di Adriano Barra
“ Un diario che non è un diario – Blanchot (1959) è acido e liquidatorio: « C’è, nel diario, la felice compensazione reciproca di una duplice nullità. Chi non fa niente della sua vita, scrive che non fa niente, e così si trova di fronte ugualmente a qualcosa di fatto. Chi non scrive perché si lascia sviare dalle futilità della giornata, si volge a questi niente per raccontarli,denunciarli o compiacervisi, e la giornata è riempita. È la “ meditazione dello zero su se stesso “ di cui spavaldamente parla Amiel »; al contrario, Musil (1904) è possibilista e depresso: « Diari? Un segno del tempo. Diari se ne pubblicano tanti. È la forma più comoda, più indisciplinata. Bene. Forse si finirà con lo scrivere soltanto diari, perché si trova insopportabile tutto il resto. Ma poi a che scopo generalizzare? È l’analisi stessa; – né più né meno. Non è arte. Non deve esserlo. A che serve parlarne tanto? ». E oggi? Ha ancora senso parlarne, c’è, aperta da qualche parte, una « questione-diario »? Si direbbe proprio di no. Chi scrive più diari? Non diciamo i monumentali celeberrimi Journal di Gide, di Du Bos o di Green, che cinquant’anni fa ebbero la stessa « fortuna » delle opere letterarie più famose, ma anche « diari politici », come quello di Ciano o quello del « Che », oppure « notturni », come quello di Flaiano, « romani », come quello di Brancati. Pavese è morto mezzo secolo fa, e sfidiamo chiunque a trovare ancora una fanciulla più o meno bennata che abbia un quadernetto segreto su cui tracciare le linee incerte della cronaca intima. A maggior ragione lascia sinceramente stupefatti l’uscita di un libro come questo La visione del mondo / Diario 1973-1983, per l’editrice Colibrì di Avezzano, voluminoso, imbarazzante, quasi maniacale esempio del ritorno di una maniera che credevamo morta e sepolta. L’autore, Adriano Barra, è sconosciuto. Anzi, era. Dalla breve nota di introduzione risulta infatti scomparso nel 1983, non si dice però a quale età. Nemmeno ci vengono forniti lumi su quale fosse l’attività del Barra, personaggio eccentrico quant’altri mai se si sta a questa Visione, destinato sicurissimamente a restare sconosciuto, o conosciuto esclusivamente per quest’opera, della quale già sappiamo che sarà la sola della sua misteriosa carriera. Un diario? I diari sono molti più d’uno, anzi moltissimi. La verità è che le quattrocento e passa pagine del libro consistono di una strepitosa mole di brani di diario, testi buffi o curiosi, lacerti, brandelli, lampi di diario. Si va dal diario della dama di corte giapponese del decimo secolo a quello del bambino della campagna toscana del secondo dopoguerra, dalle note eleganti del londinese James Boswell, agli appunti « azzurri » del milanese Carlo Dossi, agli scritti in trincea, in prigione, in campo di concentramento, in clinica. Diari in campagna e in città, in segreto e in pubblico, in giovinezza e in vecchiaia; di donne, di uomini, di bambini, di oggetti (c’è anche il Diario di un diario). Diari « americani », « pisani », « africani ». Dai diari « falsi », che sono in realtà romanzi, ai testi strappati in mattine che supponiamo livide alla carta ruvida dei quotidiani. Dal diario di Cavour al giornale (ino) di Gian Burrasca. Dal diario di Trotskij esiliato in Messico a quello di Giovanni Pibiri, carabiniere in Africa. E poi ci sono i parenti: le figlie di Hugo e di D’Annunzio, la sorella di Wordsworth e la sorella di James, il fratello di Svevo e quello di Malaparte. Ci sono i diari di tutti: da Hawthorne a Rilke, da Burroughs a Thovez, a Gavazzeni, a Dalì, Dos Passos, Kierkegaard, Sterne, Stuparich, Larbaud, Landolfi, Michelet, Hegel, Hebbel, Linati, Constant, Von Hofmannstahl, Morselli, Morante, Apollinaire, Benny Lai, Nenni, Nin (Anaïs)… Fino al diario, sempre evocato ma forse mai veramente letto, dell’adolescente ebrea olandese Anna Frank. E’ una sorta di assemblea