di Federico Bock
Le note che seguono sono l’estratto di un più ampio studio, da me come cittadino recentemente condotto, e che ho fatto pervenire ad Ennio, il quale s’è detto disposto a recepirlo su Poliscritture, in formato, appunto, ridotto.
Eccole.
Non è malata la società, o perlomeno non più di tanto o più di sempre.
E’ malata la politica.
Allora – ci si chiede – è lecito essere insoddisfatti dell’attuale sistema dei partiti?
Che pure rappresenta il cardine della democrazia, come vuole l’art. 49 della Carta costituzionale? (“Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”).
E’ lecito ricordare che dalla Costituente in avanti codesto “metodo democratico” ha sempre avuto una valenza esterna, vòlta cioè ad assicurare la democrazia nel fine del partito (cfr. art XII Disposizioni Transitorie, col divieto di ricostituzione “sotto qualsiasi forma” del disciolto partito fascista), ma mai normato all’interno della compagine partitica, che rimane una associazione non riconosciuta, a differenza – ad esempio – di Francia e Germania?
E’ lecito scorgere la politica come organizzazione della società, di tal che essa serva a (cercare di) perseguire il bene della collettività, a (cercare di) perseguire il bene del singolo come bene del gruppo nel quale il singolo sia inserito (Dewey, filosofo pragmatista americano)?
E’ lecito pretendere, come cittadini, che la politica non sia una arena da retori, ma una “industria” che debba sfornare prodotti accettabili?
Leggo sul 24 Ore di oggi una corrispondenza di Adriana Cerretelli, che definisce l’Europa (essere oggidì euroscettici, come si suol dire, è un po’ sparare sulla Croce Rossa) come una Spa, una società per azioni, e ha perfettamente ragione, per chi conosca il Trattato, che è una congerie di norme basata sulla concorrenza, con fini e mezzi non certo di liberismo puro.
Nel dialogo platonico “Alcibiade”, Socrate fa maieuticamente mutare l’iniziale approccio doxastico, od opinativo, al giovane ricco e ambizioso che vuol fare politica e dominare gli ateniesi, di tale che questi alla fine conclude: “Comincerò da questo momento a cercar con tutto me stesso a studiare la giustizia”.
Ma Socrate è scettico: “…questa forza enorme di cose politiche. Oh, finiranno certo per avere ragione di me e di te”. Infatti Socrate ne venne travolto. Sembra l’”utopia” di Tommaso Moro, morto decapitato da Enrico VIII, dopo aver messo a sua volta al rogo svariati personaggi.
La politica – “questa forza enorme di cose politiche” – è una cosa seria, e pericolosa, tanto più quando malata.
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Se i Fondi strutturali di investimento europei (S.I.E.), che distribuiscono finanziamenti, non hanno funzionato, o addirittura hanno funzionato delinquenzialmente, e se il tetto di spesa del Programma nazionale della ricerca (PNR) resta lontano dall’obiettivo europeo (1,53% contro il 3%), la colpa non è dell’art. 174 del Trattato UE, ma dell’”industria” politica che non si è dotata di personale qualificato che conosca, applichi, sappia applicare, faccia applicare le provvidenze approntate nell’interesse generale.
Era solo un esempio europeo, ed è pure legittimo – sia chiaro – chiedersi quale Europa?Scuo
Ma è un fatto indiscutibile che delle inefficienze della politica siano piene le cronache.
In politica il mero consenso, dal consensus gentium al senso comune, serve relativamente poco.
Il massimo esponente della scuola di Francoforte (con Adorno, Marcuse, Horkheimer), cioè Habermas, grande amico di Papa Benedetto XVI, ha studiato la formazione dell’opinione pubblica fin dai primordi della industrializzazione inglese, venendo a delineare una sua transustanziazione istituzionale nell’ente ultimo di organizzazione della società, che è lo “stato”.
I partiti servono appunto a questo, a raccogliere l’opinione pubblica e a farla diventare “stato” (cfr. citato articolo 49 della nostra Costituzione).
