di Alessandra Pavani
Non finivano mai quelle scale? E quando si sarebbe concluso quell’incubo che forse non aveva mai avuto un inizio, ma che tuttavia esibiva ai suoi piedi un tappeto per meglio guidarla verso il suo abisso? Quanto più saliva, tanto più vi sprofondava, stregata soltanto da quel braccio teso che sporgeva a darle il benvenuto e che già si rigava di lacrime; e intanto queste scivolavano dolenti lungo la ringhiera, scrostandola, e attraverso il suo guanto Dimitra le sentì urlare in silenzio.
Non riconosceva nessuna delle infinite facce che le sorridevano, ma era sicura di averle già viste in passato; il tempo doveva certo averle mutate, lei stessa era cambiata; solo il profumo era lo stesso, il profumo leggero in cui sprofondava il viso per nascondersi quando, da piccola, ascoltava i racconti sui Vurdalak e sulle streghe. Quel profumo però ora le alitava in volto sempre più forte ed aspro, mentre saliva le scale, e sempre più nauseante, come di fiori appassiti e marciti; qualcosa si rovesciò dentro di lei, e il suo sguardo offuscato vide per un breve momento le pareti liquefarsi. La sua ombra tremò sul pavimento; poi si accorse di essere arrivata a destinazione.
Ecco la stanza! Ahimè, da lì proveniva quell’odore di disfacimento, dai brandelli di sogni
ammucchiati sotto al letto, da quello specchio a mezzaluna in cui Dimitra si vide impallidire; in piedi accanto alla finestra, una giovane donna scrutava paziente i disegni che aveva lasciato nell’acqua la cera colata da una sottile candela, e ben presto un ambiguo sorriso le incurvò le labbra.
“E’ così bello, Dimitra, così bello che a volte mi dà fastidio, fa perfino male. Sono innocente, sai, ma quando lo guardo sanguino di piacere; ne ho già le pupille sfregiate.”
Dimitra la baciò sulla bocca e tentò di sorridere, ma nello specchio che la rifletteva si vide
invece trasalire e farsi inconsapevolmente il segno della croce; dalla finestra filtrava il tramonto, e in lontananza un canto fanciullesco inneggiava alla primavera.
“Dobbiamo solo aspettare che passi la quaresima, Dimitra, poi finalmente lo sposerò. Sono
sopraffatta dalla felicità, eppure a volte piango. E’ come se ci fosse qualcosa che non riesco a ricordare. Ma non sarà nulla. Ah, cugina mia, sono tanto contenta che tu sia qui; ti ho tanto aspettata, e se non potrai guarirmi dalle mie angosce almeno soffrirai con me.”
Povera Darja! Sempre così malata e tormentata, sempre così schiava di fantasie in cui poteva essere fatale addentrarsi! A poche settimane dal matrimonio le menti delle vergini sono sempre in fiamme, ma non tutte le menti sanno uscire illese dall’incendio che le divora.
Nella stanza c’erano altre persone, immobili e silenziose, ma minacciose nei loro sguardi
accigliati, simili a maschere di divinità offese, che scrutavano Dimitra come se fosse un’intrusa.
“Sono entrata perché è lei che mi ha chiamata.”
Ma Dimitra sapeva che non era in suo potere guarirla: già quell’odore di desolata follia le si era attaccato alle vesti, e anche le perle che recava in dono non erano che occhi divelti, occhi sbarrati che nessuna palpebra avrebbe più protetto in un sonno tranquillo.
