Riordinadiario (1980 – 2010)
di Ennio Abate
1980
Taccuino di un militante. (Leggendo).
Sono passato dalla lettura de L’idiota della famiglia di Sartre a questi saggi di Tronti Soggetti crisi potere (Cappelli editore, 1980). Anche se ora sono fuori da ogni partito politico, continuo ad insistere in studi che con politica hanno a che fare. So che c’è uno squilibrio nelle mie ricerche, perché mi muovo tra saggi letterari che trattano soprattutto di esperienza vissuta e soggettiva e testi collegati al marxismo che, malgrado in crisi, sento come un sapere scientifico, più oggettivo. Continuo a frequentare entrambi i campi, anche se spesso si affaccia il pensiero di scegliere: o l’uno o l’altro. Non trovo tra di essi una qualsiasi sintesi; e mi vedo già condannato a letture indefinite e logoranti e a spostarmi dall’uno all’altro campo sotto la spinta di umori passeggeri o degli avvenimenti esterni. Una condizione da “anfibio intellettuale”? In parte me la spiego con la mia contorta storia personale (interruzione studi, immigrazione a Milano, vita in periferia). E capisco meglio adesso che il mio precedente percorso maturato al Sud (letterario, artistico) non muoveva verso il marxismo (tanto meno quello “scientifico”), al quale mi sono accostato qui al Nord in quella che considero comunque la mia seconda formazione (ripresa dell’università, scelta degli studi storici, militanza – affannosa, doveristica e un po’ scissa – in Avanguardia Operaia. Più che un incontro c’è stato uno scontro. Spartiacque la mia partecipazione al ’68-’69. Ora la lettura de “L’idiota della famiglia” di Sartre mi ha aiutato a comprendere di più il peso del mio passato “cattolico-esistenziale”. Non mi spinge, però, ad un ritorno pacificante o nostalgico ad esso. Né mi fa cancellare o svilire gli autori che fanno comunque riferimento a Marx. Le mie letture resteranno eclettiche, continuerò ad essere incerto o dubbioso nel giudicare certe opere di entrambi i campi, ma solo procedendo ad un raffronto molto più attento tra le mie due “formazioni”, spero di approdare a qualche risultato apprezzabile.
RIORDINADIARIO (1982)
Un appunto (per Immigratorio).
Sono venuto nella grande città
Essa vedrà il mio fallimento
Ho interrotto gli studi
Ho lasciato gli amici
Ho lasciato i luoghi a me noti e cari
Per fallire meglio
Mi sono spogliato
Anche dei miei libri.
Ma qui nella grande città
Faccio di tutto per ricostruirmi
Cerco una pensione
Un lavoro
Conosco gente
Sono in immigratorio
E segnalo al solo amico
Che mi ha salutato alla stazione
Il procedere della mia ricostruzione
Non mi è facile ricominciare daccapo
in una città che non conosco
Quello che ho imparato nel mio passato
Qui non serve
Nella folla che mi sfiora
Mi sento esposto.
Come fossi in una vetrina
Mi turbina attorno come se ballasse
M’interrompe ogni pensiero
Posso solo tacere
E sorridere benevolo
O sardonico per difendermi
Sobbalzo spesso
Non sono abituato ai rumori di questa città
Un passante per strada che mi guarda
Occupa a lungo i miei pensieri
Questa donna bella che mi ha sorriso
Diventa una calamita.
Il mio corpo e la mia mente non se ne staccano più
Ho ripreso a leggere
Appena ho avuto il primo stipendio
Ho riacquistato qualche libro
Dello scrittore che leggevo prima di partirmene.
Progetto di riprendere a studiare
Ma so di essere sceso nei sotterranei
Da qui l’arte è un miraggio
Suppongo che gli artisti stiano lavorando
Si consultino polemizzino progettino
Ma io non posso essere fra loro.
Non so quando potrò davvero incontrarmi con qualcuno di essi
E non farmi scambiare per un pezzente dell’arte
Uno tagliato fuori
Un barbaro balbuziente
Sento d’improvviso anche la voglia di lasciar perdere
Di farmi accettare soltanto da quelli che per caso ho incontrato arrivando qui
Quelli della latteria, della pensione, dell’ufficio
Il poliziotto che è il marito della più grande delle sorelle che la gestiscono
Il calabrese che fa il controllore sui treni
Il barista di piazza Bacone
Quello che è il bullo e l’amicone di tutti qui
L’altro calabrese occhialuto e timido che scrive racconti
L’aspirante cantante lirico che ha dormito nella stanza accanto alla mia nella pensione
L’impiegata bruttina e magra che dicono ci sta con tutti
Il mio collega d’ufficio che mi racconta di come si strofina sulle donne nei tram affollati.