Ecco perché sono fondamentali e vanno regolati anche, e soprattutto, al loro interno.
In Germania ci sono voluti sette anni di studio di una apposita commissione, e sono oggetto di regolamentazione non solo i partiti ma anche i gruppi parlamentari.
In Francia (come in USA), c’è addirittura una commissione indipendente dai tre poteri (legislativo, esecutivo, giudiziario) che ne controlla il finanziamento.
In Italia nulla di tutto questo.
Con l’apparizione dell’”antipartito” ci si è limitati a fare della semiotica, e il legislatore – vedi legge di abolizione del finanziamento pubblico – ha pensato bene di parlare sia di “partiti” che di “movimenti”.
Nell’ultima legislatura ci sono stati qualcosa come cinquecento casi di trasformismo, cioè trasmigrazione di parlamentari da un gruppo all’altro, e timidi tentativi di partenogenesi per mutare le regole dei gruppi (i regolamenti parlamentari non sono leggi, ma, appunto, “regolamenti” interni demandati alla sovranità del parlamento).
E’ inutile chiedersi se venga prima la politica o l’economia, o se addirittura questa diarchia sia oggidì superata.
Il discorso è di metodo e, prima o seconda o terza, la ”politica” è essenziale per la società e va regolata, e vanno regolati i partiti, con “metodo democratico”.
Come?
Una legge che ponga norme basiche uniformi di organizzazione non verticistica, designazione dalla base delle candidature, normazione anche dei gruppi parlamentari, primarie aperte e gratuite per (cercare di) attenuare o superare il fenomeno generalizzato della continua diminuzione degli iscritti, un controllo indipendente sui finanziamenti, con divieto di quelli esteri. Insomma un mélange fra il sistema tedesco e quello transalpino. Senza disturbare la Costituzione, e senza toccare la libertà del mandato parlamentare (art. 67 della Carta).
E’ importante iniziare a parlarne, dopo decenni di agnosticismo al riguardo.
Il percorso non sarebbe neppure soverchiamente difficoltoso.
Le strade sono due: (a) o un revirement dei rappresentanti, cioè degli stessi parlamentari, ipotesi per vero ardua, giacché le partenogenesi sono rari fenomeni religiosi o biologici; (b) o un intervento istituzionale del Presidente della Repubblica, il quale (art. 87 primo comma) è il Capo dello Stato e rappresenta l’unità nazionale, e (secondo comma) può inviare messaggi alle Camere.
Cosa vieta ad un siffatto Capo di Stato di inviare un motivato messaggio al Parlamento, con allegato – sì, “allegato”, precisamente – un suo “progetto di legge sui partiti politici”?
Nulla lo vieta, anzi sarebbe doveroso e dirompente, ineccepibile sul piano costituzionale non meno che formale, atteso il poderoso staff a disposizione del Quirinale, e darebbe anzi adito ad un piacevole gossip giuridico-istituzionale, a beneficio dell’intera collettività.
E quasi certamente, attesa la prestigiosa fonte, apprezzata e conosciuta in Italia non meno che all’estero, il segnale verrebbe raccolto dalla più intelligente compagine partitica, che inizierebbe il percorso per farla tradurre in legge, acquisendosene i meriti.
Nulla di utopico, nulla di men che corretto, nulla di men che realistico, nulla di men che praticabile.
E’ solo questione di volontà politica.
