di Donato Salzarulo
1. – A diciotto anni compiuti, tra l’autunno del 1967 e l’inizio dell’estate del ’68, ho vissuto a Rivoli, un comune abbastanza popoloso della cintura torinese (ad oggi circa 49.000 abitanti).
Risiedevo a pagamento in un convitto gestito da famiglie protestanti, provenienti dagli Stati Uniti. Oltre ad ospiti come me, iscritti all’Università di Torino – io ero iscritto al primo anno della Facoltà di Magistero, corso di laurea in Pedagogia –, c’erano degli studenti frequentanti l’annessa Facoltà di Teologia, candidati a diventare pastori di Chiese evangeliche. Nel complesso residenziale, con un ampio giardino e una ricca biblioteca, funzionava anche un Liceo linguistico. Insomma, un ambiente abbastanza vivo e stimolante, per chi, come il sottoscritto, proveniva da una famiglia povera, contadina di un paese delle alture irpine.
Ero finito lì, grazie ai buoni uffici del pastore Donato Castelluccio, personalità carismatica per molti giovani del mio paese, e grazie al fatto che con il pre-salario (così si chiamava allora la borsa di studio) avrei potuto pagarmi la retta del convitto. Pagarmi?!… In realtà, senza l’aiuto dei genitori non avrei potuto, comunque, risiedere a quasi mille chilometri da casa. Ora come allora, il costo di uno studente è di molto superiore a quello della retta di un qualsiasi convitto. Dopo un anno, infatti, i miei genitori si ritrovarono indebitati. Non si trattava di cifre astronomiche, ma erano tali che decisi di trovarmi un lavoro. Le famiglie contadine non amavano far debiti.
Fu la coscienza di questa condizione che mi rese antipatica ed estranea la poesia di Pasolini, pubblicata sull’Espresso nel giugno ’68 e scritta dopo gli scontri di Valle Giulia:
«Avete facce di figli di papà. Vi odio come odio i vostri papà. Buona razza non mente.»
Figli di papà?!… Ma io non ero un figlio di papà. Ero figlio di poveri, come lo era il mio omonimo cugino, nato un anno dopo di me e arruolatosi successivamente in Polizia.
Due Donati, provenienti dallo stesso paese di montagna, due destini diversi. Io, secondo Pasolini, a far da gregario ai figli di papà che guidavano i movimenti studenteschi, l’altro ad eseguire gli ordini di altri figli di papà – Pasolini non avrà sicuramente pensato che questori o prefetti provenissero da famiglie operaie o contadine – che ordinavano manganellate sulle teste degli studenti.
Quella poesia mi procurò un forte dispiacere. Mi dispiacque perché fino a quella data avevo seguito con grande interesse l’autore, leggendo i suoi interventi prima su Vie Nuove e poi sul Tempo.
Certo, Pasolini non si rivolgeva a me e quei suoi versi, com’era suo costume, erano abbastanza provocatori. Lo capii dal dibattito che accompagnò la poesia. Ciò non toglie che la vissi come una ferita, una pugnalata inferta da una persona che consideri amica.
In seguito continuai a leggerlo, ma non più con l’immedesimazione e il trasporto di un tempo.
2. – Ma andiamo con ordine. Chi ero io, quando all’inizio dell’anno accademico 1967/68, suonai il campanello del convitto Filadelfia in Via Colla a Rivoli?… So che la memoria inganna, perciò mi limito a dati materiali, incontrovertibili.
– Ero un diciottenne da poco sposato (21 settembre 1967): «Sul mio matrimonio censuro / lo veglia sicuro il demonio / Ti giuro che avevo paura / e ancor più paura la sposa.» Ho scritto venticinque anni dopo e, nella ricorrenza del quarantesimo, misi in guardia i convitati:
«L’ultima cosa che vorremmo è essere presi come esempio. Non siamo, per fortuna, Giulietta e Romeo né Tristano e Isotta. La tragedia non è il nostro forte. Quando ci incontrammo, quarant’anni fa, Giuseppina vide in me il suo cantante amato ed io in lei un’aria gitana insieme a una grazia cittadina affascinante. Sedotti dal bosco, andammo subito verso la regina delle conoscenze, che decise così la nostra unione, esponendola a tutte le turbolenze degli innamorati e degli amanti.»