Altre volte cerco di cogliere le occasioni di studio che mi si offrono
Mi iscrivo ad una scuola di disegno pubblicitario
In pensione cerco anche di scrivere e disegnare
RIORDINADIARIO [1989]
Una richiesta di sospensione
Alla preside
dell’ Itis Molinari di Milano
Al Consiglio di classe
della 5ta….
La richiesta di sospensione che ho avanzato per gli studenti…. nasce da un preciso episodio: un loro rientro in classe volutamente ritardato di oltre un quarto d’ora dopo l’intervallo; il mio rifiuto di farli rientrare a lezione ormai avviata; i loro schiamazzi in corridoio in attesa che l’episodio venisse riportato alla preside dal bidello. In precedenti occasioni sempre gli stessi studenti o avevano interrotto la mia lezione con interventi tesi a deviare dall’argomento trattato o si erano vantati di non aver letto i testi preventivamente assegnati in vista della lezione.
Gli episodi dimostrano la loro chiusura in un circolo vizioso: trasgrediscono in modo ostinato e cieco; di fronte ai miei avvertimenti, rimproveri o richiami, si scusano fin troppo prontamente; ripartono, dopo brevi periodi di tregua, con le medesime trasgressioni e negligenze.
La richiesta di punizione non è una mia “vendetta” né nasce da malumore; e neppure mira a un risarcimento per la mia “dignità” offesa. È una scelta educativa precisa e meditata. Serve a ribadire una regola: la comunicazione (intellettuale ed emotiva) fra individui partecipanti a una collettività (la classe) deve mirare ad accrescere lo scambio di idee e sentimenti più “veri” tra loro. E questo può avvenire da subito, malgrado la crisi della scuola e della società.
Aggiungo che: – darsi e rispettare tale regola è il modo più immediato e concreto per contrastare la crisi della scuola e della società ; – di tale regola ho più volte discusso con gli studenti prendendo spunto anche da comportamenti particolarmente qualunquisti, irrispettosi o rozzamente contestatori; – ho sempre difeso tale regola in modi elastici, senza risparmiarmi interventi ora amichevoli ora severi; e tenendo conto sia dei diversi punti di partenza di ciascun studente sia dei condizionamenti esterni alla scuola che spingono all’approssimazione e al cinismo.
Insisto sulla mia richiesta per altri due motivi: – questi studenti hanno l’autocritica facile e l’usano in modo strumentale e opportunistico per rabbonire l’insegnante ed evitare punizioni che ritengono più costose per loro; – alcuni di essi giustificano la propria negligenza o le interruzioni della lezione con il disinteresse per i contenuti del programma; eppure, anche quando ho accettato di trattare temi da loro considerati più attuali e non inclusi nel programma, il loro impegno di studio non c’è stato.
Non ho nessun timore di passare per insegnante “poco democratico” o “poco amico degli studenti”. Avendo già chiarito in passato che l’amicizia all’insegnante lo studente la può chiedere solo quando abbia superato la tentazione di ricattarlo in modi infantili e inconsci. Anzi, superata tale soglia, non c’ è neppure bisogno di chiederla o rivendicarla, perché sarà il seguito ovvio di uno scambio già fruttuoso di saperi ed esperienze tra studenti e insegnante.
2 maggio 1989 / 28 aprile 2018
RIORDINADIARIO (1994)
Autointervista
1.
Ti censurava il tempo della “rivoluzione”?
Ti censurava il passato salernitano?
Ti censuravi quando scrivevi?
O scrivevi per sfuggire alle censure?
Nello spazio della scrittura
esercitavo perplesso e speranzoso
operazioni non pagate.
Pensavo scrivendo.
Dubitavo.
2.
Su cosa dubitavi?
Sull’ideologia rimbombante.
Avevo smesso letture d’arte e letteratura.
Ricordo Francastel sull’arte del Rinascimento
e la scoperta della prospettiva.
Letto in un bar di piazza Durante.
Entravo ordinando un caffè
per stare qualche ora al caldo,
gravato dalla svolta matrimoniale
che aveva preso la mia vita a Milano.