Milano, 21 marzo 2018
Poche idee ma confuse. L’articolo di Federico Bock, di chiara ispirazione di destra, di quella vera (non quella presunta di Di Maio o Salvini), quella conservatrice statalistica, sposta il peso della “democrazia” dalla libertà dei cittadini all’organizzazione costituzionalizzata dei partiti e della partitocrazia. Dal 1946 ad oggi sono state presentate in Parlamento diverse proposte di legge per «l’attuazione» dell’art. 49 della Costituzione, sia dalla destra missina sia dalla sinistra Pci e poi erede del Pci, ma per fortuna nessuna è andata in porto. Stranamente tutte simili, tutte tese a rafforzare il ruolo dei partiti e a ridurre quello dei cittadini liberi che non vogliono sottoporsi al giogo (e gioco) dei partiti e della partitocrazia. Che dire poi del ruolo da “Duce” attribuito al Capo dello Stato? È vero che questa figura istituzionale e costituzionale si è evoluta nel tempo e da “notaio” e garante delle regole ha assunto via via il ruolo di “motore”, soprattutto con l’azione sciagurata di Giorgio Napolitano, della vita governativa e parlamentare, ma ora Federico Bock propone di affidargli addirittura, nella forma di “messaggio alle Camere”, il compito di proporre un compiuto disegno di legge. Di solito ciò avviene nei Paesi dove il Capo dello Stato è elettivo e dove è anche il capo del potere esecutivo. Nei Paesi cosiddetti a costituzione parlamentare ciò rappresenterebbe una grave ferita alle corrette dinamiche costituzionali. Piuttosto, perché non rafforzare gli istituti di democrazia diretta (referendum abrogativi allargati a materie ora sottrarre al voto popolare, referendum propositivi ora inesistenti, rafforzamento dell’iter legislativo delle proposte di legge popolari, con l’obbligo del Parlamento di discuterle e votarle entro un ragionevole periodo (entro sei mesi, direi)?
Sul ruolo nefasto dei partiti esiste una letteratura critica che, lasciando perdere quella classica e moderna di quasi due millenni e citando solo quella contemporanea italiana, inizia dai primi anni dopo l’unità d’Italia e percorre tutti i momenti del dibattito politico da allora a oggi.
Una delle ultime proposte di legge per l’attuazione dell’art. 49 Costituzione è quella di Finocchiaro e Zanda, del Pd, sulla quale scrissi allora il seguente articolo pubblicato su un quotidiano online:
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FINOCCHIARO-ZANDA: UNA PROPOSTA DI LEGGE FASCISTA
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di Luciano Aguzzi
Sulla proposta di legge n. 260 d’iniziativa dei senatori Finocchiaro, Zanda, Latorre, Casson e Pegorer, presentata in Senato il 22 marzo 2013, in sintesi il commento è questo: Si tratta di un’ennesima legge fascista del tipo che i parlamentari italiani, spinti da una specie di riflesso condizionato derivante dalla loro cultura, continuano a proporre e a produrre.
Il riflesso condizionato è poi maggiore quando si tratta della sinistra statalista, ex Pci ma anche ex Dc, che storicamente è l’erede del regime fascista.
Già negli anni Cinquanta Gaetano Salvemini affermava che l’Italia di allora era il fascismo senza Mussolini.
Infatti, caduto il fascismo ed eliminata la paccottiglia retorica e coreografica delle scenografie da impero romano, i partiti al governo e all’opposizione hanno mantenuto quasi totalmente la legislazione fascista (che ancora oggi, a 68 anni dal 25 aprile 1945, costituisce una parte consistente e determinante della legislazione in vigore), hanno riciclato migliaia di dirigenti e militanti fascisti integrandoli nel partiti «antifascisti», hanno conservato le strutture amministrative e burocratiche della macchina dello Stato e di quelle degli Enti locali, hanno continuato in gran parte intatta la cultura politica e le modalità operative e di lavoro del fascismo.
Se il fascismo, nella sua essenza spogliata dagli orpelli folcloristici significa: centralismo, statalismo, autoritarismo, nessun rispetto per la libertà dei cittadini, negazione della sovranità popolare, gestione partitocratica della legge e della Costituzione (quindi, di fatto, negazione dello Stato di diritto e del principio del «governo della legge» e non degli uomini) allora è vero che il regime presente in Italia è ancora oggi largamente fascista.
