di Giorgio Mannacio
1.
Un amico filosofo – Ezio Partesana – mi ha segnalato un testo raccomandandomene la lettura.
Eccone i dati, per chi volesse leggerlo: Precursori dello sterminio – Binding e Hoche all’origine dell’“eutanasia” dei malati di mente in Germania – a cura di Ernesto De Cristofaro e Carlo Saletti, Ombre corte, Città di Castello 2012 (€ 12,00 ). Si tratta di un libro di ridotte dimensioni (93 pagine compresa la bibliografia ) ma validissimo nei suoi contenuti. Ecco le ragioni di tale giudizio. Per una fortunata coincidenza lo scopro nel Giorno della Memoria, che tiene insieme in vario modo – sempre altamente drammatico – Storia e Cultura. In questa esigua pubblicazione si affronta un tema che – uscendo dalla specificità della vicenda dello Sterminio – penetra nei problemi dell’eutanasia e dei cosiddetti diritti di nascere, vivere e morire. Ma allo Sterminio il libro ci costringe, con la sua logica, ad entrare.
Il testo si articola su due piani, uno documentaristico e uno critico di diverso ma egualmente inscindibile valore.
Il libro si compone di due saggi di autori tedeschi, saggi raccolti sotto un unico titolo che suona così: La liberalizzazione della soppressione della vita senza valore – La sua estensione e le sue forme.
Il primo saggio (Esposizione giuridica) è dovuto alla penna di Karl Binding, un giurista di fama la cui opera fondamentale (Compendio di Diritto penale, ed. italiana Roma 1927) è spesso citata da penalisti italiani. Il secondo (Osservazioni mediche) è opera del medico Alfred Hoche. Di lui e della sua carriera si può sapere dalle note a pag. 7 del libro che sto per commentare.
2.
Un a terza parte – che deve occupare un posto centrale nell’attenzione dei lettori – è costituita dall’Introduzione di Ernesto De Cristofaro e Carlo Saletti, introduzione dal titolo inquietante: L’uovo del serpente. Il manifesto di Binding e Hoche.
È davvero un’introduzione di alto livello: informativo e critico. Due direzioni affrontate e curate con estrema precisione e penetrazione. Credo sia indispensabile che la lettura di essa preceda – come dovrebbe essere per ogni introduzione – quella dei saggi originali dei due autori.
Dico questo perché – a parte la già rilevata funzione connaturale ad ogni introduzione – i saggi di Binding ed Hoche presentano indagini su campi di esperienza specifiche relativamente impermeabili al comune linguaggio. Sono saggi che presentano qualche difficoltà. Non perché intenzionalmente oscuri ma perché attinenti a temi complessi illustrabili, necessariamente, con linguaggi in parte specialistici. Va detto che gli autori sono – per quanto possibile – molto chiari nel porre premesse e logici nel trarre determinate conseguenze.
L’introduzione soddisfa le due esigenze fondamentali per la comprensione dei saggi: ne spiega, infatti, le rispettive logiche (giuridica e medica) e ne svela le derive umane che fanno uscire, dall’uovo delle premesse, il serpente delle conseguenze.
3.
Il cammino tra uovo e serpente (per continuare nella metafora) presenta nei due saggi una diversa dimensione tipografica. Quello di Binding ha un numero di pagine (da pag. 46 a pag. 74) di molto superiore a quello occupato dal saggio di Hoche. La differenza non è casuale. In un certo senso il medico non è responsabile della morte del paziente: la morte è inevitabile e ad essa non si può ordinare nulla. Il medico si occupa – per quanto gli è possibile – di indicare le cure per prolungare la vita. E ciò gli basta. Il giurista si occupa delle misure (norme cogenti) dirette ad assicurare che la vita di un uomo non sia spenta da un altro uomo. In questo cammino incontra svariati problemi. Se si individua la causa della morte in un soggetto umano, cui si può comandare qualcosa, il campo dell’intervento su tale oggetto si estende. Si deve comandare di non uccidere? Tale “comandamento” ha dei limiti? Si può concepire che un uomo sia la causa involontaria della morte di un suo simile? In che senso e con quali conseguenze? Ci si deve occupare dell’omicidio di sé stesso (suicidio) e in che modo? Tra questi interrogativi il giurista si muove ponendo distinguo, definendo condizioni e limiti, bilanciando in varia misura gli interessi in conflitto. Non per nulla si parla di jurisPRUDENTIA. Ma l’agguato del rettile è presente anche nel pensiero del giurista seppure velato da osservazioni oblique e da prese di posizioni ambigue. Tale è l’andamento del saggio di Binding. Ma l’autore conclude a pag. 78 con un interrogativo circa la praticabilità dell’uccisione di un soggetto la cui vita sia SENZA VALORE (pag. 67). La pregevole introduzione De Cristofaro e Saletti pone in luce gli inciampi insiti nel punto interrogativo che “il prudente Binding” utilizza e che si affretta a coonestare con una citazione di Shakespeare (“nostro contemporaneo” lo chiama J. Kott, letterato e critico polacco). Si veda Re Lear atto V, scena III.
