità come: parlare anche dei morti e con i morti; attualizzare il passato; proiettarsi nel futuro; scostarsi in vario modio dal comune linguaggio ovvero adoperarlo per fini diversi da quelli che ad esso sono propri; creare collegamenti tra le cose o trovarli….” (Mannacio)
Vari dubbi. Mi pare troppo netta ( e non spiegata nelle sue ragioni storiche e, secondo me, classiste) la distinzione tra *lingua comune* ( senza connotazione dispregiativa, certo) e *lingua della poesia*. Un secondo dubbio: quali rischi si corrono quando a chiedersi *perché si scrive poesia* o a cercare le *ragioni della poesia* sono quasi esclusivamente gli abituali “addetti” alla poesia? Terzo dubbio: certo «la poesia non ha fini pratici» (espliciti), ma come i fini pratici (espliciti) vengono sottoposti a continue indagini e sono oggetto di scontri politici e sociali e non si giustificano «indipendentemente dal risultato e solo per il [loro] manifestarsi», perché questa necessità di indagine e di dibattito non dovrebbe valere per la poesia? Solo perché la pratica o la lettura di poesie non avrebbe «alcuna conseguenza se non quella – tutta interna al fruitore – di uno spostamento spaziale e temporale che è reale quanto all’effetto sul lettore ( anche ciò che i sensi avvertono leggendo appartiene alla realtà ) ed è irreale rispetto al mondo esterno»?
Ne siamo certi?
Tra l’altro« parlare anche dei morti e con i morti; attualizzare il passato; proiettarsi nel futuro; scostarsi in vario modo dal comune linguaggio» non mi pare siano prerogative della sola poesia. O, se queste operazioni vanno considerate *poetiche*, vuol dire che una spinta “poetica “ affiora più o meno mascherata o appesantita da altre esigenze anche in altre esperienze umane conoscitive (dei filosofi, degli storici) o pratiche (militanti politici, della gente comune).
@ Ennio
Ingiusto pretendere da parte mia un risposta completa ad un testo divagante come il mio. Complesso no di certo, perché il suo nucleo centrale era : esiste una differenza tra “ linguaggio comune “ e “ linguaggio poetico “ Ma una breve replica è necessaria. La distinzione è ointerna
ad ogni sistema politico e allora che senso ha rimproverarmi che non ho approfondito l’aspetto classista di tale distinzione ? Ho forse detto che i non poeti sono cittadini di rango inferiore ? Ho semplicemente detto che il poeta – quando agisce come tale – usa un certo tipo di linguaggio. Tutto qui. Solo i regimi dittatoriali ALLO STATO PURO hanno un solo linguaggio.
L’osservazione che non sarebbe esclusivo della poesia il parlare dei morti, con i morti, del passato e del futuro …… etc è giusta ma non è un argomento contro la mia idea ma – forse – solo una conferma della compresenza di campi di esperienza diversi cui possono corrispondere linguaggi diversi su oggetti identici. Perché sorprendersi che vi sia – e non sempre – una sorta di specializzazione nei discorsi sulla poesia ? Non avviene così in tutti i campi del sapere ? Si è forse nemici del popolo solo per questo ?
Se vogliamo parlare di rapporti tra poesia e politica dobbiamo affrontare il discorso delle scelte ideologiche che – a mio giudizio – guidano l’editoria . Troveremmo sorprese imbarazzanti, ma questo è un altro discorso sul quale non è mancata qualche mia osservazione.
Un cordiale saluto. Giorgio
@ Mannacio
Io non *rimprovero* nessuno, tantomeno te. Cerco di porre dubbi e problemi. Che li ponga a partire dai testi tuoi o di altri non dovrebbe preoccupare o irritare nessuno.
e se dicessimo che tentar di definire la poesia è solo un vuoto esercizio intellettualistico?
@ Grandinetti
E se rifiutare il tentativo di definire la poesia fosse un vuoto esercizio per non scoprire e magari giustificare o semplicemente sorvolare sui trucchi, i rimossi, la falsa autenticità, le pretese conservatrici o persino reazionarie della poesia?