Tutto questo giro di parole per non dire che io e mia moglie fummo costretti a un “matrimonio riparatore”. Evento che oggi sarebbe impossibile per varie ragioni. Non ultima perché c’è stato il Sessantotto. Infatti, nell’espressione dei propri affetti e della propria sessualità si può dire che c’è un “prima” e un “dopo” il Sessantotto; questo esaltò, in vari modi, l’anticonformismo, l’”amore libero”, la critica ai modelli familiari borghesi e patriarcali, la lotta contro la “repressione addizionale” (Marcuse) connessa al principio di prestazione e alle restrizioni imposte dal dominio sociale.
– In una certa fase della mia esistenza – diciamo fra i 15 e 16 anni – avevo deciso che studiare sarebbe stato il lavoro della mia vita e i buoni risultati dell’abilitazione magistrale m’incoraggiavano a proseguire in questa direzione.
La decisione era maturata sia osservando quanto fosse dura la fatica dei contadini del mio ambiente (a cui qualche volta m’ero limitato a dare una mano), sia dopo aver provato per pochi giorni quanto sudore grondasse dalle fronti dei muratori.
Questa “prova da muratore” merita un breve accenno. Adolescente squattrinato e annoiato dalle lunghe giornate estive, trascorse a chiacchierare con gli amici, una sera, al ritorno di mio padre dalla vigna, gli annunciai che non avrei più studiato (fatto al quale teneva moltissimo).
Sarei andato a fare il muratore. «Va’ pure» mi rispose. E mi trovai un mastro.
Il giorno dopo, alle sei ero in piedi, sul luogo di lavoro: stavano costruendo una casa a due piani in un angolo di piazza Duomo. Fortuna o sfortuna volle che capitai nel momento dell’armatura dei cordoli, quando bisognava far su e giù per la scala e riempire in fretta il canaletto di cemento.
Tornato a casa, dopo una decina d’ore di questo trasportare cardarelle o, come vuole lo Zingarelli, cofane in spalle, salendo e scendendo, mangiai un boccone e andai a letto. Ero stanco morto. Uno straccio. Durò giovedi, venerdi e sabato. Altro che annoiarsi in piazza!… Stringevo i denti. «È tutta una questione d’abitudine», mi dicevo. «Un po’ di pazienza e il corpo si abituerà.»
Aspettavo la domenica per riprendermi, riposarmi e tornare a fare un po’ di vasche su Corso Romuleo con gli amici. Quand’ecco che Armando, il capo di noi giovani apprendisti, «Donato – mi fa – domani mi vieni a dare una mano… Ho un piccolo lavoretto in Via Mancini…Per mezzogiorno finiamo…». Non potevo dire di no.
L’indomani alle sei ero lì, a impastare calce. Armando, che poteva avere quattro o cinque anni più di me, cominciò a pungolarmi: «Dai, sbrigati!… Sbrigati!…», e dagli inviti passò agli insulti: «Ma sei un cretino!… Muovi bene questa pala!…» e dagli insulti alle minacce: «Se non ti sbrighi, ti do questa pala in testa…» e la rivolse verso di me… Non ci vidi più. Abbandonai la mia pala per terra e me ne andai. Arrivato a casa, spiegai l’accaduto e promisi ai miei che avrei studiato per tutta la vita. Autoritarismo per autoritarismo preferivo quello dei professori – che pure non sopportavo – a quello di un capomastro.
Oltre a quello dei maestri, l’autoritarismo dei professori l’avevo sperimentato dalle Medie. Non era soltanto quello becero e codino di chi si armava di forbici e voleva tagliare i nostri capelli di adolescenti imitatori dei Beatles, dei Nomadi o dei Rokes; non era soltanto quello sfacciatamente violento di chi poteva sfilarsi la cintura dai pantaloni e brandirla contro il ragazzo che aveva disturbato o infilato una spilla nel sedere di qualche compagno seduto davanti; l’autoritarismo più diffuso e normale era quello del professore che tornava a piazzare sadicamente un due a chi ne aveva già collezionato una serie; era quello di chi umiliava, derideva, minava, in modo irreparabile a volte, l’autostima del povero malcapitato che non riusciva a correggere i suoi errori.
Per questa situazione ho un aneddoto: faccio fatica a pronunciare la “u” lombarda, quella con la dieresi sopra. In seconda magistrale, il professore di francese continuava immancabilmente a correggermi. Ma per quanto provassi e riprovassi, quel maledetto suono sulle mie labbra non riusciva a formarsi. Un giorno, non ci vidi più. Interrogato, all’ennesima correzione, presi il mio libro e lo lanciai sulla cattedra verso il professore.