Meno prudente il medico Hoche – che non può comandare alla Morte – termina il proprio pensiero (svolto da pag. 75 a pag. 89) con l’elaborazione del concetto di “nato inadatto alla vita” rispetto al quale una imprecisata età remota – “che noi oggi riteniamo barbara” – “riteneva naturale l’eliminazione”.
4.
È questo un punto centrale della meditazione dei due autori posto che – a ben guardare – anche il “prudente Binding” si lascia andare ad una espressione equivalente e, sotto l’aspetto linguistico, ancora più feroce (“esistenze-zavorra”: pag. 25). Le espressioni sono ramificazioni di una stessa premessa che è la formula “senza valore” e – più indietro – la nozione di “bene”, termine che è molto usato sia dai giuristi che dagli economisti.
Qui l’“imprudente” Hoche si esibisce in una vera e propria “contabilità” (pag. 81 e 82) sui costi (improduttivi) delle esistenze-zavorra rappresentate plasticamente dalla vignetta a pag. 27. Non sfugge agli autori – che come ho detto sono dotati di un loro rigore logico – il problema della relatività del concetto di vita come bene ed è presente in costoro il problema riguardante l’identificazione dell’autorità che deve necessariamente decidere sulla relativa questione. Veniamo così a scoprire l’esistenza dello Stato (pagg. 70 e 81). Chi meglio dello Stato (cui i vecchi filosofi attribuivano la funzione di preservare gli umani dai mali dell’isolamento) potrebbe valutare l’interesse di tutti coloro che l’hanno concepito, voluto e costruito?
Se l’interesse collettivo è stato quello che lo ha legittimato, è corretta la conseguenza che si elimini colui che a tale interesse oppone – in qualche modo e qualche forma – una sorta di resistenza.
Il discorso – a questo punto – diventa molto più ampio coinvolgendo il problema “politico” se il potere dello Stato abbia, debba avere dei limiti, allorquando si invada in qualche modo la stessa esistenza individuale. Per quanto ci è specificamente proposto dal libro esaminato e dai suoi contenuti particolari, basterà osservare come il serpente, ormai fuori dal proprio guscio che lo ha nascosto e nutrito, si presenti insidioso in modo ancor più sottile e imprevedibile.
Ogni società ha determinati “valori” che concorrono a determinarne l’identità. Se una società costruisce un modello di cittadino che, per essere propriamente tale, deve possedere determinati requisiti l’esito finale può essere il rifiuto sempre più pressante – da parte dello Stato, cui un certo modello appartiene –, di un modello diverso di cittadino. Il diverso diventa “inutile” alla costruzione e conservazione di un certo tipo di identità e va eliminato. Metto tra parentesi la questione (collaterale ma connessa, in certa misura determinante) sull’utilità di un simile modo di vedere nella soddisfazione di altri interessi. Per orientarsi in questo cammino – rispetto al quale l’Introduzione si presenta come un ipertesto di grande attualità – potrà essere molto utile la lettura di un’altra opera: Le origini culturali del Terzo Reich di G. L Mosse (Il Saggiatore, Milano 1988). Chiamo ipertesto l’introduzione di De Cristofaro e Saletti perché essa fa intravedere nella trama degli “inutili esplicitamente citati” “gli inutili impliciti”, gli uni e gli altri uniti – nel loro comune terribile destino – da una logica che sembra ferrea.
Se il cristiano Dante avverte che il Demonio – personificazione del Male – ha una propria logica (Inferno XXVII., 121-123), l’ebreo Kafka fa gridare ad un suo personaggio: “La logica della legge è incrollabile ma non resiste ad un uomo che vuole vivere” (Il Processo, Frassinelli, Torino 1948, pag. 346).