@ Ennio
A rimproverarmi mancavano le virgolette. Ti prego dunque di mettervele come hai fatto tu.
Non sono preoccupato o irritato – ma anzi interessato – per le tue risposte. Ma a volte – come è logico che sia – le controrisposte sembrano irritate. Se è stato così mi scuso.
Giorgio.
Sulle posizioni “sacerdotali” di Franco Arminio avevo già risposto scrivendo sul blog di Luca Chiarei. Non ho potuto trattenermi dal leggere l’autorevole parere di Giorgio Mannacio, con il quale mi trovo sostanzialmente d’accordo.
Pongo solo una domanda:
– fine del novecento e conseguente fine di un qualsiasi canone estetico di riferimento.
Eppure sembra a me che i poeti scrivano naturalmente spinti in direzione del verso strutturato, entro il quale far scorrere, con arte e sensibilità, il proprio linguaggio e lo stile. Perché lo fanno? Perché la struttura determina anche il modo di concepire la poesia. Ma cosa succede se l’architettura del verso si rivela inadeguata alle capacità comunicative di oggi? Ecco, secondo me non è tanto problema di linguaggio ( lessico e stile) quanto piuttosto di velocità, cambio-immagine, corto e lungo metraggio… termini nuovi per l’apparato critico. E non sarebbe una novità.
@ Mayoor
1.
«– fine del novecento e conseguente fine di un qualsiasi canone estetico di riferimento».
Non è automatico. Forse un canone (una regola) indiscusso non c’è più. Ma non è detto che canoni impliciti non sussistano anche nell’apparente caos o assenza di riferimenti. (Rifletterei sull’ipotesi di Paolo Giovannetti che ho citato a proposito della rima: «Paolo Giovannetti nel suo nuovo libro «Poesia italiana degli anni Duemila» (Carocci 2017) – che « molta lirica moderna ha fatto di tutto per negare la rima, per affidarsi a pronunce non più condizionate dal peso dei suoni». E che non esiste più una regola certa e condivisa: «è come se ogni volta si dovesse ridefinire le regole. Scrivere e leggere poesia ha molto a che fare con questo gioco a rimpiattino, che a ben vedere costituisce la vera norma, il vero fondamento linguistico di una certa poesia d’oggi. La regola consiste in un *uso aperto della regola*»)
2.
« Ma cosa succede se l’architettura del verso si rivela inadeguata alle capacità comunicative di oggi?»
Mi pare che tu ti riferisca al mondo dell’audiovisivo o del cinema (velocità, cambio-immagine, corto e lungo metraggio).In cosa consisterebbero le «capacità comunicative di oggi»? E’ sicuro che siano più *comunicative* di altre precedenti?
1 – E’ da oltre un secolo che non si fa altro che tentare di stabilire nuove norme, ogni volta sulla base di considerazioni critiche più o meno valide e attendibili, non capisco perché d’improvviso qualcuno sollevi il dito per dire: Eh no, non si fa! “l’uso aperto della regola” andrebbe letto come nuova regola? Via, gelosie ce ne sono sempre state, anche ostracismi, vendette e sospetti; ma soprattutto interessi personali, per non dire aziendali ai vari livelli. E pregiudizi. Nessuno ha più voglio di approfondire, meglio andare sul sicuro ( fallimento).
2 – Sì, mi riferisco al mondo dell’audiovisivo. Ma è solo un esempio, per dire che servono nuovi strumenti di critica. Basti pensare alla nascita dell’astrattismo: con quali strumenti un critico di fine ottocento poteva valutare l’opera di Kandinsky? Anche allora servirono nuovi metodi, nuovi termini, nuove letture.
