L’anno scorso a Natale pubblicammo tre testi di Pasquale Balestriere, Giorgio Mannacio e Armando Tagliavento (qui). Quest’anno è la volta di Virginia Arici, che propone una riflessione su una tregua natalizia decisa da inglesi e tedeschi nelle trincee del fronte occidentale durante la Grande Guerra attraverso la memoria di Robert Graves; e di Giulio Toffoli, che ci presenta il suo Tonto affascinato, malgrado il dichiarato agnosticismo, dal silenzio musicale di un’antica chiesa e dal presepio, in cui vede una aurorale affermarsi del blochiano Principio Speranza. Tenace resta anche a Natale la sua grinta polemica che si volge contro il (soave) filisteismo di un intrattenitore televisivo e contro il capitalismo (« il nemico mortale dei valori di cui il natale è espressione archetipica è il capitale»). Sbilanciandosi però, a me pare, verso una difesa troppo rigida del concetto di identità. [E. A.]
La tregua di Natale del 1914 e la pace fra gli uomini
di Virginia Arici
La guerra era iniziata da pochi mesi e in Inghilterra migliaia di entusiasti volontari erano stati arruolati grazie a una magica parola d’ordine. Quella sarebbe stata l’ultima guerra, la “guerra che avrebbe posto fine a tutte le guerre”. Ma erano bastati pochi mesi perché ci si rendesse conto che le cose sarebbero andate ben diversamente. La guerra sarebbe stata un tragico calvario, un massacro senza fine. E’ in questo contesto che si verifica quella che è nota come la tregua di Natale del 1914, un momento di pausa non ufficiale dei combattimenti decisa autonomamente e in mutuo accordo fra gli inglesi e i tedeschi nelle trincee del fronte occidentale, quando oramai era chiaro che la guerra non sarebbe proprio finita entro Natale, come promesso all’atto della sua dichiarazione, ma si sarebbe protratta come ebbe a dire il papa qualche anno dopo come un tragico e insensato massacro.
Fra coloro che vissero questa tragica esperienza merita attenzione la testimonianza di Robert (von Ranke) Graves, nato nel 1895 e arruolato volontario già nei primi giorni di guerra. Graves visse sul fronte fino alla battaglia della Somme, nel Novembre del 1916, quando venne ferito gravemente, tanto che la famiglia ricevette una lettera ufficiale in cui veniva dichiarato morto. Rimase a lungo convalescente e, a parte un breve periodo di nuovo sul fronte francese, passò il resto della guerra in Inghilterra.
Il suo diario/romanzo autobiografico “Addio a tutto quello”, pubblicato nel 1929, 11 anni dopo la fine del conflitto, narra di questa tragica esperienza, e della sua difficoltà di reduce ad integrarsi nella società inglese a lui oramai aliena, tanto che poi si trasferì a Maiorca (Spagna), dove morì nel 1985. Graves risolve la descrizione della tregua di Natale con una breve annotazione all’interno di un discorso più ampio di solidarietà fra uomini al fronte. Queste le sue parole:
«Era una notte strana, con una luna luminosa. I tedeschi occupavano una postazione a soli trenta o quaranta metri da noi. Eravamo in piedi sul parapetto, impegnati a impilare sacchi di sabbia, con la luna che illuminava le nostre schiene, ma le sentinelle tedesche ci ignorarono – probabilmente perché anche loro avevano il loro da fare. Succedeva alle volte, quando tutti e due i fronti erano impegnati a costruire delle difese adeguate, che si facesse finta di non vedere l’uno il lavoro dell’altro. Si diceva che occasionalmente pattuglie nemiche impegnate a costruire le difese in filo spinato usassero praticamente lo stesso mazzuolo per infilare i picchetti. I tedeschi sembravano molti più disponibili a vivere e lasciar vivere di quanto non lo fossimo noi. (Solo una volta, per quanto ne so, a parte il Natale del 1914, i due fronti si sono mostrati l’uno all’altro alla luce del sole senza spararsi: un febbraio a Ypres, quando le trincee si allagarono tanto che tutti dovettero strisciare fuori oltre la cima per non morire annegati)».
Vi è stato chi ha cercato di negare o di minimizzare l’esistenza di avvenimenti come questo, che ovviamente uscivano dalle regole del comportamento formale del soldato. Per contro vi sono testimonianza abbastanza inoppugnabili che in varie occasioni e su vari fronti si verificarono fatti del genere. La semplice idea che potesse esistere anche solo la possibilità di un sentimento di fratellanza fra gli uomini al fronte spaventò però tanto coloro che usavano la vita dei soldati come semplice materiale umano da gettare allo sbaraglio (le famose “expendable masses”) che vennero emessi ordini restrittivi per impedirne la ripetizione. I soldati furono minacciati di essere mandati davanti alla corte marziale. Nonostante queste forme di repressione la disaffezione nei confronti della guerra crebbe negli anni e la dichiarazione di Siegfried Sasson “Finished with the war”, pubblicata nel luglio del 1917 e che quasi gli costò la corte marziale, ben incarna un sentimento condiviso di quanto quella guerra fosse tragica e inutile.
Questa lezione però che non si è consolidata nella coscienza dei popoli e soprattutto delle loro classi dirigenti, visto quello che è successo anche alla fine del XX secolo in Jugoslavia. Rimane tuttavia un auspicio di pace per tutti noi che ogni anno ci viene rammentato nell’archetipo del Natale e del presepio. Un auspicio che deve essere riaffermato con forza, per garantire alle generazioni future un domani di pace comperato a caro prezzo dai morti delle infinite guerre che i popoli sono stati costretti a combattere.
Il Natale del Tonto
di Giulio Toffoli
Dialogando con il Tonto (19)
Da anni ormai il 24 dicembre, sempre che il destino non ci si metta di mezzo, io e il Tonto abbiamo l’abitudine di incontrarci in piazza duomo, uno dei tre centri simbolici della città.
Quest’anno mi ha detto prendendomi sotto braccio: “Vabbè compiamo un gesto fuori dell’ordinario …” e mi ha spinto verso l’ingresso della Rotonda, nota anche come il Duomo vecchio, infatti la città in cui viviamo ha due grandi edifici religiosi costruiti l’uno accanto all’altro. Il primo, quello in cui stiamo entrando, costituisce un mirabile esempio di romanico, l’altro invece è una classica imponente costruzione barocca.
Abbiamo appena superato la soglia e già intravvedo il mirabile sarcofago di Bernardo Maggi quando chiedo al mio amico: “Ma per quale motivo, noi dobbiamo entrare in un edificio religioso? Siamo due impenitenti agnostici e non siamo adusi a frequentare …”.
Mi guarda e sorride: “Che vuoi che ti dica ogni tanto mi capita di andare dove mi porta il cuore … Non sempre i nostri gesti devono essere dominati da una fredda razionalità. Ogni tanto lasciamo che sia la corrente calda della ragione che ci spinge a compiere delle azioni non usuali. Poi in questo momento abbiamo la possibilità di vedere intorno a noi una bella serie di presepi. Sono di tutte le fogge e realizzati un poco in tutte le lande del globo. E’ una visita che può farci bene …”.