Ora leggevo tutt’altro.
Leggevo i “piacentini”.
“Scuola, famiglia,
mezzi di comunicazione di massa
premono tutti insieme
perché lo studente veda la sua condizione
in termini di miglioramento individuale”.
[dal n. 41, 1970].
Leggevo
brani dalle opere di Marx, Lenin.
Ero agitato
dalle spinte all’agitazione .
3.
Cosa ti attirava delle nuove letture? E dell’ideologia?
Mi pareva di ripulirmi
dal vecchiume cattolico-salernitano.
E di riscattarmi dalle sconfitte
da una delusione d’amore
del mio primo immigratorio.
L’ideologia era linguaggio nuovo, adulto, per me.
Pareva chd mi distanziasse da preti e avvocatucci di SA
e potesse avvicinarmi ai dirigenti della sinistra
a cui ora mi ero mescolato.
(Non pensavo a quanta
ne avevo già assorbito nell’Azione Cattolica
o a scuola
e quanto la vecchia e la nuova si somigliassero).
4.
Quando, dove, come leggevi Marx?
Di notte, mentre lavoravo
operaio notturnista alla SIP.
Assorto a decifrare
le prime pagine dei GRUNDRISSE (Nuova Italia)
appena acquistati.
Sottolineavo.
” Ma l’epoca che genera questo modo di vedere
il modo di vedere dell’individuo isolato
è proprio l’epoca dei rapporti sociali …finora più sviluppati.
L’uomo.. un animale sociale …
che solamente nella società può isolarsi” [pag 5].
Cercavo di chiarirmi quei concetti.
Che significava per me?
Cogliere ciò che è unitario nei fenomeni
che appaiono disparati e diversi, parafrasavo.
E mettevo lì sulla carta il mio appunto d’autodidatta.
Poi al mattino, finito il turno,
sul motom alla Statale.
Posteggiavo e assonnato
seguivo
una lezione di Cantoni [filosofia morale].
In un mondo separato.
belle studentesse e ben vestiti studenti
frullavano nell’atrio, dove entravo
goffo contadino spaesato
come fu mio padre.
RIORDINADIARIO (2005)
Miei scritti e pubblicazione
Il passaggio per molti oggi quasi ovvio fra scrivere dei testi e pubblicarli in varie forme (su riviste, presso editori, con edizioni a pagamento, ecc.) nel mio caso è stato particolarmente inceppato. Meglio ricordarne le cause, gli effetti negativi ma, per alcuni aspetti, anche paradossalmente positivi.
Una prima produzione giovanile agli inizi degli anni Sessanta (Appunti, poesie ‘60-’62) è andata perduta o è rimasta bloccata nel cassetto a causa della svolta avvenuta nella mia vita con il trasferimento a Milano e i prolungati problemi di “assestamento” derivati dal passaggio, brutale e improvvisato, da una condizione di studente in una città di provincia (mantenuto comunque agli studi dalla famiglia) alla condizione a lungo precaria di immigrato a Milano: prima impiegato, poi disoccupato, poi lavoratore-studente e, solo alla fine, insegnante).
Alla cesura pratica, dovuta all’esigenza di fronteggiare problemi materiali e esistenziali di sopravvivenza (pagarmi vitto e alloggio, matrimonio, figli) che mi hanno portato a deviazioni nell’indirizzo degli studi e ad un loro completamento in ritardo, si è sovrapposta una censura-autocensura legata alla militanza politica («rifiuto della letteratura», abbandono della ricerca artistica appena avviata con il diploma al liceo artistico a Brera).
La pratica di scrivere è sopravvissuta, ma in forma di un sotterraneo *diario di appunti*, che ha accompagnato l’impegno professionale (insegnante) e politico (militanza in Avanguardia Operaia); e ha trovato pochissime occasioni per confluire nel discorso pubblico del tempo. Gli anni Settanta (all’incirca fino al ‘77-‘78) sono stati anni soprattutto di intense, voraci e circoscritte letture, ma in ambiti strettamente legati all’insegnamento (italiano e storia in ITIS) e alla politica dei gruppi extraparlamentari ( loro riviste e giornali, storia del m.o., teoria marxista).