* * *
Fragili ma immortali crepitano sotto le dita le pagine degli almanacchi, dietro lenti levigate o attraverso il velo dell’ingenuità gli occhi dei saggi e della gente semplice scrutano il cielo notturno, però a cosa serve affidarsi agli astri quando gli astri si ribellano? Come ci tradisce lo sguardo astuto di due ardenti occhi neri, anche il cielo ci può tradire, e sulla casa di Darja da ormai tre mesi non sorgeva più il plenilunio né le tenebre avviluppavano mai interamente la luna: essa permaneva immobile a forma di falce notte dopo notte, da quando a Darja era apparsa la sagoma di un uomo sul tetto e alle sue spalle aveva visto l’esangue pianeta spezzarsi nel più assoluto silenzio. Da allora ogni sera al crepuscolo la mutila Selene, stagliandosi a fatica contro il livido cielo, saliva ad occupare l’angolo in alto a sinistra della finestra di Darja, e da lì ne contemplava i sogni, se solo Darja riusciva a dormire. Perché è difficile dormire quando nel dedalo del cranio i pensieri si rincorrono l’un l’altro con le loro innumerevoli zampe, e lo è ancor di più se, nutrito dal veleno del
tempo, il loro brulicante andirivieni raddoppia ad ogni rintocco del pendolo: l’alba non è che un ospite in ritardo che pure arriva troppo presto, e nella nebbia della stanza gli occhi rimangono fissi e spalancati a contare i secondi. Quante lettere mai spedite, nel cassetto chiuso a chiave, mormorano allora invano le loro preghiere! Ma quanto più straziante è il muto grido delle lettere mai scritte!
Non in un cassetto si dibatte il loro furore, ma contro le fragili pareti dell’anima, e l’inchiostro mai sgorgato ristagna nelle vene e infine si raggruma fino a lacerarle. Tutto si confonde in illeggibile delirio e i segreti inconfessati diventano oscuri per chi ha preferito serbarli; così, chi per vergogna o per paura ha taciuto, per sempre è costretto a tacere. Cosa avrà dunque dovuto provare chi ha visto sul proprio guanciale arabeschi dorati mutarsi in vertigini? Riversa sul letto Darja rimirava la sua innocenza, e intanto lo specchio a mezzaluna che fu il primo dono dello sposo si scioglieva e le gocciolava addosso in stille di cristallo, quel cristallo il cui suono conduce alla pazzia; non è così che le fanciulle russe vivono i giorni che precedono i loro matrimoni. Ma non solo Darja vegliava; nessuno dormiva in quelle notti: nel suo turbamento Dimitra vagava per una galleria di strane
visioni, pensando a quello sposo mai visto, e quando il silenzio si faceva più stridulo immaginava che lui pure non dormisse, e che un beffardo Vij, suonando il violino come un vero lautar, ne scandisse gli amplessi, e battendo col piede desse il ritmo ai suoi colpi di reni, sempre incitandolo alla profanazione. Dalibor, Dalibor, non hai dunque pietà?
* * *
Sventurata Dimitra dal cuore in trappola! Chi può salvarla, inghiottita com’è da quel mostro senza occhi che è la casa di chi muore d’amore? Ella si è ormai smarrita dentro di sé, e ancora non vede la fine del suo vagabondare, non sa ancora che le vergini sono oscure voragini. Nella penombra le cose diventano irreali, e falene indemoniate sfuggono alle insidie, mentre il loro ebbro volo lascia dietro di sé una scia malsana che contamina l’aria; così striscia fuori talvolta un sibilo sinuoso da quella porta che è bocca ed è morte e penetra nelle orecchie per moltiplicarsi all’infinito.
Nella casa di Darja, dalle cantine e dalle cucine, e poi su per le scale fino al solaio, fluttuando per l’ala a ponente e per l’ala a levante senza mai prendere fiato, strane voci spargevano zolfo; negli sguardi e nei sogghigni era scritto che lui aveva fatto qualcosa che non doveva essere fatto. Dietro le porte qualcuno rideva, le vecchie comari scuotevano il capo e si segnavano davanti all’icona, mentre i giovani garzoni si sfregavano le mani; c’era chi parlava di un delitto commesso e chi raccontava di un mugik bramoso di vendetta.