Non per nulla anche negli ultimissimi anni, a ogni problema che si è presentato, d’emergenza o meno che fosse, non si è mai risposto dando maggiore libertà ai cittadini perché il problema si risolvesse nell’ambito della iniziativa e cooperatività degli individui, delle relazioni private, della società civile e del mercato; ma si è sempre risposto con ulteriore regolamentazione e restringimento delle libertà individuali. Basta leggere le leggi prodotte dal governo Monti per constatare con facilità quanto sto affermando. Ma anche il governo Letta, sia pure con qualche maggiore cautela tattica, si muove sullo stesso binario.
I politici italiani di ieri e di oggi, nella loro maggioranza (e i grillini, purtroppo, non pare facciano eccezione), semplicemente sembrano incapaci di pensare in termini di libertà dei cittadini, perché ormai troppo disabituati a farlo. Hanno interiorizzato tanto profondamente il virus fascista da agire come fascisti anche senza accorgersene.
Questa continuità rispetto al modo di operare del fascismo la si ritrova anche in due punti fondamentali nella storia della politica e degli Stati.
Il primo riguarda il principio di «sovranità popolare», finzione verbale e ipocrita che non ha mai avuto, in pratica, attuazione. Fin dalla Rivoluzione francese della «sovranità», attribuita verbalmente al popolo, si sono di fatto impadroniti i «partiti» autonominatisi rappresentanti del popolo. Per cui la «sovranità popolare» è diventata, già con i giacobini, «sovranità nazionale» gestita dai rappresentanti della nazione. L’espressione «volontà popolare» è stata sempre interpretata non come pragmatica somma delle volontà dei singoli individui, espresse liberamente, ma come volontà di una pretesa entità astratta e collettiva, sovrastante i singoli individui e identificata sostanzialmente con la nazione, in senso nazionalistico.
Lo spazio in cui dovrebbe esercitarsi la «sovranità popolare», se si volesse dare un significato concreto a questa espressione, è lo spazio delle libertà e dei diritti dei singoli individui, dove l’individuo, membro del popolo, può essere veramente sovrano, e dove la somma dei comportamenti individuali determina il realizzarsi della «sovranità popolare». Ma questo spazio è stato, ormai da lungo tempo, addirittura soppresso, togliendogli ogni pretesa giustificazione giuridica di intoccabilità, conservandone solo quel residuo che l’onnipotenza della legislazione statale ritiene di concedere, non come diritto primario basato sulla «sovranità» degli individui, ma, appunto, come concessione dello Stato.
Il secondo punto è il fatto che, sopprimendo lo spazio dei diritti sovrani individuali e trasformando la «sovranità popolare» in «sovranità nazionale» e il popolo in un’entità astratta collettiva, tutto il potere che, secondo il principio di sovranità popolare dovrebbe essere nelle mani del popolo e quindi degli individui che lo costituiscono, è invece nelle mani dei «rappresentanti» del popolo. E questi, secondo ciò che gli studiosi di scienze politiche hanno svelato da tempo, fin dagli antichi, ma più apertamente e argomentativamente almeno da Gaetano Mosca in poi, non sono «rappresentanti» del popolo perché eletti dal popolo, ma perché, usufruendo di un apparato organizzativo potente e di doti personali (negative e positive) adatte, si sono «fatti eleggere» dal popolo. Ciò vuol dire che non è il popolo a eleggere la classe politica, ma è questa, divisa in gruppi concorrenti, a imporsi e farsi eleggere per confermare formalmente il proprio potere. L’incidenza del voto popolare è pertanto minima e, salvo particolari situazioni «rivoluzionarie», non riesce a determinare l’elezione di una classe politica che esprima realmente la volontà popolare.