Sulla scrittura breve e sul frammento ho le mie idee, ne scrissi proprio ieri in un commento che trascrivo ( mi scuso per l’auto citazione)
“La novità del web sta nello scambio immediato, nell’interattività. Prima non era possibile. Il mezzo non consente lungaggini, prima si arriva al dunque e meglio è. Questo vale anche per le immagini ( le opere di pittura, in quanto ferme per sempre, hanno fatto il loro tempo). Quindi andrebbero considerati due fattori che considero funzionali all’interattività: la brevità e il movimento.
Brevità nel tempo di lettura: pochi secondi, quasi lo stesso tempo di un cambio immagine – 3 secondi per uno spot sono più che sufficienti, si può fare di più nei lungometraggi, ad esempio nelle panoramiche ma serve il grande schermo –. ( …) il montaggio riveste un ruolo determinante. Mi rendo conto di dire cose poco gradevoli ma è così. Queste cose le aveva già bene individuate Luigi Manzi in Fuorivia. Ma sono presenti nella scrittura di Tomas Tranströmer. Poesia non ne risente, diventa solo più difficile arrivarci. Comunque non saremmo lontani dalla composizione breve di haiku, tanka o chōka. Nella poesia irrompe l’immagine, è con questa che bisogna fare i conti”.
I poeti in vita, raramente si sono limitati a ripetere forme espressive a loro precedenti. Il mondo cambia, forse non nella sostanza ma nelle modalità e nei comportamenti, sì.
@ Mayoor
1.
Sì, anche “l’uso aperto della regola” potrebbe diventare una nuova regola. Come lo potrebbe diventare « meglio andare sul sicuro (fallimento)». Gelosie, ostracismi, vendette e anche interessi personali sono solo la schiuma dei possibili mutamenti cui aspirano confusamente individui o gruppi più o meno organizzati. E ho sempre pensato (e sperimentato) che il campo della poesia non è un’oasi. Fosse pure irrilevante oggi sul piano economico o del prestigio che somministra, è conflittuale quanto qualsiasi altro. Magari in esso è solo più raro che si arrivi agli omicidi .
2.
Concordo sulla necessità di «nuovi strumenti di critica». L’ho costantemente ripetuto da anni. Ma quali dovrebbero essere?
Riaffermo il punto che per me è di sostanza e che formula nell’intervista che mi fece nel 2013 Partesana così:
«Se ho capito bene, tu auspichi una sorta di liberazione dalle strettoie della critica letteraria ufficiale, verso una più ampia collettività di lettori-critici. Mi pare, però, che tu abbia saltato a piè pari il “giudizio di valore” sull’opera poetica. Come ben sappiamo spesso hanno successo opere di livello assai mediocre, fortunate perché l’autore è già noto per altre faccende, o perché spinte da gruppi con potenti e non sempre disinteressati intenti nel mondo culturale. Vuoi, per favore, farci capire come intendi distinguere – per dirla nel modo più rozzo – tra poesia esodante bella e poesia esodante brutta?
Ti dico subito, e con una formula, la mia tesi: La poesia (esodante o meno) è bella e brutta, ma nella poesia esodante quello che conta/conterà è la fluidità del rapporto tra i due poli del bello e del brutto. Un certo pensiero estetico trascura questo punto per me decisivo; e contrappone i due poli, gerarchizzandoli, facendone degli assoluti, cedendo a una subdola ottusità elitaria. Ed esso risulta anche convincente per il senso comune, perché, a livello empirico, le differenze di qualità (fra testi riusciti o non riusciti ma anche fra le facoltà mentali, intellettuali e corporee degli individui) saltano all’occhio, sono evidenti, accertabili, innegabili.
