di Angelo Australi
“Chi, per esempio, potrebbe dispiacersi per San Francesco perché si strappò le vesti e fece voto di povertà? Egli fu il primo uomo che si ricordi a chiedere ossa invece di pane.”
Henry Miller
A dieci anni guidavo il trattore come un grande. Non è una balla, lo Zio Seneca mi metteva una mano sulla spalla per sospingermi verso il trattore e diceva sali che andiamo a spandere il concio sulla terra. Il carro ci aspettava pieno di sterco fumante, con il forcone infilzato sul cumulo. Sembrava che dall’aia si propagasse il focolaio di un incendio, mentre gli odori predominanti salivano ancora dalla terra umida del mattino.
– Ogni dieci metri ti fermi, così scarico un mucchietto di letame.
Oggi posso intuire perché fosse così disposto a concedermi questo privilegio, lo zio si alzava alle quattro del mattino a fare l’erba nei campi, e nonostante mille promesse non aveva mai trovato il coraggio di contraddire il nonno per portarmi con sé. Il nonno era disposto a insegnarmi tutti i segreti della terra di cui negli anni era entrato in possesso, ma non voleva assolutamente farmi appassionare al mestiere del contadino che diceva essere avaro di soddisfazioni, e spesso ingrato. Io dovevo studiare, fare di tutto per realizzarmi con qualcosa di diverso, di meno faticoso, invece le mie estati in campagna avevano un senso solo quando potevo disintegrare le distanze tra il gioco e la fatica di quell’avarizia della vita nei campi. Sapevo per certo che tutto questo al nonno doveva stargli a cuore perché ogni scusa era buona per lavorare ancora senza chiedere sconti, nonostante il peso degli anni che si portava addosso.
Quando mi svegliavo di solito il sole aveva già spazzato via le ultime ombre notturne dalla collina di Villastrada, ancora non picchiava sulla cervica e tutta la gente di casa era sparita a pagare i propri pegni con la terra. Al primo impatto restavo intrappolato in una forte sensazione di malinconia, io e la nonna indaffarata a cucinare qualcosa per pranzo sembravamo le uniche due persone completamente fuori posto, mentre tutti avevano degli interessanti lavori da compiere. Aprivo le persiane con gli occhi ancora intontiti dal buio, e la violenza di tutta quella luce accentuava all’infinito la mia tristezza. Bevevo il latte caldo d’un fiato e mi recavo a scoprire se dietro la stalla il carro che di solito lo zio utilizzava per raccogliere l’erba dai campi non fosse già stato staccato dal trattore. Il risultato di questa scoperta influiva in modo negativo o positivo sulla percezione del giorno che era appena iniziato. Così, senza riuscire a cancellare niente, il tempo poteva dilatarsi all’infinito in un pozzo di noia o restringersi, tanto da giungere a sera, senza mai porsi il problema di che ora fosse. Era comunque un tocco di magia e fissavo il mucchio d’erba sul carro con lo spirito di un perdente, accettando a malincuore le conseguenze di quella negazione percepivo la vita che iniziava a presentarsi lentamente nel luccichio dei fili d’erba appena bagnati dalla guazza; quel mondo fra non molto sarebbe finito brutalmente nella pancia dei nostri vitelli. Allora non solo la delusione, ma prendeva campo il bisogno di osservare le varie specie di ragni e tutti gli altri tipi di insetti per lo più colorati, che si muovevano impercettibilmente. Fissarli a lungo mi faceva stancare gli occhi ma sentivo l’esigenza di farlo, ero come preso da una curiosità frenetica. Quando poi la rabbia vinceva sullo spirito di osservazione, iniziavo a scaricare il carro con foga, fino a dimenticare la delusione, il dolore alle mani nel tenere il forcone e la stanchezza. Reagire ai momenti difficili era uno dei segreti del mestiere di contadino che il nonno mi aveva insegnato, l’ho imparato solo perché quando sì è delusi della vita si può sempre cercare un carro d’erba da scaricare.