Così abbiamo iniziato a guardarli. Alcuni sono semplici e perfino ingenui oggetti di una fede popolare, altri invece sono vere e proprie opere d’arte, di una qualità alta e anche altissima. Poi ci siamo seduti su una delle sedie presenti nella platea centrale. Pochi sono coloro che si muovono intorno a noi e su tutto domina un silenzio che sa di pace, totalmente altro rispetto al rumore di fondo con cui dobbiamo fare i conti nella vita di tutti i giorni.
Siamo rimasti a lungo in silenzio. Il Tonto sembrava sprofondato nei suoi pensieri e non parlava. Non dico pregasse ma forse lo stato di meditazione in cui mi sembrava di vederlo immerso poteva far pensare a una laica preghiera. Allora ho deciso di attendere. Dopo una mezzoretta mi ha detto: “Ma non ti pare di sentire in questo silenzio quasi una musica mirabile, esattamente l’opposto dell’ottundente rumore di fondo che ci viene imposto dalla società in cui siamo costretti a vivacchiare? Non hai l’impressione che questo sia il luogo esatto dove potresti sentire una sonata di Vivaldi e provare un senso di liberazione spirituale, di vera e propria trasgressione rispetto alla norme che il quotidiano ci impone?”
Di fronte a queste domande mi è venuto spontaneo domandargli: “Per te questi presepi cosa rappresentano. Perché mi hai fatto entrare qui?”. “Non so – mi ha risposto – credo che ciascuno di noi sia portatore di una sua storia profonda. Quell’imprinting che ti porti dai primi anni di vita e che rappresenta il nucleo originario su cui si costruisce una vita. Cosa sento? Si tratta del calore natio e della speranza, che non ha forse in quei momenti ancora questo nome, che si prova nel rivedere con la memoria accanto a sé figure che ti accompagneranno nell’avventura della vita, che ti offrono dei doni, che ti regalano il loro amore. Ecco in quella scena in quelle poche statuine che servivano per realizzare il presepio a casa, a cui faceva pendant il più laico albero di natale, si è incarnato per me quel principio di speranza a cui ho cercato di conformare la mia esistenza e che lega con un filo ideale passato e futuro. Libera, anche solo per un breve istante, il passato dalle sue catene di miserie e violenze, facendolo vivere vicino a noi, e prospetta un futuro di felicità e libertà. Ecco perché ogni anno passo qui qualche momento”.
“Allora che ne pensi di polemichette varie che anche quest’anno sono uscite sui giornali sul fatto che il celebrare il natale sia diventato sempre più obsoleto e possa offendere sensibilità diverse?”. “Mi è capitato di leggere un breve trafiletto di Gramellini che mi ha fatto meditare. Si concludeva più o meno con queste parole: «C’è un modo infallibile di non offendere la sensibilità degli altri ed è di smettere di averne una propria. Ci stiamo arrivando. Nel mondo slavato dei non luoghi e delle non identità l’unica soluzione possibile è la negazione perpetua». Ecco questo è il modo di ragionare di un filisteo, un ragionamento miserando e ipocrita”.
“Perché? Mi sembra invece che cerchi di chiarire che è ragionevole che ciascuno difenda la sua identità …”. “No, no, no … Ci troviamo di fronte al più vile dei sofismi. Il problema non è offendere la sensibilità dei musulmani o di un’altra fede quale che sia, o se si vuole di offendere la sensibilità dei laici che sembra nessuno mai consideri. Il vero problema è che viene nascosto che le basi stesse di questi culti sono giorno dopo giorno sempre più intaccate. Il vero nemico è artatamente occultato. Il problema è avere il coraggio di affermare con forza che il nemico mortale dei valori di cui il natale è espressione archetipica è il capitale. La sua forza dissolutrice che nega ogni speranza e ogni progetto di liberazione, che distrugge le famiglie, legando tutti alle catene di un lavoro che si fa sempre più servile, e tutto trasforma secondo la legge del consumo, non conosce barriere. Le nuove cattedrali sono i centri commerciali, la nuova fede è quella del consumismo, le nuove divinità sono i black friday e le infinite altre festività dello spreco istituzionalizzato che possono essere inventate dal nulla e generano un incredibile spirito di concorrenza ed emulazione. In fondo quello che noi stiamo vivendo in questo luogo di culto è il passato.
E’ un passato che io, laico e agnostico, ho amato e amo. Perderne la memoria sarebbe una sconfitta drammatica per tutti. Ciascuno di noi è responsabile di questa tragica china che corre il rischio di portarci davvero verso una società anonima che ha perduto il principio della speranza …”.
Superata la soglia della Rotonda ci siamo stretti in un abbraccio fraterno, intorno a noi legioni di signore e signori con pacchi e pacchettini di ogni forma e colore celebrano, a loro modo, la massima festa del consumo dell’anno.
Sono commosso…..in primis come istigatore …lo farò più spesso cercando di trascinare le voci all’ interno del Coro delle Monache di quella che fu la Città di Ermengarda
* A proposito di Natale e risonanze profonde…
SEGNALAZIONE
Il Natale e Il Natale del 1833: cronache di vita familiare di Alessandro Manzoni
di © Chiara Pini
(https://poetarumsilva.com/2017/12/25/alessandro-manzoni-natale/)
Stralcio:
A ciò si aggiunga che ogni opera di Manzoni scaturisce da momenti di vita personale particolarmente significativi, che lo obbligano alla scrittura, vera via di riflessione per Alessandro. Se in prima istanza Il Natale sembra essere una tappa obbligata per configurare la costruzione seriale degli Inni Sacri, poi si comprende che probabilmente le inferenze di significato sono maggiori. In particolare, Il Natale richiama la nostra attenzione per il momento in cui venne scritto: i giorni in cui nacque Pietro Luigi. Il mistero della nascita esalta Manzoni padre, così desideroso di costruire un nido familiare di cui mai da bambino aveva potuto godere, seppur profondamente desiderato. «Ecco ci è nato un Pargolo» è il verso con cui nel terzo inno si annuncia la nascita di Cristo, ma sembra al contempo la frase trepidante di attesa esaudita pronunciata da Manzoni stesso dinanzi alla venuta al mondo di Pietro. La strada di approfondimento del mistero del Natale verrà nuovamente ripercorsa dal nostro Lisander, in modo diversificato, in seguito a due perdite devastanti, quelle delle tanto amate Henriette e Giulia.
…Il Natale del 1833 è giunto a noi dalle carte di Manzoni in due versioni: la prima, scritta di getto dopo la morte della prima moglie, avvenuta proprio il giorno di Natale del 1833, e la seconda, più breve, datata 14 marzo 1835, quindi, dopo la morte della primogenita Giulia. Il Natale e Il Natale del 1833 sono due componimenti completamente diversi: il primo, vibrante di entusiasmo paterno, riconoscente per l’immane dono fatto a lui e agli uomini, narra la gioia familiare, in un inno di speranza per la stirpe umana; il secondo, viceversa, è un urlo disperato di dolore senza risposta.