plenaria degli scrittori del giorno-per-giorno, un giudizio universale dei diaristi, un coro di voci minime (o massime in tono minimo), un’adunata di gente che, nelle maggior parte dei casi, se c’era, ormai non c’è più. A cominciare dall’autore di questo libro che chiamare « strano » è poco, questo ipotetico Adriano Barra, che fra mezzo a una tale pletora di spunti, note, schizzi, frammenti, giorno-per-giorno trova il tempo di scrivere anche lui il suo diario, le sue note, i suoi frammenti. La sua voce è un misto di ironia e di amarezza. « Scrivo nei ritagli di tempo. – dice Barra – Ormai il tempo per me è sempre a ritagli. » Malinconico ma anche loquace, sia pure per interposta persona, l’autore tenta di trascinarci lungo quattrocento pagine di scrittura fitta e assolutamente priva di contenuto, ma raramente, va detto, noiosa. L’euforia e la solitudine: sono questi i due numi tutelari dell’opera di Barra che, pare, per nulla al mondo rinuncerebbe alla divina facoltà dell’ascoltare. C’è un testo che può essere illuminante. Scrive Barra alla data 9 aprile 1974: « A scuola stavo bene. Mi piaceva ascoltare. Ascoltando imparavo, senza fare fatica. Io stavo fermo, zitto, e le voci mi entravano dentro. Entravano e lasciavano le parole, in una folla ordinata, tranquilla, variopinta. Ero bravissimo a stare fermo. Immobile, disincarnato, strano. Come un fachiro. Non sarei uscito mai da quella trance uditiva. Non ero di quelli che aspettavano solo la campanella. Ora non ricordo quasi niente di quelle voci, scomparse nel fondo di lontanissimi inverni. Ricordo solo la beatitudine. Dell’ascoltare. ». Dunque la Visione può essere letta anche come uno stralunato Temps retrouvé; e, proseguendo nella traiettoria proustiana, non dobbiamo chiederci se siamo di fronte a un intrattenimento favoloso e necessario, qualcosa come I mille e un diario? Dunque Barra è soprattutto un ascoltatore, un « auditore » indomito che non arretra di fronte all’enormità dell’universo del Rumore. Il suo diario vuole esserne la registrazione fedele, la « santificazione », forse, se è vero che l’esercizio dell’ascolto – che si realizza nella trascrizione – emancipa i testi dalla loro finitezza e occasionalità componendoli in una « forma » che è mosaico, affresco, collage, patchwork. (Un « ascolto » che ogni volta si organizza intorno a un centro di gravità, un occhio magnetico, un punto di attrazione: una parola, una sola, che Barra scrive in neretto, e che in una nota viene, con discutibile audacia, assimilata al punctum del Barthes osservatore di fotografie). Quando non copia i diari degli altri – « amanuense elettronico », così si presenta – Barra, l’abbiamo detto, scrive il suo. « Scrive »? sarebbe meglio dire: « copia ». C’è, sembra, da qualche parte una voce, irriconoscibile come sua, che, emergendo da un silenzio abissale – il silenzio di un taciturno, ma anche il silenzio di un dormiente (di un morto?) – parla, anzi emette proposizioni fatte anche di una sola parola, o che di una sola parola vogliono essere l’irradiazione, l’alone. Barra l’ascolta e la trascrive fedelmente, sempre perplesso, sempre fra invisibili virgolette. Forse a Adriano Barra è capitata una metamorfosi inedita: un giorno si è svegliato e non aveva più la voce. Così, per parlare – perché lui voleva parlare – ha deciso di farlo con la voce di un altro, anzi di molti altri. Si è fatto ventriloquo, insomma. Che cosa spinge questo insolito grafomane – insolito per lo meno nei modi – in questa affannosa, ossessiva raccolta di brani di diario? Perché dopotutto siamo di fronte a un collezionista, a una di quelle figure, stravaganti e comuni, di posseduti da un daimon, di soggiogati da una idée fixe, inchiodati alla ripetizione-accumulazione. Scrive Barra: « La visione del mondo può essere letta come una serie di inizi, un elenco di risvegli. ». È vero: ognuno dei frammenti di diario