Se però ci riflettiamo, questo pensiero estetico ha due gravi difetti:
1. come una maschera nasconde una sorda resistenza contro quelle ricerche poetiche e artistiche veramente non canoniche, che riescono dinamicamente a mescolarsi con il comune, il molteplice e persino col banale, il brutto, il non riuscito;
2. dimentica e fa dimenticare che la gerarchia – presente in ogni giudizio estetico – fissa a livello simbolico (e quasi sempre a vantaggio di pochi, che però parlano in nome di tutti) un valore, il quale – attenzione! – è anche un segno di violenza e non solo di razionale o impersonale evidenza. Non voglio scandalizzare, ma mi sento di affermare: c’è un bello che “violenta” il brutto, lo mette fuori gioco, lo esclude, impedisce la sua funzione, irrinunciabile per me, di negazione della pericolosa “dittatura” del Bello assoluto. Questo non mi va. In ogni campo, anche in quello estetico, posso accettare, sì, una gerarchia includente, mai una gerarchia escludente. Qui il mio giudizio si fa politico-estetico: stabilire una gerarchia escludente (ad es. Croce: poesia e non poesia) ha avallato, sul piano simbolico-linguistico, inaccettabili soprusi, che sono omologhi a quelli storici sedimentatisi, con violenze materiali smisurate, nelle nostre società diseguali e conflittuali. Continuo, dunque, a immaginare che eccellenza e mediocrità, bellezza e bruttezza potrebbero avere un altro senso: includente appunto e non escludente. Di più: che bellezza e bruttezza – per me valori e disvalori provvisori, storici e dunque rimodellabili in sempre nuovi ordini, anche gerarchici, però nuovi e fluidi – debbano dialogare tra loro per trasformarsi anche conflittualmente. L’atto giudicante, che separa il bello dal brutto, l’eccellente dal mediocre, il riuscito dal non riuscito, è per me umano, soggettivo; deve cioè restare sempre rivedibile, mai presentarsi come oggettivo e definitivo. Non mi arrischio ad ipotizzare una base comune tra bello e brutto. Più praticamente sento fecondi gli scambi, le contaminazioni, le dialettiche (non a senso unico).»
(https://www.poliscritture.it/2015/08/03/sulla-poesia-esodante-intervista-2013-di-ezio-partesana-a-ennio-abate/)
3.
Sono contrario al feticismo (apolitico e apparentemente neutro) che ti ha condotto all’esaltazione della *scrittura breve* e del *frammento* ( o della brevità e del movimento).
Di botto – ma c’è stato il precedente (problematico) dei futuristi – dovremmo abolire il tipo di ricerca che è stato possibile fare solo attraverso le scritture “lunghe” (saggi, poemi, trattati, romanzi)? O tutte quelle che non siano riducibili o non vogliono fermarsi alla raccolta del pulviscolo di frammenti, appunti, trucioli, sensazioni?
E solo perché è arrivato il Web? Anzi perché ad una parte certo rilevante dell’umanità (escludendone un’altra ben più numerosa) è stato *imposto* di comunicare *solo* attraverso il Web?
Tu sorvoli i limiti e i danni (di vario genere) che comporta questa *imposizione* di un certo tipo di interattività da parte di grandi multinazionali. Accetti quello che è il dogma oggi dominante: «Il mezzo non consente lungaggini, prima si arriva al dunque e meglio è. Questo vale anche per le immagini ( le opere di pittura, in quanto ferme per sempre, hanno fatto il loro tempo).».
E se la mela che la Strega ci ha donato fosse avvelenata e non solo nuova, bella e progressiva?
Perché dovremmo abbreviare il tempo di lettura di un testo a «pochi secondi, quasi lo stesso tempo di un cambio immagine»? Sempre e indipendentemente dalle circostanze? Il tempo di vita è diventato tempo di lavoro? E’ una costrizione o una libera scelta? Non abbiamo alternative?
Non è che dici cose «poco gradevoli». A me sembra che ti sia imposto e propagandi presso gli altri il passaggio rassegnato alla *neolingua* di massa. Le autorità che ti sei scelto ( Manzi, Tranströmer, la tradizione degli haiku, tanka o chōka) convalidano davvero questa tua “poetica”? Non lo so. So – come minimo – che le ragioni con cui sostieni questo che a me pare un nuovo feticismo vadano verificate a fondo. E che, quando commenti o testi lunghi come questo sul Web non compariranno più o i poeti adotteranno il “decalogo” di Arminio, Loro avranno vinto.
può darsi che le mie posizioni siano conservatrici s non addirittura reazionarie: comunque non mi pare nè utile nè serio definire la poesia come un pentimento o uno sguardo messo ad asciugare o altre amenità del genere.