All’arrivo di zio Seneca il carro poi era sempre vuoto, lo sentivo fare quell’accenno di sorriso, mentre con la mano sulla testa mi stava guidando verso il trattore.
Mi diceva: – Sali, bestiolina mugellese.
Guidare il trattore era il punto di massima realizzazione, come guardare sempre il cielo stellato nelle notti di luna piena e alla fine di un sogno diventare astronauta. Cosa ci può essere di più bello, quando si ha tanta voglia di imparare? Lì sopra mi sentivo tutto e il contrario di tutto, e lo zio giù in basso, anche con il forcone in mano aveva solo il significato di un microbo intento a infastidire la terra. Non è che lo disprezzassi, ma ci sentivo un gusto che mi scioglieva tutto, fino a farmi sentire parte del processo biologico che si sarebbe innescato con lo spargimento del letame.
– Vai… – mi diceva quando dovevo inserire la marcia.
– Lì, stop! – Comandava appena dopo un breve tratto.
Sulla strada asfaltata, la statale che affettava in due il podere del nonno fino al passaggio a livello, invece guidava lui.
Alla fine di agosto, dopo la battitura, era subito un’altra musica perché lo zio si coricava nel momento stesso in cui mi alzavo. All’inizio credevo volesse farmi un dispetto, e invece andava a letto dopo avere arato tutta la notte con il trattore a cingoli nei campi che prima avevamo arricchito di vita con lo sterco delle bestie. Fatta colazione andavo di corsa nel punto dell’aia da cui era possibile scorgere il pendio della collina arata nella notte, e distinguevo la terra rivoltata di fresco perdersi nei colori della muraglia di rovi che delimitava il bosco. Cominciavo a correre istintivamente come un orfano tra i filari della vigna, fino a raggiungere i campi arati di fresco. Era solo una dimostrazione d’amore dopotutto, una prova necessaria, in attesa di arrivare a capire bene il profondo significato di quella terra piena di rughe come il volto del nonno. E mentre battevo le mani, urlando in un respiro affannoso causato dalla corsa, quegli odori decisi che sapevano di muffa mi invadevano i polmoni e un nugolo di passerotti e di storni si alzavano in volo impauriti, graziando per un attimo i lombrichi e gli altri insetti racchiusi nello sterco rivoltato dall’aratro.
Una mattina avevo trovato il nonno indaffarato a piantare un piccolo cipresso all’inizio del quinto dei tredici filari della vigna, dove anche l’uva ormai cominciava a tingersi di rosso. Essendo alti uguali, io e quel cipresso eravamo come due ragazzi della stessa età, capaci di guardarsi negli occhi. A dire il vero mi sembrava un po’ spelacchiato e sofferente, ma forse si trattava solo di un’impressione del momento. Il nonno sorrise e disse di averlo chiamato Spartaco, con il mio nome, che anzi ne aveva piantati un po’ ovunque per capire se la terra era abbastanza ricca di minerali. Ne accennò un altro ormai grande e grosso che dava ombra sul pozzo dell’orto, al quale aveva messo il nome di mia madre. Nel guardarmi intorno gli altri cipressi isolati in vari punti del podere sembrarono torri medioevali costruite in zone nevralgiche per avvistare il nemico. Non so quale nemico il nonno fosse preoccupato di incontrare, ma non c’era mistero in quei cipressi modellati dal vento, se non in rapporto alla terra del nostro podere.
– Quello è Seneca, tuo zio. Quello laggiù in fondo, lo vedi sì o no?
– Sì, che lo vedo!
– Lui è Sergio… poi Marina, Vinicio, Oria… Maria e Sauro, Emilio e Ginetta. Il più piccolo, laggiù nella valletta… lo stai vedendo?
– Sì, nonno.