rappresenta un inizio possibile per una storia che non è stata narrata ma potrebbe ancora esserlo. Uno spunto, un avvio, la cui prosecuzione è per intanto affidata al lettore. Il diario è sempre il diario di uno scrittore, anzi di un narratore, anche quando questo non sa di esserlo? Facile a questo punto mettere il naso nell’imponente magazzino della teoria letteraria, al comparto « narrabilità », evocare il Calvino di Se una notte d’inverno un viaggiatore o il Perec de La vie mode d’emploi. Ma evitiamo di far dire al Barra quello che certamente non poteva dire. Lasciamolo lì, in mezzo ai suoi diari, elucubrante, meditabondo, attento e stupefatto, laconico e ciarliero. Fotografiamolo un’ultima volta mentre « spavaldo », come un ipnotizzato o un sonnambulo, procede fra queste macerie nate macerie, marcia in questo illimitato animatissimo niente, naviga in questo « mar dei Sargassi » (cfr. Gadda, Giornale di guerra e di prigionia, citato a pag. 156) della letteratura diaristica, fisso a una allucinata, paradossale visione del vivere come scrivere, e dello scrivere come scrivere giorno-per-giorno. Ne risulta un’impressione di colossale liberatorio silenzio: comico. Che forse è esattamente quello che l’autore voleva. // Ndr. La visione del mondo non esiste. Tantomeno l’editore Colibrì di Avezzano. Così come non è mai esistito Adriano Barra. Fino a prova contraria. (1994) “.
* Adriano Barra cura il blog stupidità . E di sé dice: Sono nato a Siena. Vivo a Roma da trentanove anni. Sono laureato in filosofia, ma ho fatto una tesi su Gadda. Ho un figlio, e quattro nipoti. Non sono mai andato più lontano di Tangeri (Marocco) e Stavanger (Norvegia). Ho fatto un certo numero di lavori, fra i quali anche il giornalista (professionista). Quarant’anni fa ho avuto voglia di scrivere un romanzo, ma non ci sono riuscito. Non ho mai pensato di voler fare un film.
Dopo averla imparata ad apprezzare nei commenti sul blog “Le parole e le cose” (e dopo un iniziale sbalordimento non capendo il senso dell’operazione, ammesso che quella di “adriano barra” sia un’operazione e abbia un senso), mi fa piacere ritrovare qui la sua scrittura diaristica, nella versione “meta” di diario di diari
@ roberto
Ti suggerirei di visitare il suo blog: “stupidità !tènere distanze”
( https://acabarra59.wordpress.com/).
Uno stralcio a caso:
Da ragazzino andavo matto per Ugo Foscolo. Poi mi spiegarono che sbagliavo, e credo che avessero ragione loro. Mi sbagliavo in molti sensi: su Ugo Foscolo, con i suoi morti importanti, con il suo senso eloquentemente letterario della morte – aveva già più ragione la mamma che mi voleva far leggere L’Antologia di Spoon River, con i suoi morti qualsiasi, con la sua poesia poco letteraria -, ma mi sbagliavo anche sulla letteratura, perché a quei tempi, come spiegano ora, i morti che contavano erano già altri, potevano essere Jimmy Dean, o Marilyn, o Elvis, morti del cinema, o morti del rock, e la letteratura già allora c’entrava poco. Da quando l’ho capito sono andato in cerca di morti, morti miei, tanto per farmi un passato, tanto per piangere, poiché, già allora, volevo piangere. Ma ad andare in cerca di morti se ne trovano anche troppi e allora il difficile diventa sapere di chi, esattamente, si sta parlando, di chi, eloquentemente?, si sta piangendo. La critica letteraria parla degli scrittori, e quando ne parla, gli scrittori, in un certo senso, non ci sono mai. Perché è difficile stare in due in una pagina, a meno di non essere doppi – a meno di non essere Ugo Foscolo o Franco Fortini, tanto per dirne qualcuno. E quindi, rispetto alla letteratura, all’atto vivo della scrittura letteraria, la critica è sempre un po’ o parecchio dopo, un po’ o parecchio postuma. Per questo le si addice una certa malinconia, che tuttavia è anche determinazione a non lasciarsi fregare. E anche una certa necrofilia, o se si preferisce, necrologia, non