In cotanto vetriolo Darja e Dimitra facevano il bagno ogni giorno prima di indossare le loro
confortevoli catene, e poi docilmente ingannavano il tempo ancora concesso alla loro torpida cecità con un libro o con un ricamo, sempre nell’attesa snervante di qualcosa che esse stesse ignoravano, sempre percosse le loro menti da ipnotiche note di qualche fata Confetto. Indifesa nel suo pallore, Darja taceva; eppure vi erano dei momenti in cui il suo labbro tremava come se il desiderio di confessarsi, sgorgandole dalla gola, le schiudesse a forza i denti; e quando, seduta alla spinetta, cantava le canzoni che cantano le fanciulle russe innamorate, lo strumento partoriva uno dopo l’altro conturbanti incubi in musica, senza curarsi del loro pianto. La njanja rideva, minacciandola col dito, e diceva che era giusto e lodevole che una fanciulla avesse paura del suo sposo; allora Darja chinava il capo, sgomenta, ma sorrideva, e, mentre Dimitra rabbrividiva, ella giungeva le mani e mormorava: ”Abbia in eterno la mia benedizione chi mi destina ad uno sposo così bello.”
* * *
Dalibor, Dalibor, Dalibor… Solo quel nome. Nient’altro. Inutile il furto compiuto in nome
dell’amicizia! Tra le mani di Dimitra, quelle pagine d’album sottratte con l’inganno non erano altro che monotona ossessione. Eppure il suo occhio affettuoso vi aveva intravisto qualcosa di più inquietante: una stanza senza finestre, dal cui soffitto pendevano infiniti ricordi come pesanti lampadari, e seduta per terra, con la bocca serrata da un fazzoletto di pudore, un’inerme Darja che si strappava i nervi ad uno ad uno. Come da una sponda all’altra di un biliardo, rotolavano urlando attraverso le pagine piccole sfere di veleno misto a sangue, e tracciavano indelebili geroglifici in mezzo alle parole, in un labirinto che non aveva via d’uscita; e più procedeva nella lettura di quel nome ripetuto fino allo sfinimento, più Dimitra si sentiva sovrastare da quelle opache stalattiti di memorie che avevano gravato sulla mano di chi quel nome l’aveva scritto. Si posavano sui suoi capelli come un velo nuziale, che minuto dopo minuto si faceva sempre più pesante, e mentre la carrozza procedeva, riportandola alla casa di Darja dopo una solitaria passeggiata nei campi, l’aria si impregnava del soffocante profumo dei fiori che ogni giorno Dalibor le faceva pervenire, puntuale come un boia, quei fiori che sbocciavano solo alla notte e che assomigliavano tanto allo jatrysc’nik. Koshei era un gigante immortale, Baba Yaga era la nonna del diavolo, e un bambino nato morto si era trasformato in un fuoco fatuo per volteggiare eternamente tra paradiso e inferno; ma nessuno aveva mai visto la luna spezzarsi, nemmeno in un sogno malato. Dimitra chiuse il diario rubato: a spingerla al furto era stato soltanto il desiderio di leggere nell’anima di Darja per poterla liberare, ma dopo averne scrutato il delirio si sentiva essa stessa così debole che una ragnatela sarebbe bastata a strangolarla. Tornò dalla cugina che era quasi l’ora del tramonto, e quando salì le scale per raggiungerla qualcosa frustò la sua vista: sui gradini giaceva quello che
sembrava un animale morto; ma allorché due mani indifferenti raccolsero da terra quella massa informe ed inerte che subito parve decomporsi, fu con immenso raccapriccio che Dimitra vi riconobbe, violata e recisa, la chioma di Darja.
* * *
“Io sono condannata a una gioia senza fine: il mio cammino è già tracciato, e quello devo
seguire. Dimitra, cugina mia diletta, possa anche tu un giorno vedere privo di porte il corridoio che ti si apre davanti! Gioirai allora anche tu come io gioisco adesso, capirai che non si può sfuggire alla felicità, e che se essa ti si aggrappa alle viscere non puoi sbarazzartene senza versare il tuo siero; è come quando cerchi di toglierti una spina dal dito. No, Dimitra, non chiamare la njanja, non voglio che sappia quello che è successo. Giurami che non dirai mai a nessuno quello che hai visto!