– Bene, ha il nome di tuo cugino Francesco. A questo che ho appena piantato devi dargli un po’ d’acqua prima che si alzi il solleone, altrimenti patirà per tutto il giorno.
Per la verità avevo una caterva di domande da porgli, ma lui si era allontanato con la schiena curva, lasciando l’impressione di essere un moribondo che ancora oggi mi porto appresso.
Presi l’acqua, un grande secchio zincato che nello sforzo di trascinarlo quasi non mi faceva scoppiare un’ernia, cercando di offrire al cipresso appena piantato un’alternativa tollerabile contro la calura che stava per arrivare. Poi osservai tutti quegli altri ai quali lui aveva dato i nostri nomi. Erano sparpagliati nei campi, ma non avevano più la disposizione astratta delle altre volte che li avevo guardati, ora ciascuno era legato a una persona per la quale provavo un affetto sincero.
Nonostante fosse solo un periodo estivo di vacanza, in quel dilatarsi dell’immagine all’infinito ebbi l’impressione che tutta la famiglia poteva identificarsi con la terra del podere. Diventava come un legame ombelicale racchiuso dentro le persone e la sostanza organica di cui è composto il mondo. Una relazione ben nascosta, segreta, quasi che quei cipressi fossero spuntati fuori dalla mente, questa volta all’improvviso, per trasformarsi in antiche torri di avvistamento longobarde che scrutavano oltre i confini del regno. Sentinelle in grado di scorgere in lontananza, se compariva una novità.
Non so, ma per me che vivo sulla terra da vent’anni, e conosco vecchi e giovani con macchine e forza, che di terra vivono, questi toni svagati e malinconici sembrano, appunto, alla terra estranei. Le torri, poi, sono più meridionali e costiere che chianine. Mi pare, questo racconto, costruito e intenzionale più che realistico sociale. Forse l’indicazione a studiare e uscire da quella sorte ha avuto effetto. Ma ritornarne in questo modo non pare efficace rispetto alla effettualita’. Magari però mi sbaglio.
Vero, non era mia intenzione stare sul realistico sociale. Qui è una campagna reinventata, immaginata nel gioco di un bambino che l’estate frequenta quel mondo e deve inventarsi qualcosa per giocare senza avere giocattoli a disposizione. Immaginarsi dei giochi quindi stando con gli adulti che non amavano fare quel mestiere, ma erano costretti. Infatti molti di loro nei primi anni Sessanta (è questa l’epoca in cui ero ragazzo e trascorrevo le estati dai parenti contadini) sono finiti in fabbrica, pur di uscire da quella condizione. Oggi la maggior parte di loro è morta, ma tra i pochi viventi, se li senti parlare, confessarsi, dicono che non rimpiangono niente di quella vita, che se potessero tornare indietro farebbero la stessa scelta di lasciare il podere.
In questo caso la campagna per il ragazzo è uno spazio da reinventare per sconfiggere la noia, così può acquistare un ruolo diverso anche il lavoro fatto dai grandi. Tutto qui.
eppure… non solo ci sono cittadini che vanno a vivere in campagna, a coltivare e allevare, ma ci sono figli che restano dove c’è la famiglia, e fanno figli. Parlo per esperienza, non in generale. La fuga dai posti rurali di 50 o 60 anni fa, era dovuta ai rapporti di proprietà e ai feroci rapporti di comando vigenti, e l’elettricità qui dove vivo non ci fu fino agli anni 70. Ma oggi ci sono le macchine per lavorare e per viaggiare, (le sovvenzioni europee all’agricoltura), e lo spazio, gli animali, il fronte a fronte con l’immediatezza climatica, la conoscenza reciproca diffusa sul territorio, che fanno sì che molto, quasi tutto, sia cambiato, in meglio. Un atteggiamento di memoria nostalgica può funzionare per chi non ci vive più, in quei luoghi. Che invece sono vissuti e abitati senza alcuna traccia di sentimenti soffusi.