«FUOOORII!… DAL PRESIDE!...». Cinque giorni di sospensione e sette in condotta. Recuperare il rapporto ed evitare di ritrovarmi rimandato in tutte le materie a settembre fu un duro lavoro. Meno duro, sono certo, di quello da muratore.
Il fatto indubbio del periodo era questo: l’autoritarismo che caratterizzava le diverse istituzioni sociali (famiglia, scuola, chiesa, impresa, ecc.) e che era uno stile di comando profondamente condiviso. (Detto tra parentesi: purtroppo in questi anni è ritornato abbastanza in auge.)
– Dopo l’importante decisione, mi attrezzai per studiare e allargare le mie conoscenze. Il che comportava l’andare oltre i contenuti dei libri scolastici: da qui l’acquisto di settimanali e di altri libri. Tra le riviste: Vie Nuove e Rinascita. (Mio padre era un iscritto al PCI dal dopoguerra). Fu sulla prima di queste riviste che lessi dei dialoghi di Pasolini coi lettori. Tra i libri: tutto ciò che riuscivo a comprare all’edicola (gli Oscar Mondadori), a rate, su ordinazione (al paese non c’era una libreria) o andando ogni tanto in città (più spesso a Foggia, certe volte ad Avellino o a Napoli).
Quando nell’ottobre del 1967, varcai la soglia della stanza assegnatami nel convitto di Rivoli, avevo con me una valigia di libri che sistemai sugli scaffali di una piccola libreria. Avevo con me, tanto per fare dei nomi, Baudelaire (I fiori del male), Leopardi (Canti), Gramsci (Quaderni dal carcere), Marx (Opere filosofiche giovanili), Sartre (L’essere e il niente, Che cos’è la letteratura?, Baudelaire) Auerbach (Mimesis), Dostojevskij (I fratelli Karamazov), Buzzati (Un amore), Pavese (Verrà la morte e avrà i tuoi occhi), Vittorini (Conversazione in Sicilia), ecc.
– Si va oltre i contenuti scolastici non solo leggendo altri libri, ma anche parlando con chi ha già delle conoscenze e delle esperienze interessanti, speciali. Oltre ai compagni di scuola, in quegli anni acquistarono un ruolo importante per la mia formazione, alcune persone più grandi di me: il già citato pastore Donato Castelluccio, Nicola Arminio, studente universitario emigrato per un certo tempo in Germania, Michele Panno, maestro di scuola elementare e lettore attento dell’Espresso.
Con queste persone parlavo di tutto: dalla politica del PCI a quella dell’odiata DC, dalla questione meridionale alla piaga dell’emigrazione che svuotava il paese, da ciò che stava succedendo in Vietnam alla “Populorum progressio”, dai tentativi di colpi di Stato (il Sifar) alla nostra condizione di “sudditi americani” grazie alla Nato e agli accordi di Yalta, dai libri recensiti sui giornali ai film visti o non visti al cinema.
Ricordo che partendo per Rivoli, salutai gli amici con una conferenza nella casa del pastore Castelluccio sulla “letteratura degli anni Sessanta e l’impegno del lettore”.
Inoltre, tra il ’66 e il ’67, avevo animato con l’amico poeta Nicola Arminio un’associazione culturale denominata “Nuova Resistenza” che si riuniva nell’edificio dell’UNLA e, grazie ai contributi di quest’Ente, eravamo riusciti ad allestire una bibliotechina ordinando libri tratti soprattutto dai cataloghi Einaudi ed Editori Riuniti.
L’esigenza di promuovere questa nuova associazione nasceva dall’insoddisfazione provata nei confronti della FGCI. Per qualche anno ne ero stato tesserato, ma senza ricavarne stimoli significativi. La sua vita sociale e culturale era quasi del tutto inesistente e i responsabili locali si limitavano, per lo più, all’atto burocratico del tesseramento.
A dirla con l’occhio dell’educatore che sarei diventato, avevamo a che fare con un giovane orientato a sinistra, che aveva vissuto delle esperienze “autoritarie” anche singolari, che amava la cultura (intesa come saperi “disciplinari” e non solo), che aveva scelto con relativa certezza la sua strada (laurea in pedagogia e professioni sociali collegate), che manifestava atteggiamenti di apertura e curiosità verso il nuovo, che aveva una grande voglia di allargare la sua esperienza e di gettarsi a capofitto nella vita sociale, culturale e politica.