Lo amo, lo amo, ma mi fa paura; potrò sopravvivere a lungo davanti a tanta bellezza? Domani sera lo vedrai al ballo, e tutto allora ti sarà chiaro… Ho udito una volta il mio padrino raccontare ad una signora che tempo fa, partecipando ad una seduta spiritica, Dalibor ha improvvisamente mostrato il bianco degli occhi ed è scoppiato a ridere. Non è forse la falce di cristallo che fu il suo primo dono una bocca che sogghigna? E’ come la luna, come la luna… Sto bene, Dimitra, riportali indietro, non servono più. Ma tu mi devi ascoltare, non potrei mai perdonarmelo se non ti svelassi ogni cosa; se anche ti farò piangere, almeno verseremo le nostre lacrime nello stesso mare. Le lacrime che scendono sul cuscino vi scavano un baratro sempre più profondo, e i sogni notturni vi restano imprigionati come topi; quando l’anima scivola tra le lenzuola e cola sul tappeto, l’aria s’imbeve di oblio, ma un incubo imprigionato si annoda attorno al tuo collo come un cappio. E’ come quando i brutti pensieri si impigliano tra i capelli: bisogna tagliare allora, non si può fare altro… Non guardarmi così, non fingere di non capire. Non sei donna, tu? Non li senti, la notte, i lupi in lontananza? Tu sai perché mi tormento, l’odi anche tu il lupo che si ode solo all’alba e che sembra un uomo che urla; e non serve a nulla tapparsi le orecchie, è il prezzo che tutte dobbiamo pagare, anche se a volte, quando il buio mi pesa addosso, vorrei non averlo mai conosciuto. Ripenso sempre a quella notte in cui mi è apparso per la prima volta: avevo indossato il mio abito più bello, come per andare a una festa, e poi ero corsa fuori in giardino; mi era sembrato di udire una voce che mi chiamava. E ad un tratto passò lui, e qualcuno mi disse che sarebbe stato il mio sposo. E’ stato allora che è accaduto quello che ben sai; la njanja non faceva altro che spiarmi, ma io ero così felice che la perdonavo sempre. In fondo non è stata colpa sua; credevo di sapere, ma non ricordo nulla.
Ed ora è arrivato il momento: ancora qualche giorno e si farà il matrimonio. A te, cugina adorata, a te che amo come una sorella, auguro un futuro come il mio, e voglia il Cielo che tu non giunga mai a maledirmi per questo mio voto.”
* * *
Può, accanto ad un cero che arde, consumarsi anche la candela che non è ancora stata accesa?
La fiamma è una lingua spietata che non risparmia nessuno quando è in preda al delirio, e i fragili scudi che armano le giovani fanciulle non bastano a fermarne le spinte; così quella sera, aggirandosi inquieta tra gli invitati, era con grande fatica che Dimitra tentava di celare agli occhi dei curiosi il marchio della sua caduta. Le austere matrone lodavano il suo portamento, degno di una piccola zarina, e i giovani galanti le tessevano addosso un lieve velo di sguardi, ma lei, con colpevole angoscia, seguiva soltanto il profumo d’argento che quello sposo mai visto lasciava sempre dietro di sé. La mattina, al risveglio, Dimitra lo aveva sentito quel profumo, sparso sul suo letto, e quando si era specchiata nell’acqua della catinella aveva avuto la conferma; ed ora, al ballo, con ansia e terrore avanzava ineluttabilmente verso il mistero di cui ancora non conosceva la forma, ma che per
tutta la notte aveva cavalcato in silenzio il suo sonno voluttuoso.