…Cris, sicuramente quello che dici è vero, cioè la terra non è stata dovunque abbandonata, anzi si lavora con meno fatica per l’impiego di macchine e di tecniche agricole avanzate, se poi i prodotti siano sani come una volta, questo è un altro discorso…Però a me risulta che molte zone italiane non lontane dalle coste, come la Liguria di ponenete, boschive e collinari, già terrazzate per permettere varie coltivazioni, siano state progressivamente abbandonate, restituite alla vegetazione selvaggia e ai cinghiali…I “vecchi” ancora in gamba continuano ostinatamente a difenderle dal degrado, anche dall’inaridimento, dalle frane conseguenti ad alluvioni devastanti, ma figli e i nipoti preferiscono, e spesso è una necessità, scendere sulla costa e dedicarsi ad attività, per quanto a volte solo stagionali, legate al turismo…”La fuga dai posti rurali di 50 o 60 anni fa…” fu sicuramente come affermi, Cris, legata a tutti quei fattori che hai nominato, in particolare i rapporti di potere nelle campagne…Mi permetto di aggiungere, riferendomi all’esperienza vissuta dai miei familiari paterni, contadini poveri che gestivano un orto, mia nonna lo chiamava “ortaglia”, ma non era un termine dispregiativo, solo il dialetto locale per dire un orto piuttosto esteso nella pianura padana…Mia nonna, rimasta tragicamente vedova, vi coltivava, con l’aiuto dei figli, frutta, verdura e fiori. I prodotti erano per il consumo familiare in cascina ma venivano anche venduti al mercato; i fiori, bellissimi, erano nel periodo dei morti per le tombe nei cimiteri…Ricordo la grande amarezza di mia nonna quando anche l’ultimo figlio ha abbandonato quell’attività, preferendo la fabbrica…Una delle ragioni, certo la estrema fatica di quel lavoro non fu l’ultima, fu anche il cozzare del loro stile di vita con le mode dilaganti attraverso le prime propagande televisive…loro i contadini erano “i famei” che puzzavano di stalla e di sterco e faticavano a confrontarvisi…Quando di domenica si spostavano nella pur provinciale cittadina vicina, faticavano ad avvicinare le ragazze, si sentivano diversi…
SEGNALAZIONE
Sui “famei” è bene rileggere l’articolo di Augusto Vegezzi qui su Poliscritture: https://www.poliscritture.it/2014/05/11/i-famei/
Appunto sulla terra come luogo di nuove identità e contraddizioni sociali e lavorative riportavo l’attenzione, piuttosto che come luogo di memorie soffuse di indeterminate nostalgie…
…trovo piuttosto che sia un racconto del dopo, dopo una ferita mai cicatrizzata nel tempo. per sempre…Angelo Australi dà voce al bambino che fu, il suo trasporto per ogni attività legata alla terra, carnalmente vicina alle persone che amava… dopo l’aratura, i solchi riflettevano le rughe del nonno…e i cipressi da lui piantati, erano “le torri di avvistamento…” di nemici o di novità in arrivo… ma forse anche la sua volontà d perpetuate nel tempo la presenza dei propri cari, con i loro nomi, su quella terra…Graffiti vegetali di una civiltà contadina. Forse il nonno “sapeva” che la sua sarebbe stata l’ultima generazione a vivere la terra pienamente…In un altro racconto A. A. narra che , alla morte di zio Seneca, il bambino rinuncerà per sempre a trascorrere le sue vacanze estive nel podere del nonno…
Sono d’accordo, è un modo per mantenere viva la presenza dei propri cari, ma anche il bisogno di recuperare quei momenti felici del’infanzia, fatti di niente, dove uscire dalla noia, dalla monotonia, si poteva fare solo con l’immaginazione. Allora un cipresso diventava una torre, i filari della vigna un esercito, gli animali dell’aia dei mostri con cui combattere. Dentro la prigione del quotidiano oggi, c’è ancora posto per tutto ciò?