3.- Le prime settimane rivolesi e torinesi furono di ambientamento. Avevo addosso un forte carico emotivo da smaltire. Avevo accompagnato per una decina di giorni Giuseppina nella Svizzera tedesca, a Mels, vicino Sargans, dove lei sarebbe rimasta con la sorella e con la mamma, vedova ed emigrata. L’accordo era che avremmo messo su casa, non appena le condizioni ce l’avrebbero permesso. In pratica, appena finivo gli studi.
Intanto, stavo a Rivoli. Per fortuna, non del tutto solo e spaesato. Nel convitto c’erano persone che conoscevo: Eliseo, Pasquale, Michelangelo… I primi due erano figli del pastore Castelluccio. Il primo frequentava il Liceo linguistico, il secondo la Facoltà di Teologia (avrebbe seguito le orme paterne). Anche Michelangelo era bisaccese e frequentava il Liceo. Ci conoscevamo da molto tempo e spesso parlavamo tra di noi. Ma loro studiavano nel Filadelfia. Io, invece, ogni giorno partivo da Rivoli per andare a Palazzo Campana. C’era un filobus rosso che da Piazza Martiri della Libertà in una ventina di minuti, lungo tutto corso Francia, mi portava a Piazza Massua. Da qui prendevo un tram (francamente non ricordo il numero) e scendevo in Via Po.
Sulle pagine della “Guida per lo studente”, cercai di farmi un piano di lavoro. Cominciai col seguire le lezioni di De Bartolomeis (Pedagogia generale), di Viano (Storia della filosofia), di Giancotti (Lingua e letteratura latina)… Ascoltavo, prendevo appunti, facevo avanti e indietro. Non tutti i prof. di Magistero facevano lezioni a Palazzo Campana. Le aule non erano sufficienti. Non so quanti fossero gli studenti iscritti a Torino nel 1967: undicimila?… Dodicimila?… Tredicimila?… Sicuramente tanti. Il dato generale, che si può trovare anche in Rete, è questo: nel 1961 gli iscritti nelle Università italiane erano 250.000, nel 1968 erano 550.000. Più che raddoppiato.
Palazzo Campana era una struttura vecchia, inadeguata. Gli studenti torinesi, quelli che risiedevano in città dalla nascita, quelli iscritti a Giurisprudenza, a Lettere, a Scienze politiche, lo sapevano. Io di meno. Non ero inserito in gruppi politici, in associazioni studentesche; di pomeriggio o, al massimo, di sera, tornavo a Rivoli.
Spesso negli spostamenti da un’aula all’altra si continuavano a vedere i volti delle stesse persone, si faceva qualche domanda, si faceva amicizia. Conobbi così un gruppo di studentesse pendolari vercellesi: Maria Pia, Acheropita ed altre… Maria Pia, soprattutto, che ricordo con affetto. Con lei parlavo di più, ci scambiavamo informazioni, consumavamo qualcosa al bar, parlavamo dei tic, dei “pallini” dei professori e di ciò che stava succedendo in Università. Si prendeva un po’ cura di me. Sfogliando le pile di carta accumulate negli anni, troverei quasi certamente la lettera che accompagnava la spedizione al paese del mio libretto con su il voto registrato per l’esame di gruppo in storia della filosofia.
Negli anni seguenti, quante polemiche ho letto su questa questione degli “esami di gruppo”. Per quanto mi riguarda non ricordo di aver avuto a che fare con un gruppo di buoni a nulla o di scansafatiche. Io mi sciroppai la lettura di diversi libri di filosofia e poi preparai una relazione sul marximo di Althusser. Fu la mia unica esperienza di “gruppo di studio”. Per il resto, sostenni esami come è ancora uso fare oggi.
4. – Una mattina di fine Novembre del ’67, dopo aver preso il solito filobus e il solito tram, arrivai a Palazzo Campana e lo trovai occupato. Cercai d’informarmi, di capire. Girava la voce che volessero trasferire delle Facoltà nella tenuta della Mandria. Anche Magistero?… E dov’è ‘sta tenuta?… Boh.
Nei giorni successivi lessi il manifesto dell’occupazione e capii che non era soltanto un problema di trasferimento. Stampata tutta in maiuscolo, una scritta semicircolare indicava il bersaglio: CONTRO L’AUTORITARISMO ACCADEMICO; un’altra, sotto, quasi a completare il cerchio rivendicava: POTERE AGLI STUDENTI. Al centro delle due scritte c’era disegnato un mezzobusto statuario col volto di uno scheletro in giacca e cravatta. Sulla testa aveva un parruccone da giudice o da nobili di altri tempi, sul petto delle medaglie militari (qualcosa di simile ad una croce al merito di guerra). Dall’altra parte si vedeva il disegno di un coltellaccio o di un pugnale.