“Eccolo, Dimitra, eccolo!”, e come chi, sull’orlo di un burrone, abbassa incautamente lo sguardo, Dimitra indietreggiò, atterrita da tanta bellezza. Vide ogni giovane donna rivolgere a lui il sorriso che si rivolge al padre dei propri figli, e lei stessa si sentì sorridere nel medesimo modo; poi, come posseduta, lasciò cadere lo scialle che le copriva il petto, e alla luce dei candelieri apparve inciso sulla sua carne, dalla parte del cuore, un vivido morso a forma di falce. Si aprirono allora le danze, e subito Darja fu presa nel turbine. Non da Dalibor, però; ironico e immobile accanto agli schiavi dei tavoli verdi, il giovane sposo dai lunghi capelli neri sembrava aspettare un momento più propizio per agire, e intanto con mano guantata reggeva e manovrava i fili che facevano muovere i ballerini, guidandoli in un preciso rituale di cui forse qualcuno doveva leggere i segni; quando poi, al giro successivo, entrò nella danza, non ebbe alcun dubbio sulla scelta della preda, e Dimitra, stretta fra le sue braccia, sentì un gran dolore, come se nelle più oscure profondità del suo corpo qualcosa si fosse lacerato. Sotto di lei sprofondò il pavimento e la testa le cadde all’indietro, così che la musica le piovve sul viso appannandole la vista, e dalla voragine aperta salì e si avvinghiò alle sue gambe uno strano calore; come tirate da funi fissate ai polsi, le braccia le si spalancarono a contenere l’incanto che la travolgeva senza pietà, e mentre qualcosa le pungeva le dita sentì confusamente che, in quel cerchio senza tempo, al suo cavaliere succedevano altri infiniti cavalieri, oscure figure di cui non riusciva a scorgere i lineamenti, e che l’inquietante e mutevole sorriso che dalle finestre approvava silente la cerimonia non era altro che una luna spezzata. Ma il cielo era già ritornato alla sua innocenza quando la musica si spense e la danza cessò, e anche Dimitra si ritrovò
nuovamente con la bocca premuta sul petto di Dalibor: gli era stata restituita dopo aver ballato con tutti gli altri cavalieri o in realtà aveva danzato solo con lui? Non erano passati che pochi minuti, ma in quei pochi minuti qualcosa di immane era successo alle vergini. Quando Dimitra, ormai libera, andò con la cugina a sedersi su un divano, rivide il proprio dramma come una sopravvissuta: davanti a loro si svolgeva, sotto le apparenze di un innocuo valzer, un gioco crudele a cui esse stesse avevano appena preso parte, e dall’altro lato del salone, rannicchiato in un angolo, il loro candore le guardava ormai come da un’incolmabile distanza, con lo sguardo pieno di lacrime e di rimpianto. Stretto in una mano di Dimitra, continuava a farle sanguinare le dita un biglietto, sfidando la sua curiosità, e fu col cuore pesante di rimorso che si risolse a leggere il segreto di cui
era stata eletta depositaria:
Kvas e vodka mesci nel suo bicchiere
Inebria spietato la volpe del palazzo
Slanciandole dietro i tuoi 39 cani
Hai giocato il tuo destino.
Eleggeremo allora la regina
Nella casa del cosacco disertore
E a lei faremo dono del polveroso scranno
Venerabile come un trono
Sollevando lo sguardo da quella condanna cifrata, Dimitra incrociò la figura dello sposo, che, seduto ora ad un tavolo da gioco, scopriva le carte agli astanti, e la sua voce fu come uno schioccar di scudiscio quando disse: “Non ve ne siete mai accorti? La donna di fiori ha riflessa negli occhi l’immagine di due serpenti che si accoppiano.”
Detto ciò Dalibor rise, voltandosi verso Dimitra, e, mentre tutti interrogavano invano la carta, Darja venne portata fuori in preda alle convulsioni.
* * *
“E’ dietro le tende, è sotto le scale; ci spia dalle finestre e si insinua nei letti, e nelle notti
silenziose lo si ode sospirare di desiderio; fuggire non serve, il pianto non lo commuove, le astuzie non lo ingannano: nulla è più inesorabile. E cosa dirà quando arriverà il momento, e possiederà ciò che, senza volerlo, gli abbiamo già dato versando tanto sangue? Non lo senti ridere di voluttà? Ma come può non essere contro natura una tale delizia? Il nostro sposo non ci risparmierà, cugina mia; sull’inquieto sonno che ci abbassa le palpebre sta per abbattersi una gioia indicibile. Mi perdonerai?