Milano 31 gennaio 2018
Vorrei aggiungere una nota alla presentazione dell’amico Mannacio, che ringrazio per la fatica e il servizio reso.
Il testo di Binding si regge, come certi tavolini nei salotti della buona borghesia, su tre gambe e su di esse sta in perfetto equilibrio. Eppure a guardarle da vicino queste tre gambe, dico, hanno il carattere meno confortante che si possa immaginare. Perché sono, allo stesso tempo, nostre ed estranee, ragionevoli e feroci.
Certo, son riflessioni da filosofo, non da giurista e nemmeno da medico. E tuttavia è importante seguire il ragionamento di Binding.
Ad alcuno, che volesse leggere il volumetto, non sfuggirà che il principio delle argomentazioni, l’inizio proprio, è nel diritto di un uomo a sopprimere se stesso, qualora trovi insopportabile le condizioni della vita che può vivere. È questo un diritto che, credo, pochi di noi o nessuno oserebbe mettere in dubbio; sta alla base di tutte le legislazioni, ogni volta che la pietà si incontra con quel fragile esponente del tutto che per brevità chiamiamo “individuo”.
Ma peggio ancora, la “vita non degna di essere vissuta” è così chiamata quando il dolore supera il piacere, quando la semplice esistenza (Ennio, ricordi il “sacer” della biopolitica?) è solo pena. E anche questo è un principio che abbiamo ereditato dall’Illuminismo, dalla sacrosanta ammissione che l’uomo non è obbligato a soffrire; può farlo quando vi sia un “altrove” che valga la pena, altrimenti resta solo la pena, e non ha senso.
Perfino il terzo degli ideali che Binding adopera per raccomandare di sterminare tutti quelli che non sono all’altezza delle aspettative è ragionevole e condiviso: l’interesse di molti vale più dell’interesse di uno. Se per mantenere in vita la vecchia alcoolizzata e cattiva, che urla a tutti i ragazzi nel quartiere, devo togliere il denaro all’ospedale dove ogni giorno curano i bambini di tutti, chi vale di più: la vecchia o i bambini?
Ecco, questo volevo aggiungere alla recensione di Mannacio: gli ideali dello sterminio sono simili a quelli della pietà, ovvero se siamo tutti bravi a rintracciare l’incerto padre e la madre leggera dell’Illuminismo, volentieri in cambio ci dimentichiamo del rovesciamento: non solo la ragione nasce dal mito, ma in esso ritorna, qualora non rifletta su se stessa.
Un saluto a tutti,
Ezio Partesana
Non ho letto il libro e quindi non mi sento di entrare nel merito. Intervengo solo per raccogliere lo spunto offerto da Ezio:
«gli ideali dello sterminio sono simili a quelli della pietà, ovvero se siamo tutti
bravi a rintracciare l’incerto padre e la madre leggera dell’Illuminismo, volentieri in cambio ci dimentichiamo del rovesciamento: non solo la ragione nasce dal mito, ma in esso ritorna, qualora non rifletta su se stessa». (Partesana)
Che a me rimanda contemporaneamente sia a “Dialettica dell’illuminismo” di Horkheimer e Adorno ( vecchia lettura che credo di aver assimilato nella sostanza ma ho ripreso in mano solo occasionalmente per poterne parlare a proposito qui) sia ad un articolo letto su “Sinistra in rete” nel 2015, che archiviai ma non ebbi poi modo di segnalare. Mi parve e mi pare complementare ma anche aggiornato sul dibattito filosofico più recente; e tra l’altro muove alcune critiche ai due studiosi francofortesi su cui riflettere:
SEGNALAZIONE
Critica dell’Illuminismo: 8 Tesi.
di Norbert Trenkle
http://www.sinistrainrete.info/filosofia/5064-norbert-trenkle-critica-dellilluminismo-8-tesi.html
Stralci:
1.