Il senso era chiaro. La scuola era violenta, autoritaria, di classe e gli studenti rivendicavano il potere di dire la loro, di intervenire nell’organizzazione dei curricoli scolastici (contenuti, modalità di trasmissione non cattedratica, ecc.). Infatti, in alto, a destra, erano indicate le proposte dei “Controcorsi” (Filosofia delle scienze – Scuola e società – Pedagogia del dissenso – Psicanalisi e repressione sociale – Il problema del Vietnam – Imperialismo e sviluppo sociale in America Latina – Lotte sociali in Europa negli anni ’60.) e dei vari “gruppi di studio” (le Facoltà scientifiche, professioni giuridiche e ruolo del giurista, metodi e contenuti delle Facoltà umanistiche, ecc.).
Da quel momento entrai in un’altra dimensione. Nella periferia di quella città stavo per studiarci. Ma qualcosa stava succedendo che mi riguardava in prima persona, qualcosa che aveva a che vedere con un’organizzazione autoritaria dello studio, delle lezioni, della vita scolastica totalmente incapace di rispondere al mio fabbisogno educativo (e non solo mio). Non era forse vero che da oltre tre anni soddisfacevo il mio bisogno di sapere andando oltre le materie scolastiche? Non era forse vero che cercavo un sapere per la mia vita, qualcosa che potesse aiutarmi a comprendere meglio me stesso? Perché altrimenti avevo comperato, in uno di quei miei viaggi a Foggia, quel libretto di Introduzione alla psicanalisi? E perché a scuola non si poteva parlare di questi contenuti?… E tutto ciò che succedeva in quelle settimane nel Vietnam non aveva davvero nulla a che fare con me?…
Quando uscì nelle edicole il numero di Quindici con allegato il manifesto dell’occupazione di Palazzo Campana, lo acquistai e lo affissi nella mia stanza.
Per le vacanze di Natale, tornai giù al paese che, per la prima volta, mi apparve così piccolo da essere poco più di un presepe. Al ritorno, per buona parte di gennaio e febbraio a Palazzo Campana furono settimane di assemblee, occupazioni, sgomberi. Ho il ricordo di una mia “presa di parola” in un’assemblea, di una manifestazione per chiedere la liberazione dei compagni arrestati. Il giorno dopo, in una foto apparsa sulla Stampa o sull’Unità (non ricordo), riconobbi il mio volto tra altri volti nelle file di un corteo. Ho quasi certamente il ritaglio conservato in qualche cartella di quegli anni. Così come ho il ritaglio di un mio intervento apparso sulla pagina torinese dell’Unità, che aveva promosso un dibattito fra i suoi lettori sulla “questione studentesca”.
Tutto questo per dire che mi sentii protagonista. Ciò che succedeva era giusto e andava fatto. Per me non aveva nessuna importanza che a scrivere “contro l’università” fosse Guido Viale piuttosto che il sottoscritto. Non mi interessava che a tenere le fila di un’assemblea fosse Bobbio, De Rossi, Rieser, Donat Cattin, Revelli o non so chi altro. Pasolini poteva anche prendersela coi “figli di papà”, ma io avevo subito sulla mia pelle quei processi che loro denunciavano. Non li avevo subiti all’Università. Ci avevo messo i piedi dentro da appena qualche mese. A studiare ci tenevo, ma non era scritto da nessuna parte che occorreva farlo per forza nei modi oppressivi che avevo conosciuto.
A Magistero eravamo, per così dire, un po’ più fortunati. Guido Quazza, il preside della Facoltà, comprendeva benissimo le nostre richieste e dimostrava una grande disponibilità e apertura. Lo stesso Francesceo De Bartolomeis proprio in quegli anni dedicava il corso monografico al “metodo della ricerca”, ma in altre Facoltà, la situazione era inaccettabile e gli studenti facevano bene a ribellarsi.
Fu in una di queste assemblee che vidi tra le mani di alcuni giovani il N. 33 (febbraio 1968) di Quaderni Piacentini. Conteneva l’articolo di Guido Viale Contro l’Università e una Cronaca dell’occupazione dell’Università di Torino. C’era anche un articolo sul Movimento studentesco d’opposizione in Germania Occidentale perché fin dall’inizio fu chiaro che il Sessantotto non era un movimento soltanto italiano. I giovani scendevano in piazza in buona parte del mondo. Comprai la rivista. Non la conoscevo e fu la prima volta. Nei mesi e negli anni successivi ne diventai un fedele acquirente e lettore. Fino alla sua chiusura definitiva, negli anni Ottanta.