Se solo avessi previsto che non saresti stata meno debole di me… Ma fui io a benedirti, Dimitra, avrei dovuto saperlo: quei fiori, e gli specchi… Bisognava coprire, coprire tutto, e così rimanere integre per sempre. Ebbene, pazienza: ormai sei entrata anche tu, e qui devi restare; o credi forse che, andandotene, potresti ancora svegliarti? Dammi la mano, Dimitra, non so perché ma sento un gran freddo, come se avessi un’urna cineraria al posto del cuore… Quanto è vicino al dolore il piacere, puoi ancora negarlo? Dormi con me questa notte, ti prego: esaltate o dannate, il nostro destino è comunque lo stesso, e in fondo è solo per un errore che non siamo sorelle.” E Darja e Dimitra, affidando il loro riposo allo stesso guanciale, si addormentarono abbracciate come due bambine, per risvegliarsi soltanto quando il mattino delle nozze era ormai sorto. Tutto era luce quando Dimitra aprì gli occhi: dalla finestra irrompevano con forza fiumane di sole, inondando la stanza di uno splendore violento, spietato. Tutto era bianco, eppure qualcosa di nero, attraverso il velo del sonno appena dissolto, la ferì e la fece trasalire come un ago nel cervello; anche Darja, seduta al suo fianco, ritta e atterrita, fissava in silenzio quell’ombra apparsa sulla parete di fronte:
aveva la forma di un orrido insetto, un animale liquido schizzato sul muro. Nel corridoio la njanja cantava:
“Chi è, chi è, volete sapere,
Amiche mie, volete sapere
Chi è l’amato mio bene?
Danzate per lui, che è il mio bene.
Amiche mie,
Saper volete chi è il mio bene?
Fino al mattino lo amerò,
E a mezzogiorno lo vedrò
Addormentato lo vedrò
Come un bambino, e lo amerò.
Amiche mie,
A mezzogiorno lo amerò.
Scenderò nel mio giardino
E intreccerò per lui i miei fiori.
Danzate per lui nel mio giardino,
Danzate per lui e intrecciate fiori.
Amiche mie,
Lo amerò fino al mattino.”
Quando entrò, schernì le fanciulle per il loro pallore: al pensiero del talamo non si addiceva
forse di più il rossore? O era quella figura sul muro a far loro paura? Che in fondo non era che una macchia di salnitro. La sposa chinò la testa. Certo, non era che una macchia di salnitro; eppure davanti a quel piccolo nero perfino la luce del sole parve offuscarsi.
* * *
Un delitto commesso, un mugik bramoso di vendetta, un uomo sul tetto, e la luna che si spezza… Lentamente, con in mano una candela accesa, avanzava accanto allo sposo nel frusciante crepitio delle sue ali putrefatte, e quando posò il piede sul tappetino sentì che sotto v’era il vuoto; al suo fianco lo sposo esibiva un sorriso da baro, ed era bellissimo come quegli zingari che venivano dal Sud e che tante volte, da piccola, lei aveva visto danzare al suono delle kobze e dei violini dentro cerchi di fuoco. Così il pope li legò. Davanti alla casa la carrozza era già pronta per il viaggio, e le ragazze del vicinato cantavano le loro benedizioni; c’erano tuttavia alcune parole che esse non riuscivano a pronunciare, e che uscivano misteriosamente storpiate dalle loro labbra. Il giorno prima era successo qualcosa di molto strano: numerosi lupi si erano avvicinati alle case, e in una fattoria vicina una giumenta aveva partorito una mostruosa creatura. Dal villaggio avevano fatto arrivare una vecchia strega, perché pronunciasse le sue formule magiche accanto all’orribile puledro; la donna si era però rifiutata di toccarlo, e ai padroni aveva raccomandato solamente di non lasciarlo avvicinare alla madre, di nutrirlo con kaimàk e, il giorno seguente, di farne dono agli sposi.