…Nel primo Natale vi è tutto l’orgoglio compositivo di autore fiero di condividere il mistero della nascita, che Manzoni affronta con profondità teologica e con lieta leggerezza scenografica, attraverso la rappresentazione di un Presepe dalle finalità apologetiche: cori celesti e pastori adoranti diventano parte di un’imponente e maestosa opera lirica. La gravità dell’incipit, generata dal peccato originale e rappresentata dall’immagine del masso, in cui si descrive l’inesorabilità della condizione umana, subisce un innalzamento e un’apertura verso spazi d’insperata rinascita per l’uomo grazie alla mano ch’«Ei porge» e allo sgorgare di quella «fonte» per cui «stillano mele i tronchi;/ dove copriano i bronchi,/ ivi germoglia il fior» (vv. 40-42).
…Dopo aver affrontato, nella settima e ottava strofa, con magistrale sintesi teologica, il mistero dell’essenza di Dio, attraverso i concetti di eternità del padre e del figlio, della sovratemporalità e della sovraspazialità di Dio, annuncia nuovamente a gran voce la nascita di Cristo: «Oggi Egli è nato», a compimento di quella nota profezia. E Manzoni ci dona un «umil presepio» in cui Madre e Figlio rifulgono di luce e attirano a sé migliaia di Angeli dal cielo, pastori devoti e tutti quei fortunati che «(…) videro,/ siccome a lor fu detto,/ videro in panni avvolto, in un presepe accolto,/ vagire il Re del Ciel» (vv. 94-98).
In quest’apice lirico il ritmo si spezza infine dolcemente in una ninna nanna tenera e straripante di amore paterno che rimanda ad un Manzoni adorante accanto alla culla del proprio figlio e che chiude l’Inno nella gioia di un futuro migliore.
…L’immagine dolce e soave del Salvatore, regalataci nel primo Natale, stride con violenza con il «Sì che tu sei terribile!», incipit del Natale del 1833. La scena di apertura resta quella del presepe, in cui il piccolo piange tra le braccia della vergine ma siamo lontani dall’allegria iniziale: l’ammirabile, Vergine e beata Madre che «in poveri/ panni il Figlio compose», diventa, in questo secondo inno, semplicemente «quella vergine» e il «puro sen» si trasforma in «sen pietoso» per un fanciullo oltre che terribile, «severo». Se nel primo inno vi era tutta la partecipazione e il desiderio di donare da parte di Dio una seconda opportunità al genere umano, qui le lacrime e le grida degli uomini sono ascoltati con indifferenza, anzi: «sorda la folgor/ scende/ dove tu vuoi ferir». Non vi è nemmeno la devozione del primo Natale: Manzoni si mette in un dialogo alla pari con Dio, testimoniato oltre che dal tono quasi accusatorio, dall’assenza totale di maiuscole. Lo strazio per il dolore della perdita, tuttavia, non annulla del tutto la natura speculativa di Manzoni, che continua a porsi domande, a ricerca di una verità desiderata e consolatoria e che per noi apre a quel percorso di approfondimento teologico di cui si parlava inizialmente, in cui inesorabilmente il mistero del Natale è strettamente collegato a quello della Resurrezione, attraverso la Passione di Cristo: «Ma tu pur nasci a piangere:/ ma da quel cor ferito/ sorgerà pure un gemito». La frammentarietà della costruzione di questo inno rivela l’impossibilità di Alessandro di procedere nella composizione, offuscato dal dolore e dalla paura, ormai solo ad affrontare le responsabilità di quella numerosissima famiglia di cui riteneva Henriette luce e guida. Si sente tradito e non sa reggere il peso di un volere superiore: «Onnipotente!» è l’ultimo grido che lancia Alessandro, nulla di più lontano dalle note della ninna nanna del primo Natale e molto più vicino all’immagine di un Napoleone vinto dal peso delle proprie memorie su cui «cadde la stanca man». E così l’espressione e l’immagine vengono parimenti riprese nell’ultimo verso: «Cecidere manus», caddero le mani, la resa è totale.
…Quanto tutto sembra chiaro e certo nel primo Natale, tanto rimane sospeso e oscuro ne Il Natale del 1833 di cui fece mirabile approfondimento in forma romanzata Mario Pomilio, in una ricostruzione del tentativo di elaborazione del dolore da parte di Alessandro attraverso un ipotetico carteggio tra la madre Giulia Beccaria e un’amica di famiglia.¹
…Il Natale e Il Natale del 1833 ci appaiono dunque proprio come cronache di vita familiare di Alessandro Manzoni: la dimensione religiosa ha costituito parte fondamentale della sua esistenza e del suo pensiero ma la famiglia e i suoi affetti sono stati sicuramente il primo motore di tante decisioni e pensieri, che hanno determinato il corso dell’esistenza e delle scelte artistiche di Alessandro. La critica ci ha restituito per molti anni un Manzoni di cui aveva bisogno per unità d’identità nazionale e culturale. Ma, talvolta, viene da pensare che Manzoni si sia trovato coincidentemente in linea con tali necessità e che il motore principale della propria vita siano stati gli affetti familiari di cui lui aveva un bulimico e disperato bisogno: la ninna nanna del primo Natale è la stessa che avrebbe desiderato per sé a lungo e la stessa che non avrebbe voluto negare al proprio e ai propri figli, in unione e comunione con Henriette, la donna che gli aveva dato l’occasione e la gioia di una vera famiglia unita e che, un giorno, quel terribile Natale del 1833, gli è stata violentemente strappata senza apparente e fondata ragione.
Perché Giulio Toffoli/il Tonto in questo dialogo mi pare si sia sbilanciato verso una difesa troppo rigida del concetto di identità?
1. Perché non si può vedere il presepio come simbolo esclusivo di «quel principio di speranza» a cui ha cercato di conformare la sua esistenza e che lega con un filo ideale passato e futuro.
2. Perché quel principio speranza, se davvero «prospetta un futuro di felicità e libertà», deve contemplare e non rifiutare l’incontro con l’altro/a (diverso/a da noi e premessa per conoscere anche quanto in noi è tuttora ignoto o “misterioso”). Altrimenti si riduce a culto rituale di sé, di un identico («quell’imprinting che ti porti dai primi anni di vita e che rappresenta il nucleo originario su cui si costruisce una vita» e che è poi anche costruzione e rielaborazione e non mera persistenza a noi esterna dell’ *origine*). O del familiare («l’opposto dell’ottundente rumore di fondo che ci viene imposto dalla società in cui siamo costretti a vivacchiare»). O dell’indiscutibile ( che, come nell’articolo di Virginia Arici, è rappresentato da «figure che ti accompagneranno nell’avventura della vita, che ti offrono dei doni, che ti regalano il loro amore», ma alle quali noi, per farle continuare illusoriamente a persistere inalterate ( il che è possibile soltanto nel mito!) attribuiamo poteri per cui «i soldati [cioè noi stessi, possiamo essere] mandati davanti alla corte marziale» quando non obbediamo, prendendo troppo sul serio «la semplice idea che [possa] esistere anche solo la possibilità di un sentimento di fratellanza fra [tutti] gli uomini» e – non dimentichiamolo – le donne).