Di quell’articolo condividevo l’analisi sulla funzione di “integrazione” dell’Università. Parola che nelle nostre conversazioni si colorava di significati negativi. Un “integrato” o era un figlio di padroni e padroncini o un utile idiota del sistema capitalistico. Anche la psicologia e la psicanalisi, se perseguivano l’intento di “integrare” il portatore di disagi psichici, diventavano complici del sistema. Era il caso della psicologia americana.
Contestare, dissentire, rivendicare autonomia diventò quasi la nostra identità, il nostro modo di vivere. Per i mass-media eravamo i “contestatori”. Alcune volte si correva il rischio di contestare per contestare. Ma meglio correre questo rischio, al posto di starsene zitti, umiliati e sottomessi ad autorità (scolastiche e non) che esercitavano spesso in modi più che discutibili il loro ruolo.
C’erano, però, dei punti dell’articolo di Viale che facevano a pugno con la mia esperienza. D’accordo prendersela con la “cultura libresca”, scolastica, denunciarne la separazione dai problemi della vita sociale, culturale, affettiva degli studenti; ma scrivere che i libri «sono almeno altrettanto autoritari dei docenti» mi lasciava addosso molte perplessità. L’autoritarismo che avevo sperimentato era ben altro. Un libro poteva presentare dei contenuti autoritari. Ma non lo era di per sé. Se le pagine diventavano illeggibili o davano il voltastomaco, si poteva tranquillamente buttarlo tra i rifiuti.
I dubbi aumentavano quando leggevo che «l’accumulazione dei libri ha ormai sostituito l’antico rito della raccolta dei francobolli, ma data la maggiore voluminosità dei primi e le ridotte dimensione degli appartamenti di nuova costruzione, sta letteralmente espellendo di casa tutte le nuove giovani coppie, che all’atto del matrimonio unificano i rispettivi feticci e non sanno più dove andare a dormire.» (pag. 16). Ma quali giovani coppie aveva in mente Viale?…
«Infine la commissione delle facoltà scientifiche compiva l’estremo atto liberatorio nei confronti del dio-libro: lo squartamento dei libri in lettura per distribuirne un quinterno ad ognuno dei membri.» (pag. 16). Sinceramente non riuscivo a capire cosa ci fosse di liberatorio nello squartare dei libri. Ma qui evidentemente giocavano le diverse provenienze sociali. Chi fino a 15 anni in casa non aveva posseduto che libri scolastici (il sottoscritto), si poneva il problema di allargare le proprie esperienze di lettura, oltre che di confronto e contatto con le persone; chi, invece, ne aveva già a iosa temeva di uscir fuori dall’appartamento. Non fare del libro un feticcio, un dio era preoccupazione legittima. Pensare di sostituirli prevalentemente con lavori di gruppo e contatti con gli “esperti” non mi sembrava convincente.
Su altre questioni Viale era stato onesto. Aveva suddiviso la popolazione studentesca in almeno tre strati: quelli che l’Universita “la usano” (i cooptandi nel sistema di potere), quelli che “la subiscono” (per andare ad occupare una posizione predeterminata nella gerarchia sociale) e quelli che ne sono “oppressi” (che si vedranno legittimati la loro subordinazione). Io stavo tra la seconda e la terza fascia. E, avendo preso coscienza che «all’Università entrano in molti ed escono in pochi», che «i figli dei medici faranno i medici, e i figli dei farmacisti fanno tutti i farmacisti» e che «se il padre ha un’impresa, i figli si laureano ed ereditano l’impresa», non mi restava che la partecipazione alla lotta, l’educazione sentimentale, il sogno e la fantasia, il godersi liberamente le pagine di un saggio, di un romanzo o di una raccolta di poesie.
Quanto al lavoro per campare, avrei ereditato la vigna di mio padre e avrei fatto il maestro. Viale, infatti, assicurava: «I laureati del magistero continueranno a fare i maestri». (pag. 4) Cosa che puntualmente mi accadde. Per molti anni con passione ho cercato d’istruire ed educare bambini con modalità e contenuti diversi da quelli del mio maestro e dei miei professori. Ma, grazie al Sessantotto, ho fatto molte altre cose.