@ Grandinetti
Ah, neppure a me. Non sono questi i tentativi di definizione a cui io penso.
il buon giordano bruno a suo tempo diceva (cito a memoria) che tanti sono i geni (generi) di poesia quanti sono i geni di poeti,rifiutando così di cercar qualunque definizione di poesia.però è giusto che ognuno tenti.certo se si troverà la formula allora saremo tutti dei grandi vati.per adesso contentiamoci di tentare e chi meglio chi meno bene riuscirà a far passare i suoi messaggi.quanto alle definizioni un p0′ bizzarre (scusami l’eufemismo) marino ai suoi tempi scriveva “è del poeta il fin la meraviglia” ma poi aggiungeva “parlo dell’eccellente e non del goffo”
@Ennio
mi trovo d’accordo con quanto dici su bello e brutto. La musica si posa ovunque e non fa distinzioni. In natura, le cose tra loro differenti convivono senza problemi. Il bello escludente è anche per me una stronzata (il termine è voluto). Bisogna però capire che il buon esito di una ricerca artistica ed estetica non può derivare dal compromesso – si sa che in arte la democrazia non ha vita facile.
Non credo, invece, di star facendo propaganda per la “neolingua” di massa. Il linguaggio del nostro tempo, come in passato, non lo decidono i poeti. A loro se mai tocca di farne buon uso; gli tocca cioè di adoperarsi per evitare il tracollo verso derive – oggi dovute alla tecno efficienza – di scarsa creatività e atteggiamenti di subordine e passività; insomma di mantenersi critici e creativi. Non c’è nulla di facile in quello che si tenta di fare con i mezzi offerti dall’epoca che stiamo vivendo. Certo, ciascuno è libero di rifiutarla in toto, quest’epoca, di comportarsi e scrivere come nulla fosse.
Ho parlato di Manzi perché nel libro Fuorivia dà magnifico esempio di costruzione che possiamo definire cinematografica ( secondo me , caso rarissimo in Italia) e di Tranströmer per lo stesso motivo ma con in più una capacità descrittiva che traendo le proprie origini dal surrealismo porta a esiti di altissima e nuova poesia. Poi il mio interesse si è spostato verso autori europei, e questo mi è servito per capire alcuni limiti del panorama letterario italiano, segnato dal verismo e ancora oggi da Montale. Dico per grandi linee. Con ottime eccezioni, sicuramente, ma che sono rimaste ai margini. Tu sei per il pensiero cosiddetto forte, io invece ammetto di essere un prodotto del pensiero debole – poca memoria e incapacità di reggere lunghi pensamenti – ma ho letto qualcosa di Lyotard e altri, quindi me ne sono fatta una ragione.
SEGNALAZIONE
@ Mayoor (in particolare)
Ecco un’altra risposta alla domanda “cos’è la poesia?”: quella pasoliniana della ricerca del sacro o della ierofania, sulla cui scia mi pare che tu e alcuni del “L’Ombra delle Parole” vi siate messi (non so con quanta consapevolezza o coerenza) :
La poesia come forma del sacro
7 dicembre 2017 di Le parole e le cose
di Caterina Verbaro
http://www.leparoleelecose.it/?p=30245#more-30245
Stralcio:
Pasolini ne parla ampiamente nelle sue Confessioni tecniche già nel 1965, sottolineando la funzione sacralizzante di tale uso stilistico e chiarendo che la sua ricerca di «scandalo espressivo» ha come fine proprio il «cercare la poesia»:
[…] mi son sempre più liberato dai miei schemi di ordine, della sacralità tecnica, e mi son buttato nel magma: al 300 ho aggiunto il suo contrario, il 25: e per i primi piani! Cosa che, prima, mi avrebbe fatto inorridire […]. Ho cercato lo scandalo che sempre dà la poesia, attraverso lo scandalo che può dare la sincerità: e invece, ripeto, è chiaro, attraverso il risultato unitario, che non è espressionistico e magmatico, ma a suo modo estremamente ordinato e regolare, che mi servivo dello scandalo espressivo per cercare la poesia…
[…]
non meno che quello con Eliade, l’incontro con Auerbach e col suo «realismo creaturale» è per Pasolini fondamentale per definire una nozione di realismo sacralizzante – o, come lo chiama Bologna, di «creaturalismo» – opposta a differenti modelli di realismo più convenzionali. L’amalgama stilistico di Pasolini – nella cui sigla comprendiamo una serie di fenomeni compositivi di cui si parlerà nel volume, quali la pratica del frammento e degli appunti e l’uso peculiare dell’intertestualità – è lo strumento con cui egli persegue l’epifania del sacro come fine ultimo della propria opera, in quanto modalità stilistica capace di ricostruire artificialmente nel testo quella dimensione di sincronicità che del sacro è carattere precipuo.