Come ulteriore conseguenza si hanno i fenomeni del cosiddetto «populismo», quando lo si vuole leggere negativamente, o della cosiddetta «democrazia diffusa», quando lo si vuole invece leggere positivamente. In sostanza si tratta della stessa cosa: si privilegia in modo demagogico, illiberale e autoritario la pretesa volontà della maggioranza, considerandola come coincidente con il metodo democratico, a danno delle volontà e delle libertà dei singoli individui. La stessa democrazia, in questo modo, è diventata strumento di oppressione, perché mentre sostiene di difendere il diritto di partecipazione alla vita pubblica (senza peraltro riuscirci davvero), comprime e limita il diritto di libertà nella sfera privata. Al punto che la «democrazia», anziché limitarsi a legiferare sulle faccende pubbliche, legifera su tutto, perché considera tutto pubblico e tende a penalizzare moralmente e giuridicamente il diritto dei singoli individui a comportarsi come meglio credono, magari fregandosene della partecipazione alla vita pubblica.
Tornando alla proposta di legge Finocchiaro-Zanda e compagni, in essa si vede come il secondo capoverso dell’art. 1 della Costituzione italiana: «La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione», è interpretato proprio nel senso che la «sovranità», nella sua sostanza effettuale, non appartiene davvero al popolo, ma a chi si autodefinisce rappresentante del popolo, e, nello specifico della proposta di legge, apparterrebbe ai partiti.
Da questo punto di vista, con la pretesa di dettare, come dice il titolo della proposta di legge: «Disposizioni per l’attuazione dell’articolo 49 della Costituzione in materia di democrazia interna e trasparenza dei partiti politici», si arriva a stravolgere lo stesso art. 49 della Costituzione, che dice: «Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale». L’articolo afferma il diritto dei cittadini di associarsi in partiti, ma non afferma in nessun modo che solo i partiti hanno il diritto di rappresentare i cittadini e quindi di presentare candidature al Parlamento della Repubblica.
Pertanto, ciò che dovrebbe essere letto come una garanzia per i cittadini (il diritto di associarsi in partiti), viene interpretato contro i cittadini, togliendo loro il diritto di presentare candidati alle elezioni qualora non siano associati in partito. Insomma, ciò che è un diritto che non esclude altre forme di organizzazione politica e di partecipazione alle competizioni elettorale, diventa un obbligo che esclude proprio le diverse forme di organizzazione e partecipazione alla competizione elettorale.
Come ho affermato all’inizio: ecco un tipico esempio di lettura restrittiva, in chiave fascistica, di una norma costituzionale già di per sé ambigua e proprio per questo, sino ad oggi, mai attuata.
Se l’insieme della legge proposta da Finocchiaro-Zanda e compagni è infatti molto discutibile in tutti i suoi nove articoli che mirano a regolamentare l’organizzazione dei partiti e a dettare norme di trasparenza relative alla loro vita interna, oltreché a regolamentare le «primarie» per la scelta dei candidati, il primo comma dell’art. 6 è senza dubbio liberticida affermando: «L’acquisizione della personalità giuridica e la pubblicazione dello statuto nella Gazzetta Ufficiale ai sensi dell’articolo 8 costituiscono condizione per poter partecipare alla competizione elettorale». In questo modo la proposta di legge, più che mirare a dare attuazione all’art. 49 della Costituzione, mira a consegnare ai partiti il monopolio della vita politica e istituzionale.
In proposito va aggiunto che le molte voci contrarie a questa legge, compresa quella di Matteo Renzi, non rassicurano, perché perlopiù sono motivate da ragioni tattiche (i pro-grillini per difendere il diritto dei grillini di partecipare alle elezioni senza diventare un partito e, per altro verso, gli anti-grillini per il timore che la legge susciti una reazione favorevole agli avversari del Pd) e non dall’unica argomentazione valida per rifiutarla, che è da individuare nel suo carattere liberticida e contrario alla corretta interpretazione della «sovranità popolare».
Ho pubblicato il testo di Federico Bock nella rubrica ‘discussioni’ e ben vengano gli interventi anche molto critici come questo di Luciano Aguzzi.
Anche io concordo nella sostanza della sua critica e, nell’acconsentire alla pubblicazione sul sito di una versione ridotta di un ben più ampio scritto, gli avevo scritto:
“Caro Federico,
devo confessarti – ma penso che tu lo sappia già da quanto vado scrivendo – che sono molto esterno al tuo approccio giuridico sulla questione dei partiti; e quindi ho letto (per ora velocemente) il tuo testo così analitico traendone molte perplessità. Due al momento abbastanza chiare: – ma davvero è possibile assimilare la politica all’industria?; – e davvero il “medico” della “malattia” dei partiti ( e della “democrazia”) può essere il presidente della Repubblica?