5. – A sera, quando tornavo al Filadelfia, raccontavo con entusiasmo agli amici cosa stava succedendo in Università. Non pensavo che fosse in corso una “rivoluzione”, una presa del Palazzo d’Inverno, ma qualcosa di molto importante sì, qualcosa che riguardava le nostre esistenze. Mi sembrava che l’aforisma gramsciano “tutto è politica” in quei giorni prendesse corpo. Tutto è politica: la scuola, la stampa, il cinema, la televisione, lo sport, la famiglia, la fabbrica, il manicomio, la magistratura, l’esercito, la polizia, il parlamento, il governo…E dappertutto ci vorrebbe un Sessantotto, un andare “contro”(controcultura, controcorsi, ecc.) o un “anti” (anti-psichiatria, anti-pedagogia, ecc.). Forse anche in questo convitto ci vorrebbe un po’ più di movimento. Ribellarsi era giusto. Lo diceva Mao Tse-Tung. Ma anche Don Milani, il priore della scuola di Barbiana. In quelle settimane, infatti, arrivava in libreria Lettera ad una professoressa. Lessi e rilessi quelle pagine che diventeranno un po’ il manifesto del Sessantotto, della lotta alla scuola di classe. Ne suggerii la lettura a chiunque mi girava intorno e ho continuato a farlo per molti anni. Anche di recente.
Oltre al sentirsi “protagonisti”, alla voglia di “prendere la parola”, ecco un altro tratto del Sessantotto indimenticabile: il contagio, la disponibilità all’ascolto, al farsi cambiare, all’incontro fra persone che sicuramente avevano alle spalle provenienze sociali e storie diversissime.
Al Filadelfia, oltre ai compaesani, diventai amico di Pippo e di Maria Grazia. Il primo studiava da pastore evangelico, la seconda studiava al Liceo linguistico. Col primo trascorsi ore ed ore a discutere di Antico e Nuovo Testamento, di fede, di teologia della rivoluzione, di alienazione religiosa; con la seconda parlavo di Kerouac, di Beat Generation, di psicanalisi e interpretazione dei sogni.
Una volta, mi invitò a casa sua e me ne raccontò uno. Aveva sognato che un maniaco sessuale le avesse tagliato dei ciuffi di capelli. Lettore assiduo della rubrica “Il lato oscuro” (o qualcosa di simile) tenuta da Lorenza Mazzetti su Vie Nuove – una rubrica in cui interpretava i sogni dei lettori – provai a farfugliare qualcosa. Non ricordo cosa. Non fu probabilmente un suggerimento molto sgradevole se, dopo la maturità, Maria Grazia intraprese la strada della laurea in Psicologia. Forse le trasmisi la voglia di approfondire la conoscenza di se stessa.
Oltre a conversare, suonava la chitarra e cantava “Honey, Just Allow Me One More Chance” di Bob Dylan. Tesoro, dammi un’altra possibilità. Maria Grazia sapeva che ero un fresco sposo. Facemmo, allora, una bella passeggiata per le strade di Rivoli fino al Castello. Nevicava. Lei indossava un maxicappotto color granata.
«Honey per questo folle progetto Nel quale ci perdiamo sottobraccio Lungo i viottoli di un giardino Scosceso (in faccia bianchi smeraldi Che fioccano sui capelli E sulle labbra l’acre sapore Della pioggia mista a baci ritrosi.)»
Scrissi due anni dopo in un poemetto lungo una ventina di pagine e intitolato, neanche a farlo a posta, Honey. Fu l’occasione per fare il punto cognitivo e affettivo su ciò che avevo imparato. Abbastanza. Tra i versi, montati a tratti con la tecnica del cut-up e strutturati sui giorni della settimana, si coglieva un desiderio di confronto con la neo-avanguardia, col surrealismo, con alcuni libri: i primi capitoli del Capitale di Marx, Utopia e prospettiva in Gyorgy Lukács di Tito Perlini, La politica dell’esperienza e L’io diviso di Ronald D.Laing, L’uomo a una dimensione di Marcuse, ecc.
Il montaggio si concludeva con parole tratte liberamente da un articolo di Franco Fortini Contro il rumore di fondo apparso sul N. 40 (maggio 1970) di Quaderni Piacentini. Nei miei versi quelle parole assumevano un tono programmatico contro il dilagare della ridondanza, delle carte, ecc.
Chi desiderava fare la Rivoluzione non poteva limitarsi ad opporre la parola vera a quella falsa. Aveva bisogno di un altro linguaggio, di andare a scuola dai maestri dello “stile semplice”, capace di scomporre la molteplicità.