dico come i giornali, che piangono, come si sa, lacrime che sono sempre di coccodrillo, non dico così, ma quasi. Perché, sinceramente, credo che la critica non abbia mai voluto salvare nessuno. Quella dei salvataggi è una specialità degli scrittori, almeno così dicono loro, perché è anche lecito dubitarne. Si salvi chi può, si sente dire nei naufragi, e ognuno, con diversa fortuna, con compostezza, con affanno, con una certa furbizia, cerca di salvarsi, e qualcuno ci riesce e qualcun altro no. Il modo più sicuro di non morire è essere morti. Questo la critica lo sa benissimo. E non solo la critica. La letteratura invece forse non lo sa più. L’ha scordato. Come si fa a non-esserci, a guardare tutto da fuori, a vedere gli altri morire, a piangere, della morte degli altri. A essere eterni, a dormire bene, dopotutto. Perché non capita mai a noi. E noi, dopotutto, non possiamo mai farci veramente niente. Ah, il delizioso sadismo involontario di chi guarda, anzi di chi legge, con occhiali o senza. Le vite degli uomini illustri, o sfigati, o troppo grossi, o troppo buffi. Chi piangere? In questi anni ci ho pensato parecchio. Potevo piangere Ugo Foscolo, ma lui si piangeva da solo. Potevo piangere Franco Fortini, ma non mi veniva da piangere. Ho pianto Luciano Bianciardi, ma non sono sicuro che se lo meritasse. Ho pianto Gadda, ma poi non c’era più posto. Ho pianto Calvino, lui sì, ma poi ho smesso. Ho pianto Tondelli, anche per via di quel ventinove del professor Eco. Ho pianto Adriano Spatola, ma beveva un po’ troppo. Ho pianto Parise, chissà se ho fatto bene. Ho pianto Antonio Porta, ho pianto Corrado Costa, ma ero ancora giovane. Ho pianto Manganelli, ma non l’ho quasi letto. Ho pianto Georges Perec, ma era già morto. Non ho pianto Bruce Chatwin, dopo che ho visto chi lo piangeva. Non ho pianto Pavese, perché ero un bambino. Ferroni ha scelto di piangere un critico letterario, come se fosse la critica letteraria ad essere morta. Sarà. (Ma forse era solo un amico) Non ho pianto il La Fontaine che mi leggeva la nonna perché mi sarebbe venuto da ridere, ma la nonna l’ho pianta, e ancora non ho smesso. Non ho pianto l’Edgar Lee Masters che mi leggeva la mamma, ma la mamma non l’ho ancora pianta abbastanza. Perché forse rimane vero che i morti che bisogna piangere sono quelli che sono veramente nostri, che abbiamo conosciuto, che abbiamo amato. Come i libri bisogna veramente leggerli, e non girarci intorno, come se ci fosse tempo da perdere, oppure non leggerli. E basta. Comunque è inutile fare giochi di parole: sono sempre i vivi a dover seppellire i morti. È un lavoro lungo e penoso. Dico: seppellirsi. Non c’è da avere fretta. Comunque a piangere troppo diventa una lagna. E non è quello che volevamo.
@ Ennio
ci sono stato. Ed è difficile staccarsi. Un genio, logorroico.
…forse un progetto non decollato di un’opera che doveva raccogliere brandelli di diari, di persone e personaggi vissuti in epoche diverse e in svariate latitudini…Ma l’autore stesso, Adriano Barra, mentre scrive si presenta tra gli estinti…Quindi un morto che parla…Surreale e comico, ma fino ad un certo punto: in effetti i diari scritti nella contemporaneità della vita vissuta e letti dai posteri mescolano in modo imbarazzante la vita e la morte, la presenza e l’assenza… Traumatico può essere quando si scopre solo a fine lettura che si trattava di un diario, come nel caso del diario-romanzo “Niente di nuovo sul fronte occidentale”, infatti quando ben ti sei affezionato al soldato della prima guerra mondiale che dopo tante vcissitudini è a un passo dalla salvezza, cioè scampare la pelle, il suo diario si interrompe perchè il giovane è raggiunto dalla “banalità” della morte…L’ombra della morte era presente già dalla prima pagina…
Tante grazie a Ennio per l’attenzione. Roberto Bugliani: mi sembra di aver conosciuto un Roberto Bugliani, una vita o due fa.