3. Amare quel passato laicamente o religiosamente e non perderne la memoria non significa imbalsamarlo in una fissità senza crepe, senza storia, magari archetipica; née non sentire il dolore della sua *scomparsa*. La sua proiezione nel futuro, infatti, per realizzarsi ha bisogno di continuità ma anche di discontinuità (dalla metamorfosi alla rivoluzione). Il presepio è lo stesso della nostra infanzia nel nostro immaginario ma come si è andato trasformando nel tempo, nella storia? Quale è il *presepio* d’oggi rispetto a quello immaginato dai nostri antenati o da noi stessi negli anni passati? Quali le sue figure antiche? Quali (forse) le nuove? [Nota 1]
*
[Nota 1]
Credo di aver colto questa dolorosa problematica ( non so se dialettica) tra continuità e discontinuità in «Salernitudine» e in particolare nei due testi che avevo posto all’inizio e alla fine di quella raccolta. Eccoli:
1
La città presepe
O’ surde abitava uno scantinato a piano terra senza servizi igienici. Prima dell’alba lo si sentiva sollevare con un gancio il tombino di ghisa della fogna appena costruita e versarvi dentro il suo bidone di liquami. La porta dello scantinato dava direttamente sulla strada ed era quasi sempre aperta. Chi passava lanciava un’occhiata all’interno.
Lui era sempre lì. Passava quasi tutta la sua giornata nel locale poco illuminato e maleodorante. Era un bravo elettrotecnico. Riparava le radio, allora ancora a valvole di vetro, piccole cupole che racchiudevano architetture di filamenti metallici. Ma aveva un’abilità ancora più attraente per i bambini: sotto Natale in quel suo scantinato costruiva un presepe così grande che nessuna stanza d’appartamento avrebbe potuto contenerlo.
Cominciava i preparativi agli inizi di dicembre. Accostava alla lunga parete di fondo ampi e robusti tavoli e vi faceva crescere sopra giorno dopo giorno una intelaiatura di pezzetti di legno, segati nelle giuste misure. Li inchiodava con brevi colpi di martello e l’impalcatura con archi e travature ben calibrati risultava alla fine solidissima. Poi segnava in anticipo con gessetti colorati i punti da illuminare: la grotta, i palazzi, le casette. Infilava piccole matasse di fili elettrici e ricopriva tutto con carta da pacchi marrone scuro spiegazzata e arricciata. Spruzzi di tempera di vario colore fingevano picchi nevosi, radure e vegetazione. Muschio e pungitopo, sabbia e sassolini ordinavano gli spazi orizzontali.
Alla fine il presepe somigliava alla città in cui si abitava. Era come vederne una sezione da lontano, da un peschereccio in mezzo al golfo o da un aereo. Palazzi e casette dalle architetture semplificate s’aggrappavano ai pendii verdeggianti come quei pochi che allora si vedevano nei dintorni.
Quando anche le statuine dei pastori erano ai loro posti, nel buio stanzone le luci colorate si accedevano e spegnevano e i ragazzi invitati allo spettacolo s’incantavano dietro le figure di pastori, macellai, pescivendoli, acquaioli, falegnami: un’immobile società in miniatura dispersa fra balzi, valloni, sentieri e anfratti.
Anno dopo anno o’presepie ro Surde presentò minime variazioni: la grotta prima più buia, poi illuminata da lampadine di vario colore ben celate; le montagne dalle superfici poco mosse a catene di plastici spuntoni; i pastori di gesso più tardi infrangibili e distribuiti in spazi meglio ripensati, più narrativi. E così la città attorno. Solo d’inverno pareva più minacciosa. Per tutta l’infanzia restò semplice da osservare ed esplorare: quasi un presepe sovradimensionato. Facili le corrispondenze fra i muschi di quell’artefatto immobile e la fitta vegetazione delle colline circostanti o fra i volti e gli abbigliamenti dei pastori e quelli della gente del vicinato o che girava per i vicoli.
Poi con violenta e non databile lacerazione, città e presepe si svilirono a mondo di cartapesta. La minaccia, prima invernale o incombente solo negli sguardi troppo ansiosi e nel dialetto più arrochito e tagliente, mostrò precisi luoghi di provenienza. Frenetici cantieri stavano sventrando la macchia verdastra: stroncarono querce e ulivi, sconvolsero coltivi e sentieri. Poi sempre più fitte quinte di muri – in tufo, in mattoni forati – velarono il golfo che si vedeva luccicare dalla finestra, ora compatto ora mutevole, da est fino ad ovest.
Il mutamento fu precipitoso e inafferrabile. Penetrò anche dentro con un più insidioso accumulo di paure, di nozioni, di catechismi e di scolastici sezionamenti. Gli affetti, che prima si sedimentavano quotidiani e dolcemente durante le visite a parenti e conoscenti, divennero anch’essi contorti. Cominciò la fuga.
Il ragazzo osservava dalla finestra per ore il golfo. La debolezza lasciatagli dalla malattia rendeva fisso e lento il suo sguardo, che non si perdeva più nella lontana massa azzurra o in quelle verdastre delle due colline che la delimitavano, ma cercava più vicino, nei dintorni della casa gialla.
Qui altre volte aveva osservato il vento che aveva fatto cadere un cesto di vimini da un balcone, le traiettorie di due passanti che si erano quasi incrociate – all’insaputa di entrambi – in un punto del marciapiedi proprio all’angolo di un palazzo, un bambino che si era sporto troppo da un balcone. Allora tutto il paesaggio era sembrato mettersi in moto, iniziare un racconto, svelare catene di eventi sotto la sua superficie, chiedergli di farsi avanti. E lui, allarmato e ansioso, si era interrogato sul possibile seguito, inventando sorpresa e paure su quei volti così lontani e indistinguibili.
Ora, invece, registrò con freddezza l’avanzare guardingo di un gatto sulle tegole di un tetto là vicino, un volo d’uccello, il passaggio di un uomo nella strada, gli effetti smorzati di una raffica di vento sul fogliame. E chiuse gli occhi. Seppe che aveva vissuto in un ritaglio di mondo e fra cose, animali e persone rimaste da lui distanti e che sempre meno avrebbero badato a lui dietro quella finestra. Anche dopo la sua morte sarebbe andata così. Quelle apparizioni non chiedevano più interventi e neppure la sua osservazione così ansiosa. Dove sprofondavano? Cominciò a scrivere.
2.
Fuori dal presepe
Fui umile e ultima anche al paese, quando ti parlavo in dialetto e meno inquieta sorridevo. Erano morte le dee paesane. C’erano preti e fattori a comandare. Io e le mie sorelle passavamo campi di granoturco e frutteti per visitare le contadine nostre vicine, dolenti per botte, fatiche e gravidanze.
Già allora, quando ancora ricamavo, la piega azzurra delle colline mi cedeva a sera le sue malinconie e proprio accanto a me, sotto la teca di vetro, il san Michele paffuto e a guance rosse uccideva lentamente il drago verde imbestialito. Quanti guanciali e lenzuola e tovaglie ricamai silenziosa per cappelle e salotti e stanze da letto!
E certo, se fossi rimasta zitella, ipocritamente lodata sarei finita dama di compagnia della vecchia più ricca del paese. Maritata e poi ammaliata dalla tenerezza con cui bambino mi seguivi, accanto al braciere delle mie nonne ricamai anche per te. Stavolta preghiere di povertà e un sogno sontuoso d’incensi, di candele e altari fiammeggianti.