Ma Horkheimer e Adorno, per quanto aprano delle vaste prospettive per una critica fondamentale dell’Illuminismo, rimangono tuttavia sotto molti aspetti prigionieri del suo universo mentale. Ciò riguarda in primo luogo il concetto stesso della ragione dell’Illuminismo, che la “Dialettica dell’Illuminismo” intende in maniera trans-storica. Spostando l’origine della razionalità moderna e facendola risalire all’antichità greca, anziché situarla nel processo di costituzione della modernità capitalistica, Horkheimer e Adorno ne confondono i tratti specificamente storici. Facendo loro la concezione per cui, prima dell’avvento della ragione moderna, l’intera umanità sarebbe vissuta nelle tenebre della naturalità o sarebbe stata schiava del “mito”. La ragione moderna e razionale viene scambiata per la sola forma di ragione che sia mai esistita.
2.
, bisogna fare in modo che la critica della società capitalistica non risparmi nemmeno l’Illuminismo. Quanto a quei momenti che esso contiene e che puntano alla liberazione sociale, vanno passati al setaccio della critica dell’Illuminismo e delle sue categorie. Questi momenti non sono affatto da “realizzare” ma, come il modo di produzione ed il modo do vita capitalista, da superare [aufheben], nel triplo senso hegeliano del termine. Del resto, non è certo che si possa attribuire “ai Lumi” il merito di tutto quello che la società borghese ha potuto produrre in termini di momenti tendenzialmente promettenti. Una parte non trascurabile di tali momenti provengono infatti dalla critica delle forme capitalistiche di dominio, anche se, spesso, è stato invocando l’Illuminismo, la democrazia ed i diritti dell’uomo che si è arrivati a delle azioni di giustizia e si è combattuto
3.
Nel quadro dell’Illuminismo, è possibile un’altra dialettica, che consista nell’opporre senza tregua la realtà effettiva alle pretese che, per esempio, stigmatizzano la violenza statale ed invocano i diritti dell’uomo (a dispetto del fatto che lo Stato ha come compito quello di mantenere le forme capitaliste, esercitando una violenza spietata quando ce n’è bisogno), oppure che denunciano, questa volta nel nome della democrazia, il fatto compiuto di una messa sotto tutela di tutta la società, da parte del processo cieco della logica della valorizzazione. Generalmente, la sinistra tradizionale ha tacciato di idealismo questo tipo di accuse, in quanto oppongo gli ideali alla realtà. Inversamente, si considera come materialista il punto di vista secondo cui la borghesia avrebbe tradito i suoi propri ideali per consolidare il suo dominio di classe, e che la sfida oggi consisterebbe nel realizzare, nel socialismo o nel comunismo, i principi, di per sé buoni, dell’Illuminismo (anche Adorno era di quest’avviso, tranne che per il dettaglio che non nutriva alcuna speranza nel movimento comunista).
Conoscevo le obiezioni di Trenkle che mi paiono, sinceramente, datate e un po’ vaghe (meglio il primo Habermas allora). Ma non è qui il luogo per un dibattito sopra la dialettica in Adorno.
A chi ha tempo, e il minimo di strumenti necessari, consiglierei però la lettura del testo di Horkheimer e Adorno, se possibile una lettura comune.
Un saluto,
Ezio Partesana
…un discorso molto impegnativo, che non si puo’ certo dire astratto per il fatto che comporta implicazioni di natura sociale, ma anche personali. Il dubbio resta, per me, sempre presente in questo campo. Anzi, se ci penso e poi capiterà anche di viverlo, ho l’impressione di trovarmi su un breve crinale scivoloso, circondato da burroni…Restando ferma la convinzione che nessuno sia “nato inadatto alla vita”; se ci siamo, la natura stessa ci giustifica tutti e nessun singolo essere umano o entità come lo stato possono dire il contrario, viene da chiedersi cosa sia la vita oppure semplicemente è un sentirla svolgersi in sè e intorno a sè…L’illuminismo, il socialismo-comunismo come le religioni ne offrono dei significati e delle finalità…A questo punto potrebbe essere il libero arbitrio soggettivo che “sceglie”, cercando soprattutto forme di rispetto per la vita, per il fine-vita…
Notazioni aggiuntive
1.
Prima di tutto, grazie alla Redazione di Poliscritture per l’ospitalità offerta al mio testo. In secondo luogo grazie per l’attenzione prestata ad esso da alcuni. Infine: una sorta di confessione. L’ho scritto – anche se si tratta di poco più di una recensione – con qualche perplessità. In esso sono contenuti alcuni elementi equivoci che possono essere letti come una adesione più o meno esplicita e convinta ai ragionamenti di Binding e Hoche o quanto meno come una non esplicita condanna di essi. L’amico Partesana che ha “ la responsabilità “ di avermi indotto alla recensione esprime con grande acutezza questi elementi di ambiguità nella frase altamente drammatica:
“ Gli ideali dello sterminio sono simili a quelli della pietà “.