Una ripresa della scrittura in forma poetica e narrativa – sempre a partire da una base di riflessione diaristica– e quasi contemporaneamente della grafica e della pittura c’è stata in coincidenza ( più o meno simbolica?) di due eventi: l’abbandono della militanza politica in AO e la scoperta inaspettata di una imminente cecità (fermata con due interventi chirurgici per distacco di retina).
È stata una ripresa in solitaria. Nessun legame avevo intessuto per lunghi anni (dagli inizi dei Sessanta alla fine dei Settanta) con scrittori o artisti. I primi interlocutori cercati attorno al ’77 furono Fortini e Majorino, non casualmente legati alla *nuova sinistra* :e quindi ritenuti da me prossimi all’esperienza politica che mi aveva così assorbito. E più che mirare a pubblicare le vecchie poesie ‘60-’62 o quelle che avevo stralciato dal *diario/appunti* (accresciutosi dal 1977 e mantenutosi intenso da allora), ho puntato a sentire i pareri di pochi amici, a fare qualche occasionale autoedizione (*Samizdat Colognom* del 1982, *Salernitudine/Immigratorio/Samizdat* ( prima prova per la mostra al Ponte delle gabelle di Milano del 1989 e poi per il concorso Laura Nobile di Siena del 1991).
Non ho però potuto discutere quasi con nessuno i problemi di scrittura che mi ponevo; né l’oscillazione fra *narratorio* e *poeterie* e fra scrittura e grafica. Negli anni successivi ho operato delle selezioni dalle mie scritture a base diaristica, intitolandole variamente, ma sempre all’incirca replicando o aggiustando il titolo emblematico *Salernitudine/Immigratorio/Samizdat*e in vista di un’eventuale pubblicazione mediata dai due interlocutori a cui mi affidavo (Fortini e poi Luperini).
Intenso – forse anche a causa delle mancate pubblicazioni – è stato invece il lavorio sul materiale che andavo accumulando. Ho riletto varie volte pezzi del *diario/appunti* e fatto episodici tentativi di ripulitura (*Riordinadiario*). Ho fatto anche varie stesure – stavolta per sezioni “omogenee” – delle poesie (Salernitudine, Immigratorio, Prof Samizdat, Donne seni petrosi), dandole in lettura a conoscenti e qualche volta partecipando a qualche concorso; e arrivando alla pubblicazione nel 2003 di *Salernitudine*, complice il ripreso rapporto con Erminia Passannanti (conosciuta al Premio Laura Nobile del 1991) e il richiamo (per me ”mitologico”) alla città di SA, da cui m’ero staccato.
Negli anni il problema della pubblicazione è divenuto oggetto di riflessione anche teorica. Non lo vivo in termini individualistici. E tuttora della scrittura tendo a privilegiare l’aspetto “politico”; e dunque quella destinata a *fare rivista*. Resta per me da approfondire il legame (da mantenere? da sciogliere?) tra narrare e poetare, tra contornare il testo poetico con tutto un contesto narrativo e riflessivo il più ampio e completo possibile (come ho fatto quest’estate sulle tre sezioni quasi canoniche, “allargandole”con appunti di diario, narratorii per analogia; e – potrei pensare – anche disegni, come feci nella versione che presentai a Fortini attorno al 1986); oppure rivedere quel contesto per “spremerlo” e filtrarlo in una forma poetica più ellittica.
La soluzione dell’”allargamento” rischia di essere dispersiva. Forse può essere una fase provvisoria della ricerca poiché, accostando testi di vario genere e prodotti in date diverse, mi rendo conto di legami tra loro rimasti impliciti al momento della immediata stesura. La cosa più Importante per me è stato però provare quanto sia fecondo lavorare con maggiore libertà su testi miei persino dimenticati; e aggiustarne di continuo la forma con la quale all’inizio avevo presentato innanzitutto a me stesso ricordi o fantasmi o nodi di scrittura.
RIORDINADIARIO. COLOGNOM [2010]
*Ho ritrovato questo mio scritto del 3 maggio 2010. Lo rimetto in circolazione in vista di future elezioni. E’ datato, Ha un sapore locale. Ma la sostanza politica (e satirica) regge. [E. A.]
Io, candidato invisibile della Lista Invisibile di Cologno invisibile
Buongiorno, ringrazio dell’occasione, mi presento. Sono Carletto Marx. Di professione rivoluzionario. Scrittore di vari libri, tra cui Das Kapital (Il Capitale). Sconfitto (per ora) e pensionato, butto giù poesie, qualche libro di storia (del comunismo) e, a volte, un commento su Cologno News.