Sfuggendolo e sfuggendomi – né potevo trattenerti – hai spezzato il filo dorato che insinuavo ansiosa nel mio angusto e mortificato mondo; e le piccole gioie (cucivo e ti sorridevo assieme alle mie sorelle, avevamo frutta e animali, si parlava dialetto) si contrassero di colpo. Anche tu ora, irriconoscibile, volavi via e mai più tornasti. Ti spezzasti altrove.
Nella specchiera della camera da letto coi mobili di mogano vidi solo l’ombra avvilita e stanca di tuo padre e, per ultimo, malvagie figure rapinatrici, parenti in visita forse, e camerate traballanti, letti di gesso, ghigni di malati ostili, suore bianche nell’indifferenza del marmo.
Preda fosti tu, che insistevi ad offrirti a potenze sfuggenti, impacciato predatore io, madre.
Dalla prigionia della tua umiliazione mi avvicinasti a gioie padronali da me mal comprese. E fu attraverso i tuoi affidabili affetti, calati nella cara voce del dialetto, che accolsi la tua salernitudine.
A quale sequestro di comuni gioie mi spingesti, a che divieti da te ammorbiditi mi piegasti, madre di paure, di malinconia e rimorsi! Così agevolasti la manodopera viscida di preti e maestri d’alterigia e untuosità, modellando i miei infantili stupori su caste, subdole o rattrappite maschere di sagrestia e di scuola. E, mentre ti rimpicciolivi a mortificata e ossequiosa beghina, la mia ribellione usciva sporca, per affidamento al prete, falso e neutro padre.
Quando, a fatica strappatomi al cinismo dei dominatori, riconobbi la tua ferita antica e seppi che il tuo dialettale sogno di quieta religione, per spostamenti a me allora impercettibili, non combaciava col marchio latino dei signori, a tratti ti commiserai. Ma la decalcomania della salernitudine era già impressa sul mio corpo, indelebile.
Ahi, nero incubo di tonache e di cuori marciti nell’ultimo fascismo! Vuota, liceale nostra intelligenza, che quando pure si spretò, al dominio restò incline.
Ahi, salernitudine, che metamorfosasti padre e madre e gente a me cara in branco servizievole!
Reliquie di negati amori, meteoriti che mi crivellaste la retina della mente, qui vi stacco dalla paglia della memoria e butto via. (Così mio padre faceva con mele e cachi marci conservati in soffitta).
Leggo il bel commento di Ennio e lo ringrazio.
Che dire se non che la descrizione voleva essere null’altro che un recupero di un lacerto di un passato fortemente individuale. Anzi la rappresentazione, più o meno riuscita lo può dire solo il lettore, di un io che anticipa nel ristretto contesto del rapporto originario e a contatto con alcuni riti familiari l’incontro con l’altro. D’altronde il nostro vivere è alterita ma anche affermazione di una identità. Una dialettica precaria, come d’altronde sembra accennare lo stesso Ennio che non può svendere in modo illuministico quel momento in cui ciascuno di noi costruisce la propria persona come un io iscritto in una storia che nel bene e nel male ha sue caratteristiche storicamente date.
Al punto 2, dove comincia a parlare la madre, e dove, dopo anni, le risponde il figlio: se il linguaggio usato dall’autore è inevitabilmente lontano dal parlato della madre e, se il figlio le avesse parlato così, sarebbe stato poco compreso dalla madre, se questo linguaggio è tanto lontano dalla realtà storica del racconto, qual è il suo valore di verità?
Anche se l’autore intende che anche “quella” mediazione linguistica sia a sua volta da leggere come documento storico, la domanda sul valore di verità di questo testo rimane.
…sembra allora che tutte le verità siano bifronti e che “una verità” raggiunge il suo massimo splendore, come puo’ essere quella del presepio, e già declina in altre molteplici…Cosi’ mi sembra succedere per le identità, ma anche per i vari passaggi di vita, che spesso modificano convinzioni, credenze, identità …Qualche giorno fa ho acquistato un paio di orecchini in un mercatino e, consegnadomi il piccolo involucro, il venditore arabo mi ha augurato “buon natale”…
SEGNALAZIONE
*Varie e sempre troppo erudite ( per me) considerazioni di Cortellessa ed altri/e sul presepio a questo link: https://www.alfabeta2.it/2015/12/27/buon-natale-2/
Stralcio solo questa su “Infanzia e storia” di Agamben che lessi con grande interesse alla sua uscita nel 1977 e sulla quale sono tornato varie volte nei miei appunti:
Qui si inserisce la tesa riflessione di Agamben, che con intelligenza Giosetta ha voluto campionare nel suo catalogo, e che riproduciamo a nostra volta qui. Si tratta di un breve testo del ’77, che l’anno seguente entra a far parte di uno dei testi capitali del filosofo, Infanzia e storia. Distruzione dell’esperienza e origine della storia. Nella seconda parte dell’estratto Agamben si sofferma sul senso della miniaturizzazione (con una traccia dell’analogia – sviluppata dal Lévi-Strauss commentato da altre pagine di Infanzia e storia – fra gioco, bricolage e opera d’arte come «modelli ridotti» dell’esistenza), mentre nella prima insiste sul significato storico del presepe. Vale la pena contestualizzare una simile affermazione ricorrendo appunto ai passi, del suo intervento, qui non compresi – e al libro del ’78 in generale. Per storia va inteso infatti, nel lessico di Agamben (che mutua quello di Benjamin), il momento messianico della sospensione che non separa definitivamente, bensì inscindibilmente e inconcludibilmente congiunge, l’intemporale dell’infanzia e il tempo del linguaggio: il luogo specifico in cui «cade ogni distinzione fra sacro e profano e le due sfere collimano nella storia». Per questo il presepio finisce per essere – di questo trapasso che è fusione, compenetrazione, consustanziazione – un perfetto luogo simbolico: il luogo mitico che rievoca l’avvento del Messia e, insieme, quello fiabesco che rimette in scena, ogni volta identico, il vert paradis des amours enfantines di ciascuno di noi. In questo senso, come sintetizza Agamben, «l’infanzia» è davvero «l’origine trascendentale della storia».
…nel bel racconto natalizio di Giulio-Tonto mi rispecchio moltissimo, suscitandomi ricordi d’infanzia, quando a Lodi con mamma e sorella andavo a visitare sette chiese con i rispettivi presepi, una vera sgambinata al freddo che ci conduceva al calore di una capanna…Certo un “imprinting”…ma ricordo che una simile rinata speranza e calore mi ha accompagnata alla nascita dei vari bambinelli in famiglia o di amici e parenti a cui mi sono affacciata…Un presepe tutto l’anno e in varie latitudini, così penso che si tratti di una tradizione che traccia un’identità umana trasversale…Sono d’accordo con il Tonto che il “nemico mortale” dei valori sia il capitale e che “Le nuove cattedrali sono i centri commerciali, la nuova fede è quella del consumismo…” A proposito, in questi giorni mi è capitato di vedere uno spot televisivo in cui in cui si inscena la natività tra i banchi di un supermercato…il bimbo diventa il cibo più gustoso tra panettoni e zamponi…siamo cannibali ormai
Altra citazione che Cortellessa fa di Agamben: «vero materialista storico non è colui che insegue lungo il tempo lineare infinito un vacuo miraggio di progresso continuo, ma colui che è in grado in ogni momento di arrestare il tempo, perché detiene il ricordo che la patria originale dell’uomo è il piacere».