Mi rendo contro che ha scarso valore il richiamo perentorio alla propria coscienza a fronte di derive qualitativamente tragiche e strutturalmente politiche e non a caso ho concluso il mio scritto non con un ragionamento ma con una invocazione.
Se esso avrà suscitato un dibattito sull’Illuminismo e su Adorno- Horkeimer ,nessuno più soddisfatto di me che potrò – in esso – essere discente ed ascoltare.
A tale atteggiamento intendo premettere alcune osservazioni. Non ho ben chiaro cosa si intenda per Illuminismo; se esso abbia a che fare con i’attrazione del mito nella ragione ( il mito inteso nel senso di falsa rappresentazione della realtà ) e, infine , quale sia il rapporto ( se esiste ) tra Illuminismo e Progresso.
2.
Molto ingenuamente ho inteso tale termine in un senso del tutto particolare come comprensivo sia di un atteggiamento “ eterno dello spirito “ ( ricerca della verità ) che di un periodo storico determinabile con una certa sicurezza caratterizzato dalla prevalenza del primo rispetto ai “ pregiudizi “ di una data società e come tale transeunte.
Sempre molto ingenuamente mi sono chiesto se non sia possibile parlare di ragione con la R maiuscola quasi questa fosse una divinità che impone i suoi precetti assoluti. Cos’è la ragione ?
Se – abbandonata la R maiuscola – riflettiamo sulla ragione o le ragioni dei nostri comportamenti , individuali o collettivi che siano, ed esprimiamo con essa il rapporto di adeguatezza e utilità tra azione e scopo , l’Illuminismo diventa utilitarismo. Questa deriva rende inevitabile una sorta di relativizzazione del concetto di ragione e in ultima analisi quasi banale la sua dialettica.
L’illuminismo con la I maiuscola resterebbe allora relegato nel lumicino che circoscrive – in una vasta zona d’ombra – le pochissime verità scientificamente dimostrabili.
3.
Mi sembra plausibile la connessione tra Illuminismo ( nel doppio senso che ho adottato ) con la tematica del Progresso. Ma tale connessione diventa un problema se si riflette doverosamente
su quella che io chiamo l’economia universale. La Natura non dà mai nulla gratuitamente e per ogni beneficio o presunto tale pretende un corrispettivo che è per noi sacrificio o presunto tale. In questo quadro – che per me è ineliminabile e appartiene alla struttura del mondo – quale posto e quale significato attribuiamo all’Illuminismo ? Se ad un progresso o presunto tale corrisponde una perdita o presunta tale dove sta la luce ?
I problemi si complicano se dal piano individuale che entro certi limiti consente le mediazioni e accomodamenti astuti, il problema diventa complicatissimo sul piano collettivo entro quale vige la struttura dei rapporti e- dunque – della contrapposizione per così dire istituzionale.
Se tutto è relativo. Tutto è possibile ma se tale conclusione ci sembra umanamente intollerabile
Non c’è altra strada – mi pare- che tentare una costruzione o ricostruzione di una scala di valori “ universali “ cioè ad un’etica non negoziabile. E’ una strada tutta in salita. Ma quando mai l’uomo ha pedalato in discesa ?
Che sia questo il senso dell’Illuminismo come categoria del pensiero ?
G. Mannacio
* NOTA DI E. A.