A mio parere, fino a Medea, Pasolini regista ha fatto cinema illustrativo di parole. Il Decameron e Salò sono già compiutamente opere cinematografiche.
Io mi limiterei a parlare soltanto di poesia scritta; anche se resto dell’idea che i versi potrebbero uscire dalla gabbia della composizione, anche singolarmente, se portatori di immagini e significati che possono aggiungere senso a quel che viene mostrato. Comunque sì, penso che Pasolini abbia sollevato un problema di “mezzo”, anche se prematuramente ( prima dell’avvento del web).
La ricerca formale, o di quale poesia, non andrebbe associata al sacro in senso religioso o più specificatamente cristiano. Si ha questa tendenza quando si si vorrebbe stare attorno alla verità. Oggi, la verità è un fatto episodico, quasi una epifania, ma presuppone un atteggiamento di ricerca del significato mentre si sta scrivendo; verità, significato, significante, sono per me contrassegni di poesia che tenta profezie e ammonimenti. In questo caso, sì, si sarebbe eredi della cristianità. Forse Pasolini ne era ancora coinvolto, ma se per questo, anche Fortini.
COMMENTO A
La poesia come forma del sacro
7 dicembre 2017 di Le parole e le cose
di Caterina Verbaro
http://www.leparoleelecose.it/?p=30245#more-30245
Ennio Abate
7 dicembre 2017 a 19:05
AL VOLO
“La maggiore sventura che abbia potuto colpire l’opera di Pasolini? Che già nel decennio antecedente la sua morte e poi nel decennio che l’ha seguita, sia stato possibile leggerla come uno dei supporti ideologici della reazione politica; sul che non possono concordare, va da sé, coloro che non accettano di chiamare con tale nome il periodo 1976-85”
(F. Fortini, Attraverso Pasolini, pagg. 211-212, Einaudi 1993)
Ennio Abate
8 dicembre 2017 a 14:26
AGGIUNTA
A vantaggio dell’autrice di questa introduzione, premetto che, non avendo letto il libro, le mie obiezioni sono provvisorie e rivedibili. Né vorrei farmi scudo di Fortini (precedente commento) contro certe interpretazioni ormai del tutto a-marxiste e reazionarie (che non è, malgrado il cambio delle mode, un termine così apprezzabile, eh!) dell’opera di Pasolini. E perciò ad una sua studiosa, mi sento almeno di porre alcune domande:
1. Che giudizio dà – lei e non Pasolini – di quella «valenza sacrale dell’esistenza» che caratterizzerebbe (interamente?) la poesia di Pasolini?
2. Che la poesia rappresenti per Pasolini « la possibilità e il modo di esperire quel sacro che è motivo fondante di tutta la sua opera, un sacro immanente, celato nel reale» non lo discuto, ma questa sua “fede” o “credenza” va o no messa a confronto con altre “credenze” o concezioni della funzione della poesia coeve o successive? E che ne risulta? Davvero questa « volontà di sacralizzazione del reale» può essere una prospettiva conoscitiva valida rispetto ad altre (io, ad es., penso a Leopardi, Fortini, Bloch, Adorno)? Davvero «è realista solo chi crede nel mito»? ( Allora Leopardi non sarebbe “realista”? Non ci sarebbe altro “realismo” se non questo metastorico pasoliniano?)