Una bambina di quasi nove anni mi ha mostrato come “arrestare il tempo” permanendo nel piacere.
Bimba: “Secondo te Babbo Natale esiste?”
Io: “Qualcuno dice di sì, altri di no.”
Bimba: “Per me esiste, e ho la prova. L’altranno ha portato a papà un rasoio elettrico nuovo, ma lui non lo ha voluto perché ne ha già uno e lo preferiva, quindi è andato a portarlo in un negozio (resta nel vago…). Se Babbo Natale fosse il papà, allora non si sarebbe regalato un rasoio che non voleva, non ti pare?”
Io: “Sì, è logico.”
(Subito dopo però la bimba scherza su una “Mamma Natala”, quindi il suo ragionare lavora…)
Io: “Quello che mi fa venire dei dubbi, è che a mezzanotte Babbo Natale porta i regali a te, ma anche a tuo cugino in Sardegna, e agli altri bambini, e tutti a mezzanotte…”
Bimba: “Perchè è magico! Babbo Natale è magico.”
Brava, così si fa!
…saggia la tua nipotina, Cristiana, che lascia nel pensiero logico uno spiraglio aperto al sogno, al magico…Come potrebbe sopravvivere l’infanzia? Ma un po’ ci caschiamo tutti…
Una poesia per natale e capodanno
Natale
quest’anno
non mi va di dedicarti
un augurio dei tanti
formale,
non ho l’ispirazione
per nessuna soluzione
e, sotto al luccichio di parvenza,
la stella è spenta.
Sottoterra, mi dico,
i morti
sono più saggi,
la loro dose di vita arriva
stemperata
nelle radici, nell’acqua e nell’aria…
Ma poi sul giallo prato
vedo un neonato
che sgambetta e pugnetta
per la sua dose di latte…
E la Storia riparte
SEGNALAZIONE + MIO COMMENTO
La morte del presepe
Marco Belpoliti
(http://www.doppiozero.com/rub…/3/201712/la-morte-del-presepe)
Stralcio:
Non c’è nessuna speranza? Neppure il presepe ci può aiutare o consolare?
Il presepe è diventato un oggetto d’arredo, non è più un oggetto devozionale. Il presepe aveva delle sue scansioni temporali. Lo si cominciava a costruire nelle settimane successive alla festa dei morti, il 2 di novembre, in modo che il 30 di novembre fosse quasi pronto per ricevere la novena degli zampognari all’Immacolata, l’8 dicembre. Poi bisognava attendere il 16 dicembre per la nuova novena al Bambino che durava dal 16 al 24 dicembre. Era anche relativo alla Festività dei Re Magi il 6 gennaio in cui si collocavano davanti alla Grotta i personaggi dei Re Magi in ginocchio anziché sui cavalli. Era un rituale continuo che si rappresentava con date precise. Dopo la festa di Sant’Antonio Abate si toglievano i personaggi, si svuotava la Grotta e si collocavano le Anime purganti. Oggi è un oggetto freddo, si mette lì e basta. È anonimo. Lo comperi già bello e costruito senza coscienza della rappresentazione.
Lei legge il presepe come un libro aperto perché viene da quella cultura. Non sarà che c’è qualche struttura simbolica non più cadenzata su quelle date che lei ha appena esposto ma che esprime comunque quei bisogni umani che erano riassunti nel presepe? Non ci saranno strutture simboliche che attendono di essere lette da noi come lei fa con il presepe?
Il tempo una volta era modellato sulla natura, oggi è modellato dai linguaggi dei computer e da quelli perversi della cultura di massa. Le uniche manifestazioni che sembrerebbero legate a una ritualità del tempo sono quelle della cultura di massa.
Non crede che l’uomo si stia avvicinando attraverso la scienza e la tecnica, come sostengono alcuni autori, all’immortalità, un desiderio umano presente anche nella religione. Diventeremo simili agli dei. Forse per questo il presepe non ci parla più.
L’immortalità è legata al computer. Non condivido questa prospettiva dell’immortalità attraverso la medicina e la scienza. Hanno prospettato entrambe il progresso, ma io faccio una distinzione tra questo progresso scientifico asservito al consumo massificante e un progresso che invece è un regresso umano. L’uomo non è più legato al ritorno solare, delle stagioni. A me pare che il mondo sia molto regredito.
*
MIO COMMENTO
In questo dialogo tra Roberto De Simone, che mi pare un convinto conservatore, e Marco Belpoliti, suo titubante ammiratore, do ragione al primo quando dice:
1. « il presepe è qualcosa fermo nel tempo, come le statue del presepe »;
2. « Il presepe è una discesa agli inferi, un percorso iniziatico, un incontro con i motivi ctoni dell’esistenza». (Precisando però che la sua è un’interpretazione parziale. Poiché De Simone trascura che il presepe nella sua forma cristiana ha il suo centro nella nascita di un Bambino-Dio, nascita impregnata di futuro e non, dunque, solo di passato e di morti; e perciò se è vero che « sono i morti che s’incontrano tra pozzi, grotte, castelli, palazzi, montagne e fiumi del presepe», la sua « forma labirintica» tende ad un centro, a quel centro;
3. « Il presepe era un’espressione cui una volta partecipava tutta la famiglia nel costruirlo». Anche questo, però, mi pare solo parzialmente vero: anche ai tempi delle nostre infanzie, in cui la tradizione del presepe era più sentita, la comunità era in fondo quella attivamente religiosa e si riduceva al parentado, al vicinato, magari organizzati attorno alle parrocchie; una comunità, dunque, relativamente ristretta e non so se il presepe anche allora poteva essere «un codice condiviso da tutti»;
Non gli do ragione quando sostiene che:
1. « La gente sogna quello che vede in televisione. Questo è l’unico immaginario che resta». L’immaginario odierno è prevalentemente influenzato dalla televisione e non più soltanto dalla religione, dalla letteratura o dalla pittura come ai tempi delle nostre infanzie, ma spesso credo che i «miti d’oggi» (Barthes) possano essere ricondotti a quelli precedenti ( se non proprio agli archetipi junghiani);
2. «Si sogna da soli». Quando mai si è sognato (in termini documentabili) insieme?
3. « Non esiste più un quotidiano». No, esiste un quotidiano diverso da quello del passato. (Su questo punto dovrebbero aiutare le ricerche di Marco Augé…);
4. « Esistono solo le “vacanze” in un lavoro che è già di per sé una vacanza». Proprio perché « nella cultura di massa tutto è [relativamente, perché anche qui ci sono circolarità e ritualità, certo non più legate alla natura, alle stagioni] transitorio» e «varia secondo le possibilità economiche delle persone», il lavoro può essere vacanza solo per alcuni; le differenze economiche permettono di accedere a tipi di “vacanze” ben differenziate e non di grande varietà.