Ho spostato questo commento collocato erroneamente sotto un vecchio post del 2014 ( Sui veri poeti)
…le annotazioni aggiuntive di G. Mannacio mi hanno orientata ad un chiarimento del discorso, sebbene sempre aperto e problematico…Per quanto credo di avere capito, i due volti dell’Illuminismo e della stessa ragione che ne viene esaltata comprenderebbero: la ragione come ricerca della verità contro ogni forma di pregiudizio e la ragione spregiudicata che, data una concezione della società, ricerca l’interesse delle classi dominanti, spacciandolo per bene comune…La prima concezione della ragione, credo, la rende strumento al servizio di alcuni valori universalmente condivisi, la seconda invece diventa uno strumento di potere della classe dominante che promuove leggi apparentemente razionali e giuste, in realtà ai fini di escludere e sottomettere…Non so se tali ragionamenti si possono applicare ai due momenti importanti dell’inizio-vita e del fine-vita…Per i quali, secondo me, la difficoltà sta nell’escludere sia il sistema del’eugenetica, di stampo nazista, sia la rigidità colpevolista e confessionale di certa religione…Il progresso in questo caso non sempre aiuta e i valori, come la comprensione e la pietà su fronti diversi, sono importanti
Volentieri rispondo all’amico Giorgio, non solo per l’umiltà laboriosa che ha dimostrato nel parlare del libro di Binding e Hoche, ma per alcuni anni di studio sopra Adorno e Horkheimer che, se non mi tengono al riparo da errori, almeno mi dànno una certa conoscenza in merito. E in questo modo spero di fare cosa gradita anche a Annamria Locatelli che ha commentato per ultima la recensione di Mannacio.
Il concetto di “ragione” nella “Dialettica dell’Illuminismo” non è etico né politico, per quanto lo sia, eccome, la sua dialettica. Possiamo rappresentarlo come uno sforzo di separazione di ciò che si trovò originariamente unito, e che insieme alla costituzione di un Soggetto portò infine alla celebrazione dell’Individuo, più o meno come inteso nel celebre scritto di Kant.
Ora la necessità è quella di afferrare la contraddizione tra “mito” e “ragione” e, se possibile, seguire Horkheimer e Adorno quando argomentano che l’uno era già l’altra e che l’altra ricade (inevitabilmente?) nel primo.
Con un po’ di semplicità potremmo dire che il mito spiega quanto accade riconducendolo a una volontà – di dei, uomini o potenze evocate – mentre la ragione vuole scoprire le leggi che regolano l’universo; non importa che queste siano approssimative, come scrisse Galileo, Dio potrà anche aver creato il mondo, ma l’ha fatto parlando la lingua universale della matematica.
Prima di vedere il “rovesciamento”, a complicare la dialettica c’è il fatto che, sempre secondo Horkheimer e Adorno, il Soggetto che opera attivamente questo mutamento di paradigma, nasce esso stesso grazie e all’interno di questa dialettica (Excursus sopra Odisseo). Così che il borghese del Diciottesimo secolo è al contempo il compimento e il mascheramento del processo, trionfa sopra la natura ma porta in sé, diciamo così, le cicatrici della originaria separazione.
Il problema è che anche il più astruso o sciocco rito prevede di poter dominare l’altro, la volontà dell’altro che presiede allo svolgimento delle cose, e dunque divide tra soggetto e oggetto e assegna al primo la funzione di dominio sopra il secondo che è, e dovrà essere, per forza di cose passivo. Al tempo stesso la ragione, che si proclama oggettiva e libera da fantasmi, non riesce più a vedere il momento della separazione tra l’individuo e la natura (“mana”, lo chiamo i due tedeschi), né i sacrifici che sono stati imposti, autoimposti, all’individuo per poter assurgere a dominatore obiettivo delle cose, a “copista” e scrutatore della matematica di Dio. Ipostatizzando il momento del dominio, la Ragione si immagina di poter avere ragione di quanto accade solo perché lo guarda e lo studia, proprio come l’ignoto pittore rupestre era convinto di favorire il buon risultato della caccia dipingendo buoi e cacciatori sui muri delle caverne (e chissà che non fossero pittrici anziché pittori…).
Questo è il primo passo della Dialettica dell’Illuminismo, non certo l’ultimo.
Due anni fa mi proposi per un seminario sopra questi temi da tenersi presso una conosciuta libreria milanese, al primo incontro vennero quattro persone e due amici. Voler capire e non voler studiare, anche questa scappatoia è mito e ragione al tempo stesso. Ma non andiamo troppo in lungo, che è solo febbraio e fa ancora freddo.
Intervengo per ora solo sul punto finale:
“Due anni fa mi proposi per un seminario sopra questi temi da tenersi presso una conosciuta libreria milanese, al primo incontro vennero quattro
persone e due amici. Voler capire e non voler studiare, anche questa
scappatoia è mito e ragione al tempo stesso. Ma non andiamo troppo in
lungo, che è solo febbraio e fa ancora freddo.”