Mia moglie – colognese doc, ma non della Lega – mi ha sconsigliato di candidarmi: – Come! Tu che predicavi la dittatura del proletariato, ti metti in lista con quelli che hanno imposto la dittatura dei palazzinari e dell’ignoranza? Che figura ci fai. E poi chi ti vuole!
Ma io, testardo: – Vabbè, da vecchio la rivoluzione non posso farla. Ma i palazzinari di Cologno li contrasterò.
E così ho cercato la lista giusta per me.
Col centro destra non ho neppure provato: per loro la proprietà privata è sacra e io un Demonio.
Ho bussato dal PD. E Cocciro mi fa: Mi spiace. Soldano e Bersani hanno messo il tuo Das Kapital nell’indice dei libri proibiti ai nostri elettori!
Ho tentato con Rifondazione Comunista. Angelico mi ha detto che i candidati li sceglie la segreteria del Partito e che io non ero un iscritto.
Sono andato da Adamo dei Comunisti italiani. Niet: non ero italiano. Neppure quelli di CSD – politici fini, seri, onesti, col cuore in mano (e non con “Cologno nel cuore” come il loro ex, Di Bari) – mi hanno accettato: – Scusaci. Ti abbiamo letto da giovani, ma non è più il ’68! Spaventeresti l’elettorato cattolico. Stattene in soffitta e lasciaci lavorare.
Sono tornato mogio a casa. E mia moglie: Ah, voi intellettuali! Il sindaco– di destra, di centro o di sinistra – dovrà essere un piccolo, volenteroso funzionario di Das Kapital. Dovevi saperlo, tu che hai scritto quel libraccio!
– E allora che faccio?
– Fai il candidato invisibile! – ha risposto lei tosta.
E così eccomi a voi.
Allego la mia foto.
Questa è la mia lista: LDI, Lista Degli Invisibili. (Ovviamente non si vede).
Il suo programma? Il suo progetto per Cologno? Mostrare la Cologno invisibile, che i politici non vedono o nascondono, straparlando di “governo della città”, di “onestà”, di “nuovo”.
Cologno invisibile? Eh, sì! Eppure c’è. Eppur si muove. Invisibilmente.
Ciao
Carletto Marx
Tra narrare e poetare, l’importante è comunicare e confrontarsi.
Non credo poi a questa cosa della sconfitta e del fallimento che tu caro Ennio, e tanti altri, spesso tirate fuori. Io non mi sento perdente, eppure, sebbene al contrario, ho un’esperienza come la tua in fatto di immigrazione-emigrazione. Avverto che abbiamo in comune tante cose, e queste non hanno portato a un insuccesso. Siamo cambiati noi, abbiamo arricchito tanta altra gente. La rivoluzione, poi, l’abbiamo mancata. Meglio così, allora eravamo troppo primitivi, e guarda che fine hanno fatto molti dei nostri dirigenti. Mica si sono ritirati a studiare e a elaborare, no, sono diventati più che moderati: Renziani! Con questo personale politico avremmo combinato, come ho già scritto, dei disastri.
Invece noialtri, ripeto: non piegati, siamo qui ancora a cercare di cambiare lo stato di cose presenti.
Fossimo solo in due, io ti leggo. E poi ne parlo con altri. Continuiamo a combattere.
Ciao, Luca.
Secondo me, la fai troppo facile. Il problema oggi ancor più irrisolto (malgrado l’eccesso di strumenti disponibili in teoria: Web, etc.) a me pare proprio il «comunicare e confrontarsi». Tanto che è più difficile che in passato anche «narrare e poetare» – forme antichissime e efficaci da secoli di trasmissione di sentimenti e pensieri. La faccenda si è fatta estremamente complicata.
Tu dici che non c’entra la «sconfitta», che è una mia pensata? A me, invece, pare proprio che quella precisa, storica, sconfitta che abbiamo subìto – noi in particolare che «sognavamo cavalli selvaggi» (non è una citazione sfottò!) – sia la *ragione* della persistente e accresciuta difficoltà di «comunicare e confrontarsi» in vista di un «che fare». Che allora – prima della sconfitta – ci pareva possibile, tanto che eravamo passati ad organizzarci e ad organizzare persino gli altri.
Provaci adesso.