5. «Abbiamo avuto un decadimento della religiosità cattolica dopo il Concilio Vaticano II». Qui De Simone svaluta quello che fu una sorta di “ ‘68 della Chiesa cattolica”. Semmai quel Concilio tentò di frenare il decadimento, che proseguì perché, dopo di esso e malgrado esso, la Chiesa cattolica –notò uno storico della Chiesa come Michele Ranchetti – continuò a «subire una sorta di rimozione della realtà» e a «vedere nella propria ottica: ciò che essa non vede non esiste» (M. Ranchetti,«Non c’è più religione», p. 91, Garzanti, Milano 2003) e nel suo giudizio «eventi come la tragedia degli ebrei, la persecuzione dei minorati, la morte fulminea degli abitanti di Hiroshima e Nagasaki» (Idem, pag. 93) non hanno avuto rilevanza particolare.
6. «le antiche tradizioni collettive sia contadine sia pastorali […] non sono più gestite dall’alto, ma secondo l’esigenza dei consumi, le importazioni, le esportazioni, e le altre attività dell’imperialismo consumistico», come se tale gestione non fosse lo stesso dall’alto.
L’intervistatore esprime dei dubbi su alcuni «aspetti anche reazionari» di De Simone e insiste nel cercare un immaginario sostitutivo: « Non crede che nella struttura simbolica, nell’immaginario degli esseri umani,il posto tenuto dal Natale e dal presepe con le sue raffigurazioni, sia tenuto da qualcosa d’altro?», « Non ci saranno strutture simboliche che attendono di essere lette da noi come lei fa con il presepe?». Ricorda anche (giustamente) che il passato non era migliore (« In fondo quello che si rimproverava alla cultura tradizionale era una forma di acquiescenza al potere, al mondo così com’era dato, un mondo ingiusto e ineguale», ma a me pare che abbia ben poco o nulla qui al presente da contrapporre alla nostalgia (e apologia) del passato di De Simone. E questi ha buon gioco a ricordargli ciò che è oggi un luogo comune della nostra vita politica: « La democrazia che ci governa è una mafia, non è una democrazia, è una demagogia, è una casta di persone che guardano al proprio interesse, ai privilegi raggiunti.».
In questa intervista-dialogo per me manca qualcosa: non è possibile contrapporre al passato l’esistente. Solo a prima vista è «meglio essere reazionario che persona assuefatta a questo perverso sistema d’ipocrisia democratica» (ma sarebbe meglio dire: di democrazia formale, limitata, più inclinata verso la “democratura” che la sua espansione o realizzazione piena).
Davvero come sostiene Belpoliti il presepe (=il passato) dovrebbe aiutarci o consolare?
Del presepe bisognerebbe forse cogliere la “promessa di futuro”. Solo così non si resta ingabbiati, come capita a De Simone, nella contrapposizione natura / presepe/ passato e presente/cultura.
Non ci si libera «dai linguaggi dei computer e da quelli perversi della cultura di massa» tornando a legare gli uomini «al ritorno solare, delle stagioni».
Bisognerebbe saper ri-usare quel nucleo di armonia del passato rappresentato dal presepe ma per proiettarlo nel futuro e incominciare a viverne un po’ di esso già al presente.
Osip Mandel’štam , che sto approfondendo in questi giorni, scriveva: «Ho compreso allora che la pietra è una specie di diario del tempo meteorologico. […] La pietra è il diario impressionista di un tempo meteorologico frutto dell’accumulo di milioni di annate calamitose; ma essa non è solo il passato, è anche il futuro» («Conversazione su Dante»).
Anche a proposito del presepe si potrebbe tornare a dire che « non è solo il passato, è anche il futuro». Ma ci vorrebbe la volontà poetica di un Mandel’štam, che e a chi gli chiedeva:«In che tempo vuoi vivere?» rispondeva: « Voglio vivere nel participio imperativo del futuro, forma passiva – nel “dovente essere”» (in Viaggio in Armenia).
Altrimenti come Belpoliti ci faremo un po’ suggestionare dalla fantasia tecnologica del «Diventeremo simili agli dei» e il presepe non ci parlerà più.
“Bisognerebbe saper ri-usare quel nucleo di armonia del passato rappresentato dal presepe ma per proiettarlo nel futuro e incominciare a viverne un po’ di esso già al presente.”
E’ una frase di cui occorre esplicitare i numerosi assunti impliciti che contiene.
Qual è il “nucleo di armonia del passato”? Ci fu una supposta armonia sociale? Ed è armonia o *legame* delle parti in un tutto? O si intende solo una armonia di affetti? O di intenzioni? O una *educazione* alla collaborazione?
Perchè bisognerebbe saperlo ri-usare? Qual è il dover essere che lo richiede? Le leggi, una pratica diffusa, un’etica kantiana?
Per proiettare, quindi, *che cosa* nel futuro, tra le varie ipotesi fatte?
E come cominciare a viverne un po’ al presente, se non abbiamo deciso di che cosa si tratta? O forse già se ne sta vivendo un po’… ma come e dove? In nicchie? In progetti? In famiglia?
Sul futuro è bella e intrigante la frase di Mandel’štam, ma è impossibile decodificare la formula “participio imperativo del futuro, forma passiva – nel ‘dovente essere’”, soprattutto perchè è impossibile interpretare le sfumature di senso, dato che è una traduzione.
Il participio futuro è una forma attiva, ma ha un profondo senso passivo. La stessa parola *futuro* è il participio futuro di un verbo fuo (che diventerà parte del verbo essere) fuo che è parente di fusis, natura generante, e di figli (qui al paese dicono che le galline con questo freddo “non fetano”, non fanno uova). E’ chiaro che qualunque avvenimento o creatura “sarà” non per merito proprio, sarà senz’altro fatto da altri.
Così, sull’arco del cimitero c’è scritto: resurrecturi quiescimus, riposiamo ma risorgeremo, e qualcun altro li farà -forse- risorgere, mai da soli. E i morituri gladiatori che salutavano l’imperatore, sarebbero morti -attivamente combattendo, sì- ma uccisi. La ventura e la fattura cadranno presto addosso al prossimo.
Quindi, nella profonda passività in cui siamo naturalmente disposti nei confronti del futuro, che senso ha l’espressione “proiettarlo nel futuro e incominciare a viverne un po’ di esso già al presente”? Predisporre, come i contadini, la terra arata, seminare, e sperare che il tempo meteorologico non rovini tutto? O rischiare un viaggio come i marinai nell’oceano? O fidare nella costanza della ripetizione e del ciclo?
In effetti questa frase è un garbuglio.
@ Mayoor
Beh, pensiamoci un po’ su e nel frattempo accumuliamo spunti per chiarircela.
Eccone uno appena trovato su FB:
“Qui si presenta lo spettacolo su OSIP MANDEL’ŠTAM.
Gerundivo: forma mediale del futuro passivo titolo forse di non facile comprensione, tuttavia fedele allo spirito e alla lettera di un testo dialogico scritto da un grande poeta, di lingua tedesca, Paul Celan (1920-1970) che ha come sottotitolo un più rassicurante La poesia di Osip Mandel’štam.