Questa seconda tua tesi mi ha ricordato la (famigerata per me) proposta che affacciò ai tempi della presidenza Napolitano lo “stratega-letterato” Asor Rosa che auspicò una sorta di “golpe” dall’alto per far fuori Berlusconi.”
Il signor Bock vedrà presto realizzato questo suo desiderio di normativa sugli affari dei partiti e quindi sulla svolgimento del dibattito parlamentare. Sbaglia quando si aspetta che sia il Presidente della Repubblica a cambiare le cose con una semplice disposizione. I partiti vogliono libertà di azione, per patteggiamenti e compravendita, a maggior ragione se devono rinunciare al finanziamento pubblico per il loro sostentamento. Il signor Block dovrà considerare questa sua idea come obiettivo da perseguire, non da immettere nell’organismo alla maniera di un farmaco.
Va innanzi tutto considerato il preambolo della scarsa forza numerica dei rappresentanti, così come si è venuta a formare dopo le ultime elezioni. La destra berlusconiana sta mettendo Salvini all’angolo per via degli accordi presi in precedenza, e Salvini dovrà accettare perché i 5stelle non gli assicurano alcuna corsia privilegiata. Ma oltre questo scenario – che comprende il PD renziano ancora convinto che i 5stelle sono un fuoco di paglia: basterà metterlo nelle condizioni di non poter agire, e per questo faranno accordi con FI – il possibile cambiamento che muterà la prassi politica italiana dovrà giocoforza passare dal superamento di destra e sinistra inteso come spartizione delle poltrone. Il M5s sta provocando questa trasformazione ma non è detto che la vecchia politica cesserà all’istante di esistere. C’è anche il rischio che tutto potrebbe restare come è sempre stato.
Non sono d’accordo con Bock sul concetto di partito-impresa o di Stato-impresa. Di fatto questa è stata l’idea berlusconiana della politica, e anche dei partiti di destra, da sempre. Uno Stato più efficiente, ma per fare che? Questo è il punto.
…parlo da persona digiuna di conoscenze specifiche nel campo delle leggi, ma a colpirmi nel discorso di Federico è quella parolina negletta: “giustizia”, a cui i politici dovrebbero fare riferimento, come già riconosciuto ai tempi di Socrate. Trascurata perchè poi non se ne parla piu’, ovvero cioè si sottindende come fine da raggiungere attraverso sempre nuove normative all’interno dei partiti stessi, ma il problema in sè, che implica tutta la collettività, viene messo ai margini…Controlli interni che scavalcherebbero per l’ennesima volta la volontà popolare e, non mutando nulla nella sostanza, esigerebbero sempre nuovi controlli…Insomma, mi richiamano le “grida manzoniane”, piu’ a vantaggio dei già potenti che di chi sta in attesa “giustizia”…
Non essendo manicheo, considero con attenzione i qualificati punti di vista, come quelli che precedono, diversi dal mio, in una materia che per la delicatezza sarebbe disumano sottrarre alle emozioni.
Osservo che Frank-Walter Steinmeier, Presidente (socialista) della Repubblica Federale Tedesca, recentemente ha tirato addirittura per la giacca Martin Schulz, segretario della SPD, che dopo le elezioni (perse) faceva l’aventiniano, costringendolo ad accettare di rinnovare la Groko (Große Koalition) con Merkel.
Ciò che è puntualmente avvenuto, con la rituale consultazione basica del partito (referendum).
Eppure il Presidente della Repubblica Federale Tedesca non ha maggiori prerogative del Presidente della Repubblica Italiana.
Anzi, nella Costituzione tedesca non è neppure prevista la facoltà di inviare messaggi alle Camere.