Non si tratta di “sentirsi perdenti”. O di non riuscire più a vedere che, almeno come generazioni che hanno visto, pensato e fatto in determinati anni (i Settanta) , «abbiamo in comune tante cose» ancora adesso. O negare che «abbiamo arricchito tanta altra gente» (che, a sua volta, ci ha arricchito).
Ma aver mancato “la rivoluzione” non è una cosa che non si paga, un «insuccesso» di poco conto. ( E,quando dico “rivoluzione” non intendo solo quella che abbiamo pensato o sognato “noi” in modi «troppo primitivi» attorno al ’68-’69, ma soprattutto quelle scaturite dal 1917 in varie parti del mondo).
Con quel «personale politico» ( dirigenti e quadri e mettiamoci anche la base operaia) avremmo combinato soltanto «dei disastri»? Ma i disastri sono già *realmente* avvenuti; e sono proprio quelli che ci hanno diviso in molti «più che moderati» e in pochi “irriducibili”. Impongono anche a noi – due o dieci o cento – che ancora «continuiamo a combattere» di chiederci necessariamente: per cosa? con chi? con che presa sulla “realtà”?
Ma aver mancato “la rivoluzione” non è una cosa che non si paga, un «insuccesso» di poco conto. (E,quando dico “rivoluzione” non intendo solo quella che abbiamo pensato o sognato “noi” in modi «troppo primitivi» attorno al ’68-’69, ma soprattutto quelle scaturite dal 1917 in varie parti del mondo).
Forse quindi anche quelle del 1870, del 1848, del 1793, 1689, 1642…?
Sul tema segnalo un recente incontro tra Maurizio Ferraris e Alain Badiou su evento e effettualità. Per Ferraris il comunismo è, in parte, avvenuto; per Badiou il comunismo non è un “evento” -eventi sono infatti anche le rivoluzioni effettivamente accadute pur se fallite- ma è una teoria, una visione, l’evento crea una possibilità per chi vorrà riferirvisi.
Due idee filosofiche sul rapporto tra pensiero e mondo sociale: tutto ciò che poteva essere è stato, per Ferraris; il possibile del pensiero ha una sua forma di esistenza autonoma, per Badiou.
Ma c’è anche una terza idea: la storia come apparenza di una sottostante trama da individuare. Il messianismo, l’apocalisse, la strategia, la fantascienza la interpretano.
AGGIUNTA
Capita a pallino ( e del resto l’autore è a noi molto vicino) questa recensione di Claudio Cereda a un libro di Giovanni Cominelli sul 68:
http://www.ceredaclaudio.it/wp/2018/05/che-fine-ha-fatto-il-68-recensione-di-claudio-cereda/
Mio commento provvisorio: Della serie *a ciascuno il suo (’68)*. Quando si vede che il taglio autobiografico nel narrare quell’anno e quelle vicende tanto politiche finisce per intimizzarle, abbellirle, liquidarle.
AGGIUNTA 2
Per capire come la vedono i giovani d’oggi ( o i più giovani di noi):
http://www.doppiozero.com/materiali/la-tirannica-liberazione
Mio commento:
Ennio Abate
“Si tratta forse, però, di fare i conti con quello che la nostalgia del ’68 ci ha lasciato come eredità tossica, ovvero il nostro continuo dissociarci, in nome della decostruzione e dell’intransigenza, dai luoghi di effettiva elaborazione dell’azione politica e culturale. E portare forse finalmente lì, nei luoghi della costruzione, nelle articolazioni del sistema – che non è il migliore possibile, ma l’unico entro il quale si possa agire – l’efficacia del pensiero radicale, sganciato dal ribellismo e dall’attesa messianica – che si risolve in inconcludenza – della rivoluzione. Forse il nostro ’68 è questo: liberarci dal modello tirannico della liberazione assoluta, smettere di percepirci come arrivati dopo, e costruire una critica del presente che sia a immagine della nostra fantasia. ”
Le timidezze verso il “Tirannico ’68” non fanno che produrre un “nostro ’68”, che in effetti è la continuazione inconsapevole ( perché nell’articolo si resta nelle maglie dello psicologismo generazionale) di una delle idee del ’68: ” la lunga marcia nelle istituzioni” (alla Dutschke, alla Capanna).