In quel testo, (scritto probabilmente per un ente radiofonico tedesco, mai diffuso e rimasto inedito fino al 1988), Paul Celan riprende una delle annotazioni poetiche disseminate da Mandel’štam nell’opera in prosa Viaggio in Armenia, laddove il poeta rispondendo ad una sua stessa domanda “In che tempo vuoi vivere?”, risponde:“Voglio vivere nel participio imperativo del futuro, forma passiva, nel dovente essere”. Così riesco a respirare. Così mi piace. Ci trovo un onore equestre, da cavaliere. È per questo che mi piace il glorioso “gerundivo” latino – questo verbo a cavallo. Sì, il genio latino creò la flessione verbale imperativa come archetipo di tutta la nostra cultura, che non solo “deve essere”, ma “deve essere lodata”, laudatura est, quella che mi piace… “ In queste parole, Celan vi legge tutta la malinconia di un uomo che mentre progetta il futuro, sa che di quel futuro egli non sarà “agente”, ma “paziente”… assente!”
(https://www.facebook.com/teatrobonorismontichiari/photos/a.449217568550789.1073741829.445162035623009/611874778951733)
@ Fischer
Muovendomi a tentoni:
1. Il “nucleo di armonia del passato” per me è una *percezione* non una *realtà*. L’ho sempre colta anche in eventi per me dolorosi (vedi “Salernitudine”). È una sorta di *patina* che credo la memoria costruisca nel tempo (e che l’intelligenza contesta e fa bene a contestare). Un braccio di ferro forse interminabile. Freud non parlava di “analisi interminabile*? Marx stesso non s’interrogava sullo strano e all’apparenza inspiegabile fascino del mondo antico ( dell’arte più precisamente) sui moderni? [1]
2. Perchè bisognerebbe saperlo ri-usare?
Qui entrano in gioco i ricorrenti e tra loro diversi o contrapposti atteggiamenti verso il passato (individuale-esistenziale, sociale-storico). Per schematizzare e essere rapido: o l’atteggiamento futurista che vuole la tabula rasa; o quello reazionario (ritorno ad esso perché valore assoluto corrotto dalla storia: fascismo, nazismo, fondamentalismi vari); o quello dialettico, che condivido di più e impone o suggerisce il ri-uso.
(Trascrivo questo breve scambio tra me e Luigi Paraboschi da POLISCRITTURE FB:
Luigi Paraboschi
Ennio, io l’ho sempre fatto e anche quest’anno l’ho rimesso in funzione anche se mia figlia ormai ha 40 anni. Ma il presepe ha senso solo se sei credente, altrimenti è solo folklore. Bello l’articolo di De simone, ha detto tutto con molta chiarezza. ciao
Ennio Abate
” il presepe ha senso solo se sei credente, altrimenti è solo folklore” ( Paraboschi)
Eh no! E’ come dire che la “Commedia” di Dante ha senso solo se sei credente. O che l'”Iliade” ha senso solo se sei pagano. Il presepe, la Commedia, l’Iliade hanno senso universale ( potenzialmente per tutti). Sono dei *classici* in senso pieno. Nel commento ho cercato di chiarirlo riferendo al presepe quello che Mandel’štam diceva della ‘pietra’: « non è solo il passato, è anche il futuro». E Fortini in un saggio di “Questioni di frontiera” a pag. 149 faceva sua un’altro detto del poeta russo: «La poesia classica è poesia della rivoluzione». Per questo trovo reazionario quanto De Simone scrive sul presepe. )
3. E come cominciare a viverne un po’ al presente, se non abbiamo deciso di che cosa si tratta?
Credo sia un processo contorto, non lineare, non progressivo. Non è che lo si vive solo dopo aver « deciso di che cosa si tratta». Ci sono propensioni, tendenze accumulate nella proprioa esperienza complessiva (anche culturale, quindi in nicchie di pensiero, in famiglia, in gruppi amicali o di cooperazione, ecc.) che portano alcuni a “proiettarsi” nel futuro ( in modi diversissimi, secondo me) e altri a stare nel presente/futuro ( o presente già un po’ futuro) giocoforza ( usando il PC, tanto per dire e non la stilografica) ma con il cuore e spesso l’intelletto nel passato, praticandolo nelle forme possibili (scrivendo come si fosse totalmente immersi nel passato: prendete le poesie di Eugenio Grandinetti, ad es.).
4. Sulla frase di Mandel’štam teniamo aperte le interpretazioni. A me pare che la tua tenda a enfatizzare la « profonda passività». Io penso più ad uno sforzo *costruttivo*.
Nota [1]
Ma la difficoltà non è nel comprendere che l’arte e l’epica greca siano connesse a determinate forme dello sviluppo sociale. La difficoltà è (nel comprendere) come possano conservare per noi gusto d’arte e, in un certo senso, valere come norma e inarrivabile modello.
Un uomo non può ritornare fanciullo se non rimbambendo. Ma ciò non toglie che l’ingenuità del fanciullo lo rallegri e ch’egli sia portato necessariamente a riprodurre la sua verità su un gradino più alto, giacché nella natura del fanciullo il suo carattere personale vive e continua a vivere nella sua verità naturale. Perché dunque l’infanzia sociale dell’umanità, nei momenti in cui è fiorita più splendida, non dovrebbe esercitare un fascino eterno, come qualcosa che non tornerà mai più? Ci sono fanciulli incolti e fanciulli saggi come vecchi. A queste due categorie appartengono molti popoli antichi. I greci erano fanciulli normali. Il fascino della loro arte su di noi non è in contrasto con lo stadio non evoluto del loro sviluppo sociale, ne è anzi l’effetto, dipende cioè strettamente dal fatto che i rapporti sociali immaturi, nei quali nacque e soltanto poteva nascere, non si riprodurranno mai più…
(K. Marx, “Critica dell’Economia Politica”: http://www.filosofico.net/Antologia_file/AntologiaM/Marx_02.htm)
“Bisognerebbe saper ri-usare quel nucleo di armonia del passato rappresentato dal presepe ma per proiettarlo nel futuro e incominciare a viverne un po’ di esso già al presente.”
Sì, vorremmo tutti poter vivere una vita decente. Nell’ideale di una polis buona e giusta.
Amen.
…sì, sono d’accordo su un ri-uso del presepe. I miei nipoti quest’anno, non volendo disfare il percorso di un trenino di legno che occupava l’unico spazio disponibile l’hanno realizzato tutt’intorno così che il treno telecomandato sfreccia tra la capanna, i pastori, il gregge e le lavanderine…Così mi sono divertita a pensare ad un presepe che insceni il tempo presente-futuro…Intanto sostituirei quel bambino ariano, la pietra del presepe come fiducia nella ri-nascita della speranza nella vita, con un altro di pelle scura o bruna… madonna e giuseppe sono tutt’altro che una copia tradizionale (lei, data l'”immacolata concezione”, una femminista fondamentalista dei nostri giorni?) potrebbero essere sostituiti in vari modi: una sola mamma, due, un solo papà, due, ma anche un gruppo poligamico, perchè no?…Gli animali ci stanno bene, non dimentichiamoli altrimenti crediamo di essere di specie molto superiore…Angeli musicanti e stella cometa, che dire? certo non un’atmosfera da discoteca…il silenzio può bastare…per il paesaggio e i personaggi attorno vedrei una gran varietà, tra quelli vicini e lontani…