Il mio problema era proprio questo: come dare un ordine a tutti gli stimoli che ricevevo, alle tante sollecitazioni, alla miriade di conoscenze in circolazione. E come saldare il tutto con la mia esperienza. Che i contenuti studiati alle Facoltà umanistiche o a Magistero non fossero “neutrali” lo sapevo da quando avevo cominciato a cercarmi altri testi, oltre ai manuali scelti dai professori dell’Istituto Magistrale; sapevo che su questi terreni si combatteva una “battaglia di idee”, di “punti di vista”, di “interpretazioni”. La stessa cosa accadeva anche per i contenuti scientifici. Ecco, una verità che non sapevo. Col Sessantotto crollò ai miei occhi il mito positivistico della “neutralità” della scienza e, insieme ad esso, il mito del “progresso”. Se avessi letto bene Leopardi, avrei dovuto già saperlo. Ma la scuola è scuola proprio perché “filtra” le conoscenze, le “neutralizza”, le rende innocue. Ed io, in virtù di quelle occupazioni, di quei cortei, di quelle manifestazioni capii esattamente questa verità. Scuola e società era il titolo di un’opera di Dewey del 1899. Che diventasse anche il titolo di un “controcorso” proposto dagli estensori del manifesto di occupazione di Palazzo Campana, la diceva lunga su quanto la scuola fosse in ritardo, separata dalla società e lontana dalla vita degli studenti (fossero figli di papà, di poveri o stratificati in tre fasce come aveva sostenuto Guido Viale).
Il Sessantotto era questo respiro di libertà, questa voglia di riconquistarsi la vita, questa volontà di sapere, questo bisogno di dignità, di solidarietà, di fratellanza, di collettivo, di riconoscimento tra uguali, di essere presenti nel mondo dove continuavano (e continuano) ad accadere guerre, distruzioni, imprese terribili e ingiuste, sfruttamenti, oppressioni. Non so se sia soltanto il desiderio di una generazione. Mi capita di avvertirlo ancora oggi in tanti giovani. Solo che oggi un Sessantotto non c’è. Saranno forse le circostanze storiche, gli apparati ideologici e culturali, i dispositivi di dominio che non consentono di produrre il cortocircuito e dar vita a un clima meno chiuso ed egoista, individualista e narcista di quello che stiamo vivendo.
Ci accontentiamo di consolazioni.
6. – Tra un’assemblea e una manifestazione un po’ abbandonai il timone della mia barca. Tra Marcuse e i Quaderni Piacentini, tra Nuovo Impegno e Giovane critica, nella sessione estiva l’unico esame che riuscii a dare fu Pedagogia. A settembre Luigi Marino registrò sui libretti i risultati del nostro gruppo di studio sulla storia della filosofia. Avendo dato un solo esame a giugno, non avevo più diritto al pre-salario. Meglio così. Nell’anno accademico ‘68/69, se volevo tornare al Filadelfia, dovevo trovarmi un lavoro. Ma, durante l’estate, il direttore americano mi comunicò che, per sopravvenuti motivi logistici, dovevo cercarmi un’altra sistemazione. La motivazione non scritta, era politica: un sessantottino, meglio allontanarlo.
A ottobre del ’68 da Rivoli finii insieme a mio fratello a Cologno Monzese. Lui andò a lavorare alla Candy, io a fare il maestro di doposcuola col Patronato scolastico. Con sessanta mila lire al mese potevo fare lo studente lavoratore e ogni tanto prendere il treno e andare a Torino per sostenere gli esami.
Fu in questo periodo che incontrai Ennio Abate. Stava promuovendo un Gruppo Operai-Studenti nelle piccole fabbriche della città. Tra esitazioni iniziali e incertezze mi aggregai.
Il mio Sessantotto cambiava residenza e destinatari: dal “potere agli studenti” passava al “potere operaio” e alla sua centralità.
Seduto spesso sul suo Garelli – Ennio alla guida ed io dietro – cominciammo a prendere contatto con gli operai delle fabbriche (per lo più piccole) di questa fetta di metropoli. Andavamo all’entrata o all’uscita. Parlavamo con gli operai e raccoglievamo informazioni sulle condizioni di lavoro e sulla situazione dei rapporti di potere all’interno. Mettevamo giù dei volantini e successivamente li diffondavamo. Agitazione e propaganda. Operai e studenti uniti nella lotta.
Il mio Sessantotto torinese si prolungava nella periferia milanese.
L’autunno caldo degli operai era alle porte.