Per un suggerimento (interessato) a Ezio: perché non convertire quel seminario in una serie di post su vari temi filosofici (meglio ancora sarebbero dei brevi video su You Tube, ma io non sono in grado di prepararli …) qui su Poliscritture? (O, siccome non ambisco a mettere nessuna etichetta sul sapere dei singoli o dei gruppi, su qualsiasi altro luogo di possibile discussione).
Caro Ennio,
perché il tempo è quello che è, e lavorare per aver otto persone che leggono anziché quattro è un trionfo un po’ troppo piccolo per sottrarmi ai miei studi e alle mie scritture. Ho assunto, si parva licet, la stessa posizione di un nostro maestro tanto tempo fa: se qualcuno domanda io non mi sottraggo, ma non vado a inseguire interlocutori che, ahimè, esistono solo nei miei desideri.
Un abbraccio,
Ezio.
@ Ezio
Ti do (quasi) ragione. Io sono ancora rimasto all’antico detto ” Se la montagna non viene a Maometto, allora Maometto va alla montagna”. (Che, tra l’altro pare sia tutta un’invenzione per darsi coraggio: http://oubliettemagazine.com/2014/11/23/la-storia-del-detto-popolare-se-la-montagna-non-viene-a-maometto-allora-maometto-va-alla-montagna/)
…se ho capito, la ragione sfida il mito, ma con esso anche la natura, che vuole imitare ma anche superare e manipolare, così finisce con il trasformarsi essa stessa in un mito assoluto…In tal modo Adorno e Horkheimer muovono la loro critica all’illuminismo e ai miti scientifici e tecnologici…Difficile dar loro torto…Ringrazio Ezio Partesana per i chiarimenti e la disponibilità…
Sì, si potrebbe dire anche così. Tenendo conto, però, che la Ragione non è un ente astratto, ma una produzione (sostanzialmente attraverso la divisione del lavoro e la repressione delle pulsioni) di un Soggetto che fa parte – o ne faceva – della natura esattamente come quelle leggi che oggi vorrebbe dominare.
Un saluto,
Ezio Partesana
…sì, d’accordo la Ragione, con le sue virtù, tra cui il senso del limite, sa assecondare la Natura, anzi ne interpreta le leggi…Viceversa, se non si riconosce un limite, va per conto suo…grazie Annamaria
Caro Ezio, con la tua osservazione secondo cui gli ideali dello sterminio sono simili a quelli della pietà hai scagliato una pietra micidiale nello stagno ma chi ci nuotava dentro ? L’amicizia mi consente una minima impertinenza anche se colgo un giusto sospetto verso i non filosofi e i filosofi mancati ( quale mi dichiaro ) e contro chi non ha approfondito abbastanza Adorno e Scuola di Francoforte. Ma, ti prego, questo atteggiamento non ti spinga a non intervenire più sull’argomento posto che tanti o, almeno io, siamo pronti come discenti ad ascoltarti.
1.
Torniamo al destinatario del tuo sasso. E’ l’Illuminismo ? Pietà per i defunti. Il movimento che ha dominato il ‘700 e sul quale l’astuta Borghesia ha costruito le sue fortune è morto da tempo.
K. Loewitt – nel suo magistrale testo che tu certamente conosci ( Da Hegel a Nietzsche – La frattura rivoluzionaria nel pensiero del XIX secolo ) elenca l’eterogenea schiera degli esecutori di tale delitto , assassini ben attrezzati ( Marx, Nietzsche, addirittura gli atei devoti…..) E come se ciò non bastasse si è mesa di mezzo anche la Scienza che – dopo essere stata onorata degli antichi filosofi – è, dai moderni e modernissimi, un poco dimenticata.
In questo senso e in questa direzione mi sento di condividere la tua affermazione circa le tesi un po’ datate di Trenkle, anche se tale adesione è – da parte mia – più emotiva che verificabile con argomenti testuali.
Dobbiamo dunque rivolgere la tua pietra ad altro soggetto.
Lasciamo stare anche l’idea di Un Progresso costante. Se la linguistica ci avverte già che progresso significa semplicemente andare avanti l’ esperienza ci mostra con abbondanza di argomenti che non vi sono acquisti senza perdite e che la Natura non concede nulla che non si riprenda da un’altra parte ( a proposito ho parlato di Economia universale ).