Non mi pare che si esca dal dilemma rivoluzione/riformismo al di là della formulazione un po’ caricaturale che si dà dei due modelli: “I reduci ci mostravano la loro irriducibilità come un trofeo castrante: dovreste fare come abbiamo fatto noi, ma non riuscirete mai a fare come noi. Dall’altro lato c’era chi ci diceva invece che il ’68 non era poi stato un gran che, e anzi era stato l’inizio della fine, la consacrazione dell’individualismo edonista, il motore di uno sfrenamento del desiderio che aveva aperto la strada al consumismo e al trionfo delle ideologie liberiste.”
…paragono la storia di una vita raccontata da Ennio Abate in questo “Riordinario 1” ad una lunga tessitura, con diversi strappi per poter includere nella tela quanto nella sua formazione era stato escluso: la letteratura e l’arte necessitavano di nuovi studi, ma anche nuove esperienze, di mescolare quell’io “protetto” e “castigato” a un noi reale, ricco e vitale. Ma poi ci furono anche le ricuciture, con l’arte pittorica, la poesia, ma da una prospettiva diversa, includente…Perciò diventa una tela-storia illustrata, di cui, forse l’utimo quadro, quello dell’uomo invisibile, ma non senza voce e colori, è il collante e la spegazione: io-noi-tu ricompongono una storia, che viol essere personale e collettiva…Riguardo al ’68, penso che noi giovani allora avevamo molti valori e pochi strumenti e fummo sopraffatti da chi, astutamente, non avava valori, ma molti strumenti di potere…La sconfitta più grave fu la perdita della pratica diffusa del dialogo, della condivisione…
* Sempre a proposito di *sconfitta*:
RIUSCISSIMO NOI A PENSARE (ALMENO UN DECIMO) LA *NOSTRA SCONFITTA* DEGLI ANNI ’70 COME FECE MARX CON QUELLA DELLA SUA EPOCA!
Stralcio:
Marx si dedica dapprima alla riflessione sulla sconfitta del movimento rivoluzionario, in articoli poi raccolti (1850) in volume con il titolo Lotte di classe in Francia 1848-1850 e Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte (1852). Marx si è reso conto che le rivoluzioni del 1848-49 segnavano le doglie del parto di una società borghese, non la sua crisi finale; e che la classe operaia andava incontro a una lunga fase di formazione sociale, che avrebbe imposto ai comunisti un paziente lavoro di organizzazione politica e approfondimento teorico. Gli anni ’50 e ’60 sono dedicati principalmente alla ricerca teorica, nel mezzo di una condizione personale di grande povertà a cui fa fronte con lavori di ogni genere: l’aiuto principale gli viene da Engels. Di particolare rilievo, però, gli articoli per la New York Daily Tribune. Il primo frutto maturo sono nel 1857-58 i Grundrisse, i Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, appunti scritti nella sua grafia pressoché incomprensibile, che di nuovo vedranno la luce quasi un secolo dopo. Marx si decide a buttar giù il primo abbozzo di sistema, a partire dagli studi di economia politica ripresi alla British Library dal 1850, in coincidenza con quella che è forse la prima grande crisi del capitalismo, che egli ritiene allora possa condurre ad un crollo.
Ai Grundrisse segue immediatamente la stampa, nel 1859, di Per la critica dell’economia politica, dedicato all’analisi di merce e denaro. Tra i primi anni ’60 e il 1867 Marx approfondisce il confronto con l’economia politica classica: in questi anni redige i Manoscritti economici 1861-63 e butta giù il manoscritto pressoché completo del Capitale (di questo ci restano solo i Risultati del processo immediato di produzione, detto anche il Capitolo sesto inedito). Egli stesso curerà la pubblicazione del primo libro nel 1867, della sua seconda edizione nel 1873, e dell’edizione francese tra il 1872 e il 1875. Engels appronterà la terza (1883) e quarta (1890) edizione, poi darà ordine ai manoscritti inediti di Marx pubblicando il libro secondo (1885) e terzo (1894). I manoscritti originali vedranno la luce molto più tardi. Le Teorie sul plusvalore edite da Kautsky nel primo decennio del Novecento e, in una seconda versione, dall’Istituto Marx-Engels negli anni ’50, erano solo una parte dei Manoscritti 1861-63. I Manoscritti economico-filosofici furono pubblicati in URSS negli anni ’30, come il Capitolo sesto inedito e i Grundrisse. La diffusione in Occidente fu successiva: i manoscritti parigini furono i primi a influenzare la ricezione di Marx, negli anni ’40 e ’50; i Grundrisse e il Capitolo sesto inedito divennero importanti dalla fine degli anni Sessanta. I Manoscritti del 1861-63 vennero tradotti (parzialmente in italiano, integralmente in inglese) negli anni ’70 e ’80. I manoscritti del secondo e terzo libro del Capitale hanno dovuto attendere sino a pochi anni fa per essere pubblicati nell’originale tedesco all’interno della MEGA2, e sono inediti in italiano. In larga misura, solo ora che l’edizione storico-critica integrale dei lavori di Marx è ultimata per la seconda sezione ‘economica’, e in via di conclusione per le altre sezioni, possiamo accedere senza mediazioni al pensiero di Marx.