3. Si può oggi accogliere senza batter ciglio l’idea che il linguaggio audiovisivo sia « lo strumento ideale per evocare e rappresentare il sacro»?
4. «Quando le parlo della mia tendenza al sacrale, al mitico, all’epico, dovrei dire che essa può essere completamente appagata solo dall’atto della morte, che secondo me è l’aspetto dell’esistere più mitico ed epico» (Pasolini).
Accantonando il fatto indubbio che non è la morte o l’atto della morte a «produrre il compimento figurale del presente e delle stesse vite individuali», ma semmai la capacità poetica o interpretativa dei *vivi* che riescono a immaginare cose ed eventi *fingendosi* morti, perché il «compimento figurale» alla Auerbach dovrebbe essere pensato solo al passato, come tendeva a fare Pasolini?
Ennio: “Davvero questa « volontà di sacralizzazione del reale» può essere una prospettiva conoscitiva valida rispetto ad altre (io, ad es., penso a Leopardi, Fortini, Bloch, Adorno)? Davvero «è realista solo chi crede nel mito»”?
È questione di prospettiva storica. Di una possibile lettura razionale del passato, in una possibile continuità a seconda degli schemi impiegati (es.: tutta la storia è storia di lotte di classi). La continuità storica deriva da schemi biblici, è solo alla fine del ‘600 che si immagina l’età del mondo più lunga di 5000 anni, nascono geologia e paleontologia.
Nell’oggi degli ultimi trentanni il presente non dispone di storie precise e attendibili per tutti (“io, ad es., penso a Leopardi, Fortini, Bloch, Adorno”). Ci si rivolge anche a periodi di differente ampiezza per rintracciare i criteri che ci identifichino come umani. Per verificare i presupposti culturali di appartenenza si immaginano età matriarcali, si lavora sull’età paleolitica.
“Credere nel mito” collabora a questa crisi perchè scioglie la continuità, individua, isola, elementi che affiorano e che si ripresentano capricciosamente. Prevale una considerazione orizzontale, di contemporaneità.
(La filosofia del tempo parla di presentismo: esiste solo ciò che è presente – Agostino “i tempi sono tre: presente del passato, presente del presente, presente del futuro”-, e di eternismo: passato presente e futuro sono ugualmente esistenti.)
SEGNALAZIONE + MIO COMMENTO
Sulla storia sociale della poesia contemporanea in Italia
di Guido Mazzoni
http://www.leparoleelecose.it/?p=30321
Mio commento:
Molti problemi seri pone l’abbozzo di «storia sociale della poesia contemporanea in Italia» di Guido Mazzoni. La cronaca dei decenni esaminati mi pare completa. Le foto di gruppo dei notabili di una volta e della folla confusa dei *moltinpoesia* di oggi sono ben scattate. Anche la «facile allegoria» del «crollo del palco» (e della Poesia) a Castelporziano mette bene a fuoco, secondo me, una restaurazione e il ritorno in forme mascherate ad una ben solida e antica separatezza tra élites e masse (nel linguaggio di Mazzoni: «nicchie» e «mainstream»).
Le prime rispolverano l’etica montaliana dell’ «ognuno riconosce i suoi», le seconde – « potenziali aspiranti poeti» o oscurati o mugugnanti o allo sbando – si abbandonano all’anarchico rifiuto della poesia (« Ma io della poesia non me ne f… Andate affanculo tutti, mi avete rotto il cazzo.») o tentano la via dell’arrangiarsi, del *fai da te*. Una «dialettica senza sintesi» (cioè una non dialettica). Il quadro storico è questo, preciso.