forse non saranno del tutto veritiere queste memorie, però, a mio avviso posseggono una poesia interiore che si trova solo in pochi scrittori. grazie
E’ così e ti ringrazio. A un certo punto resta solo il racconto e ciò che suscita, il ricordo da cui sboccia viene assorbito dal bisogno di ricercare il momento dove può manifestarsi la poesia.
grazie
Racconto molto bello. Assorto in un altro tempo. Mi ha ricordato le esplorazioni che facevo io pure in un piccolo podere di mia zia in campagna. Scappavo fuori al mattino presto, mentre gli altri ancora dormivano, e provavo sensazioni simili. Ci vedo molto Ottocento e il senso della casa/rifugio che ho imparato a leggere in Pascoli.(Specie nella poesia «La siepe»). Ma ora che Angelo [Australi] ha parlato del ricorso all’immaginazione per uscire dalla noia e dalla monotonia m’è venuta in mente anche un’altra poesia di Pascoli, «Romagna». Riporto questi versi a sostegno della sua osservazione:
guardava il tutto un pioppo alto e slanciato,
chiassoso a giorni come un biricchino.
Era il mio nido: dove, immobilmente,
io galoppava con Guidon Selvaggio
e con Astolfo; o mi vedea presente
l’imperatore nell’eremitaggio.
E mentre aereo mi poneva in via
con l’ippogrifo pel sognato alone,
o risonava nella stanza mia
muta il dettare di Napoleone;
udia tra i fieni allora allor falciati
de’ grilli il verso che perpetuo trema,
udiva dalle rane dei fossati
un lungo interminabile poema.
Grazie Ennio, il bisogno di Spartaco è quello di assorbire quel mondo, magari reinventandolo, senza condizionamenti.
Sono nato anch’io in campagna e, sì, c’erano dei poderi lontani, remoti direi. Abitati da gente rude, di poche parole. Ci andavo per la vendemmia, ad aiutare: mi facevano raccogliere i grani d’uva che cadevano a terra. Prima il lavoro. Li viveva un lontano parente, che poi si laureò e con quella mentalità fece una carriera invidiabile.
Penso che la realtà non si possa dire e che non sono veri i ricordi, perché li selezioniamo. Però amiamo il racconto; che è qui, è ben scritto e dentro c’è una luce che non dispiace. Dentro, mi pare questa la parola segreta.
Complimenti.
Dentro, appunto.
Il racconto è momento di sintesi di una storia, quanto sia vera o inventata rimane a margine, rispetto al bisogno della trama di raggiungere lo spazio di sospensione poetica.
Una nota in calce, che vale per tutti i commenti di cui vi ringrazio:
rispetto al desiderio del nonno di Spartaco di vederlo studiare, di realizzarsi lontano dal lavoro dei campi, ho iniziato a lavorare a 15 anni, senza nessun pentimento rispetto a quello che avrebbe potuto essere la mia vita se avessi studiato. Durante il servizio militare ho scoperto la letteratura, e il bisogno di scrivere lavorando con l’immaginazione a trasportare certe immagini della memoria sul piano del racconto. Reinventando il tutto.
Risposta a Cris.
Forse non ci sono riuscito, ma non era mia intenzione dare una sensazione di nostalgia. Il rimpianto non è nella mia formazione mentale, tuttavia questa domanda me la pongo, almeno quando scrivo dei racconti: che cosa siamo di fronte al passato? Forse qualcosa di concreto, ma anche la somma di sensazioni, odori, immagini ritraducibili in una situazione di passaggio che ci ha fatto crescere.
@ Australi: che cosa siamo di fronte al passato? Concreti sono gli odori, le sensazioni e le immagini – intraducibili? con tutta la ricerca sulle formazioni simboliche da Cassirer in poi? – ma riflesso è il rapporto col passato, e nostalgia e analisi sono due vie, anche comuni, ma da distinguere nella loro capacità differenziante.