L’Illuminismo ci richiama il concetto di Ragione ( per ora con la R ) ,ma il senso ultimo di questa parola è controverso. I Presocratici parlavano di Logos intendendo le trame della natura che
– però – avvertiva Eraclito in un enigmatico frammento “ ama nascondersi “.
Su questa oscurità è intervenuta la Scienza che a volte è arrivata ad esiti di certezza, salvo – direbbe Popper – la loro falsificabilità. Ma per i settori ancora inesplorati l’Illuminismo non serve.
Sono d’accordo con te quando affermi che la Ragione non deve essere intesa come una sorta di entità ontologicamente esistente ed immutabile. Ma se arriviamo all’altro senso – più concreto e determinabile che ho proposto ingenuamente – rinveniamo una sorta di rapporto tra mezzi e fini che può portare a derive inimmaginabili. Ma la Scienza non è in grado di evitarle. Il suo fine è di Certezza e non di Verità .
Due Massime di Goethe – che tu sai leggere nella lingua originale – suonano così :
“ Non si giunge mai tanto oltre come quando non si sa dove andare mai a tanto oltre quando non si sa dove andare “ “
“ Nulla è più inconseguente della suprema conseguenza perché essa produce fenomeni innaturali che infine si rovesciano “
Medito spesso – ingenuamente e da filosofo mancato – su tali avvisi ai naviganti.
A cosa ci deve portare la critica dell’Illuminismo e suo derivati o complici più o meno volontari se non all’Etica che fissa obbiettivi umanamente accettabile e smaschera la consequenzialità ?
Una sfida enorme e per questo – forse –l’Etica è il campo meno visitato della Filosofia. O sbaglio ?
A rileggerti presto. Giorgio.
Caro Giorgio,
con me puoi permetterti quasi tutto e perciò non mi sottraggo a un tentativo di risposta, con la sola preghiera di ricordare che quel che scrivo è sopra la filosofia di Adorno, non la mia opinione.
Noi siamo portati, direi quasi abituati, a pensare per oggetti. Quand’anche fossero complessi d’esperienza o rivoluzioni storiche, sempre ci paiono star di fronte a noi come “cose” da studiare (è quella che Husserl, altro bel dimenticato, chiamava “intenzionalità”). Il problema è, però, che seppur perfetta la traduzione di Aufklaerung con Illuminismo perde un pezzo, che meglio sarebbe mentalmente sostituire sempre con “rischiaramento” o “chiarificazione”. Insomma, oggetto della dialettica (vedi? ci ricasco anche io…) sono due processi, o due movimenti: il passaggio dal mito alla ragione e il ricadere della ragione nel mito. È attraverso la critica di questi due processi che si definisce cosa sia mito e cosa sia Illuminismo, non prima. Così quel che Adorno e Horkheimer ci dicono è che nel passaggio dal mito alla ragione si costituisce l’individuo moderno e la separazione e il dominio sulla natura, ma anche che questa liberazione tende a rovesciarsi nel suo contrario non appena, diciamo così, l’autocoscienza molla la presa e lascia che la coscienza diventi l’unica unità di misura. La pietà verso la sofferenza è cosa sacra, ma la radice del sacro non è diversa da quella dell’espulso, del sacrificabile (“Homo sacer” di Agamben è un gran bel libro).
La personale soluzione che Adorno dà a questa dialettica infinita è molto simile a quella che tu proponi con tanto di punto interrogativo: il primato ontologico dell’etica sull’essere ma, scrive lui stesso, anche questo primato conduce alle fosse comuni.
In realtà ci sarebbe anche un’altra uscita, ma questo mio intervento, che si voleva risposta breve, sta diventando una scarsa lezioncina di filosofia, e io non sono d’accordo con me stesso quando faccio così.
L’unica cosa che posso fare è sollecitare le domande e rispondere cercando di far venire la voglia di studiare, in gruppi di due o più, questo gran guaio che è la nostra meravigliosa testa.
Un abbraccio,
Ezio.
@ Partesana
Caro Ezio, grazie dei chairimenti che mi soddisfano e mi aiutanoi a ripensare e a tenere sveglio il cervello. Per quanto l’uomo faccia il serpente è sempre in agguato e la lotta
( minuscolo ) è continua. Risulta da studi di neurofisiologia che solo i serpenti non sognano. Per noi è importante avere qualche visione notturna ma anche qualche lume da svegli. Un carissimo saluto e grazie. Giorgio