http://www.palermo-grad.com/ma-il-suo-lavoro-egrave-vivo.html
DA UNO SCAMBIO SULLA PAGINA DI “VIA VETERE AL 3”:
x
ma se siamo stati sconfitti è dovuti a br nar.etcetc….e sappiamo che c’era dietro questi farabutti
Ennio Abate
Ammesso solo in teoria ( e non concesso) che tutti i lottarmartisti fossero “farabutti” dietro cui c’erano ecc. ecc., resta il fatto che “noi” (intendendo la nuova sinistra d’allora) non fummo capaci di *egemonia* . Persino nel partito bolscevico ai più alti livello c’erano infiltrati ( o “farabutti”) ma i “non farabutti” riuscirono a contenere i danni e ad andare fino in fondo (almeno nel 1917).
Ennio Abate
AGGIUNTA (SEMPRE A PROPOSITO DI “SCONFITTA*)
Stralcio:
Il lavoro può così, per Trevisan, farsi parte della vita (“Come se le due cose si potessero scindere! Intendo il lavoro e la vita. Chissà, forse per qualcuno sarà anche così. Di certo non è stato così per me.”), appassionare (“In quel lavoro così teso, pieno di trabocchetti, in cui non bisognava mai abbassare un momento la guardia, c’era anche qualcosa di entusiasmante”), avere un valore esperienziale; il lavoro ripetitivo può avere, come sosteneva Diderot agli albori della rivoluzione industriale, lo stesso potenziale creativo che è inscritto nel gesto del musicista che deve passare per la ripetizione per arrivare alla padronanza.
Il lavoro può ancora essere un luogo in cui è possibile creare legami secondo una qualche forma di solidarietà (“Eppure, a quel tavolo notturno, in qualche modo, eravamo «noi»”) e comprensione: nei soprannomi usati per indicare i colleghi brilla sempre un’ironia bonaria che al di là della formula lascia intravvedere la persona, con le sue debolezze e le sue idiosincrasie — così, per esempio, per l’architetto un po’ narciso chiamato semplicemente “Lui”; così per il collega un po’ insofferente e indisciplinato soprannominato “il Riottoso”. Ancora, per Trevisan il lavoro permette di pensare la vita come una traiettoria dotata di una qualche forma, per quanto sgangherata, di coerenza: “Pensando alla mia storia lavorativa nel suo complesso, potrei ben dire che di altro non si sia trattato se non di una lunga successione di false partenze, di strade imboccate senza sapere bene perché, e tutte presto o tardi lasciate. Ciò nonostante, almeno da un certo punto in poi, una sorta di progressione, più che una vera e propria carriera, cominciò a configurarsi. Non una parabola. Nemmeno un arco. Niente linee curve nella mia vita, ma una spezzata, i cui segmenti si tengono a quel titolo di studio che non avrei mai voluto conseguire […]” .
Nel romanzo di Falco tutti questi orizzonti sono irrimediabilmente perduti. Il lavoro è, per definizione, un mondo a parte, tempo rubato alla vita e che ad essa si contrappone (“Ecco il motivo per cui ripetevamo e ripetiamo mondo del lavoro, diamo per scontato che sia un mondo a parte, dove ogni crudeltà è possibile proprio perché è lavoro”; “l’insofferenza di restare già chiuso […] dentro l’ufficio di collocamento, quando fuori c’era una giornata da vivere”), che non può suscitare interesse (“non mi interessava la carriera, nessun tipo di carriera”) perché non può mai farsi portatore di senso; il lavoro ripetitivo per Falco, come per Adam Smith, non può che ottundere e istupidire l’individuo.
( da http://www.leparoleelecose.it/?p=32209#more-32209)