E quella mattina tutti continuavano a farsi il segno della croce, e, quando gli sposi ritornarono dalla cerimonia, tra fiori e monete qualche superstizioso gettò anche piccoli amuleti. Il volto della sposa era trasfigurato, e v’era un’ombra nei suoi occhi, un’ombra a forma di falce che oscurava parzialmente le sue iridi luminose, così che, volgendo lo sguardo verso lo sposo, ella non vedeva che una nera foschia. Solo poche ore prima, circondata da alcune compagne e da un’emozionatissima njanja, si era guardata in quello specchio che lui le aveva donato e vi si era finalmente riconosciuta; fu però pagato il prezzo quando, facendo il suo ingresso nel salone dove era servito il banchetto, si accorse di non riconoscere nessuno dei convitati. Eppure non era il suo volto a mostrare i segni dello stupore; erano gli altri a stupirsi, a spaventarsi, e di nuovo in preda al panico e alla superstizione ripresero a segnarsi e a fare gli scongiuri, anche se dalle loro bocche non
uscì una sola parola che avesse senso. Ad un tratto entrò nel salone un corpulento mugik, le corna lucide, le orecchie e la coda puntute e il piede biforcuto, con in mano una grossa falce. Tutti urlarono d’orrore; tutti, tranne Dalibor e la sua sposa, che ben sapevano cosa fare. Lei si levò una scarpetta, vi versò dentro del vino e la porse al nuovo arrivato, che bevve avidamente prima di avvicinarsi a Dalibor. L’uno di fronte all’altro, i due si fissarono per qualche secondo, il mugik livido di rabbia, lo sposo sorridendo con serena consapevolezza.
“Ti stavo aspettando”, gli disse infine. “Quello che devi fare fallo subito”, e un istante dopo la testa di Dalibor cadde pesantemente sotto il colpo della falce sul pavimento. Da un angolo avanzarono allora i padroni della giumenta, la donna con un’orrenda creatura in fasce tra le braccia.
“E’ per te”, disse porgendolo alla sposa. “Sei tu ora che te ne devi occupare”.
La giovane annuì e accolse sorridendo quel dono, poi posò lo sguardo sulla macchia di sangue ai suoi piedi; questa si stava allargando, come a formare una scritta, una parola… Il terrore si impadronì allora della sposa: davanti a quelle lettere tentò invano di urlare, poi si inginocchiò e strisciò lentamente verso la testa mozzata per sfiorarne i lunghi capelli neri. Fu un attimo: quelle chiome presero vita e le si annodarono con forza al polso; ella trasalì, come colpita da un fulmine, poi, dopo essersi rigirata tra le lenzuola, riprese a dormire.
…ancora un altro racconto magistrale di Alessandra Pavani, di un femminismo antropologico e archeologico. Riesce a spingersi sino nelle pieghe più profonde di animi femminili nel loro “sogno d’amore” trasformato in delirio, incubo, follia…Sullo sfondo di fiabe e leggende russe di streghe, demoni, fuochi fatui, le vicende di due amiche dai destini incrociati, legate da una sorta di solidarietà femminile superiore…La ricostruzione ambientale della Russia pre-rivoluzione attraverso le abitudini di vita dei ceti agiati, tra balli, cembali e preziosi ricami…con il finale annunciato da tanti infausti presagi: “il corpulento mugik”, dalle sembianze diaboliche, che sopraggiunge nel mezzo del banchetto nuziale e decapita con la falce il bellissimo e sinistro sposo, affascinante baro…Un simbolismo velato, tutto da decifrare. Oscuri sogni infranti e il sonno della ragione
La ringrazio molto, le Sue parole mi riempiono sempre di orgoglio, e questa volta in maniera particolare, dato che “Lo sposo sinistro” è il mio primo racconto (l’ho scritto tredici anni fa). Fino a quel momento mi ero dedicata esclusivamente alla scrittura di romanzi che non riuscivo mai a portare a termine, e che non brillavano certo di originalità. Con questo racconto ho cominciato invece un nuovo viaggio nei meandri dell’inconscio, sviluppando uno stile che puntasse soprattutto ad evocare atmosfere più che a raccontare storie. Ho cercato di gettare uno sguardo femminile (più che femminista, dato che non mi sento tale) su quelle che sono le paure più ancestrali ed irrazionali, in questo caso la paura primordiale che la “femmina” ha del “maschio”. Il Suo commento mi ha persuasa di essere riuscita nell’intento (essendo il mio primo racconto di questo tipo avevo paura di aver un po’ esagerato nell’uso dei simboli, e che potesse risultare forzato), e La ringrazio nuovamente, poiché ho acquistato una maggiore fiducia nelle mie capacità. La saluto cordialmente.