Manca – o non l’afferro io –da parte di Mazzoni un chiarimento sulla sua collocazione di poeta e critico; e l’indicazione di una prospettiva possibile.
Egli descrive minuziosamente, constata il cambio di regime («la poesia perde importanza nell’economia generale della comunicazione»; «Il pubblico della poesia si è allargato, si è fatto eterogeneo e ha assunto un atteggiamento nuovo», ecc.), ma resta – sempre a mio parere – paralizzato dal suo sociologismo statico ed amletico.
Leggendolo, a me verrebbe di stabilire un’ analogia (rozza per certi palati di LPLC, lo so…) col campo della politica. E chiedermi: il fallimento del sistema politico/culturale della Prima repubblica (e con esso della prima ambivalente e poi falsa opposizione del vecchio PCI, a cui facevano comunque riferimento molti dei poeti pre-anni Settanta nominati da Mazzoni) ha davvero prodotto in poesia quello che egli definisce «un dispositivo orizzontale e democratico»?
Ne dubito. E di fronte agli autori di «Parola plurale», che tale dispositivo sembravano accogliere come ovvio o persino liberatorio, fa bene a chiedersi: « Ma che cosa significa pluralità?».
Non ci saranno però mai risposte illuminanti e benefici scossoni, se continueremo a ripeterci che prima (fino agli anni Settanta) con quel « numero relativamente ristretto dei partecipanti [e] dei luoghi in cui si pubblicava e si recensiva» era possibile «la battaglia delle poetiche» e che dopo sono spuntate (dal nulla?) solo «famiglie poetiche differenti [che] convivono senza contraddirsi», per cui «si ha l’impressione [!] che tutto possa andar bene, perché non c’è alcun imperativo etico-politico che trascenda il desiderio individuale di essere come si è e di esprimersi come si è».
E un’impressione sbagliata. Ci sarebbero, sì, tante domande scomode a cui tentare di rispondere. Del tipo:
Perché sono venuti meno «gli imperativi che avevano tenuto insieme il campo rimandando a delle verità che dovevano valere per tutti»? Sono venuti meno da soli? E chi ha esonerato i poeti e i critici dall’«obbligo di giustificare la propria scrittura al cospetto della politica o della storia»?
E ancora: È giusto rifugiarsi nelle « sacche di conflittualità avanguardistica» (ammesso che tali siano e non epigoniche)? O adeguarsi alla « nuova legge del sistema [che] è il cuius regio eius religio, la compresenza di nicchie relativamente chiuse e indifferenti» (compresa LPLC, mi pare)? Oppure: la «logica dell’individualismo liberale» non può essere proprio più contrastata?
Se, invece di divagare tra la rava della « diagnosi di Lasch sul narcisismo come atmosfera psicologica del nostro tempo» e la fava della «sua necessità epocale» o addirittura di una « sua barbarica vitalità», chi ha ancora un po’ di salda memoria e non volge la mente lontano dalle tragiche immigrazioni e dalle continue guerre “umanitarie”, contrastasse – anche (e non solo) – in poesia l’etica davvero «terribile», e per me quasi oscena in senso politico e sociale, di quell’«ognuno riconosce i suoi»?
Non è «quel verso […] una delle migliori sintesi della vita sociale moderna, e forse della vita sociale tout court…». É la pigra giustificazione dello starsene nelle nicchie, a cui si è giunti per meriti conquistati o ereditati. Il compito vero sarebbe quello di uscirne, di balbettare nuovamente su «ciò che non conosciamo bene», di stare nel «maenstream» senza « essere mainstream», di far dialogare – come diceva Fortini – il filosofo e il tonto, di non scimmiottare in piccolo il « gesto asociale di Platone che separa la verità dalla doxa», di far reagire le «nostre verità» politiche e poetiche che conserviamo nella memoria con la «doxa» dei *moltinpoesia* dovunque sia possibile (Web compreso) per scardinarla.
Dev’esserci stato un imprinting…
“Qui
non si sente
altro
che il caldo buono
Sto
con le quattro
capriole
di fumo
del focolare”