I primi 11 appunti di lettura sul libro di Claudio Pavone sono stati pubblicati in appendice all’articolo di Giorgio Mannacio, Il 25 aprile nella mia memoria (qui). [E. A.]
APPUNTO DI LETTURA 12
* IL PROBLEMA DEL TRADIMENTO DAL PUNTO DI VISTA DEI FASCISTI
Ma chi e che cosa, per i combattenti fascisti non doveva essere tradito? Si potrebbe rispondere, con formula sintetica, soprattutto un passato rispetto al quale ci si sapeva porre soltanto in un rapporto di meccanica continuità. Era un passato in parte vissuto davvero di persona; in parte solo immaginato, come sembra doversi dire nel caso dei giovanissimi che si arruolarono per la prima volta, spesso invocando la fedeltà al padre «italiano e fascista», e all’Italia «quale voi vecchi combattenti ci avete affidato, per mantenere il suo prestigio e il suo onore».[…] Innanzi tutto, non devono, secondo i fascisti, essere traditi i tedeschi, «ai quali ci lega un patto, una guerra combattuta insieme. E ciò per lealtà e senso d’onore, al di là di ogni sentimentalismo e al di là di ogni interesse pratico». […] Non debbono […] essere traditi i caduti in guerra [e] questa esigenza assume talvolta la veste di un desiderio di vendetta fisica e ravvicinata. «Non posso andare, – si legge in una lettera, – con chi mi ha ucciso un fratello che debbo assolutamente vendicare». […] Altre volte i fascisti sembrano dare di testa contro un muro, sgomenti e furiosi di fronte a quella che appare un «guerra combattuta inutilmente (…), guerra dei pochi, tradita dai molti [e che pure] è la mia vita». Anche fra i combattenti fascisti serpeggia in effetti la sensazione di essere vittime di un inganno profondo e oscuro, di cui il nefasto 8 settembre rappresenta solo una parziale emersione. Essi vedono il traditore non già nel fascismo ma in chi ha tradito il fascismo, peggio ancora se fascista e, come tale, imperdonabile: « Le idee tradite non possono riprendere a braccetto i traditori». Questi fascisti pensano che la Repubblica sociale [ o di Salò] sia l’ultima occasione di ritrovare la purezza offesa dal fascismo del ventennio.
(Claudio Pavone, «Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza», pag. 58- 61)
APPUNTO DI LETTURA 13
* IL DILEMMA DEGLI OPPOSITORI: SI PUÓ VOLERE LA GUERRA CONTRO L’ITALIA PER ABBATTERE IL FASCISMO?
Il «partito dello straniero» non ha mai goduto di buona fama specie quando il paese è in guerra. Fra i compiti più ardui dell’antifascismo vi fu proprio quello di scrollarsi di dosso l’ombra di questo giudizio infamante, in base al quale sono da considerarsi trditori tutti coloro che legano l’affermazione dei propri princìpi alla sconfitta del proprio paese. […] Questa era la situazione cui il fascismo costrinse molti italiani quando, il 10 giugno 1940, dichiarò guerra alla Francia e alla Gran Bretagna. Questa era la situazione che già nel novembre del 1941 indusse un gruppo di giovani a scrivere: «Noi siamo ridotti […] a disperare dell’Italia e degli Italiani, a pensare agli aiuti esterni come a quelli che soli possono liberarci dalla tirannia». […] Meritano senza dubbio attenzione affermazioni, pronunciate in momenti diversi, come quella dello studente Artom: «L’interesse dell’Italia è di restare sconfitta»; o l’altra, colta in un’osteria: «È meglio che si perda la guerra, così ci si potrà liberare dal fascismo»; o ancora quella di un intellettuale, come Pietro Chiodi: «Chi non è libero non ha Patria, chi non ha Patria non ha doveri militari». […] Sono sufficientemente note le posizioni prese dalle varie correnti antifasciste di fronte la precipitare dell’Europa verso la guerra. Lo stesso dicasi per la prima fase di essa, la più tormentata da un punto di vista ideologico, fino a che l’aggressione all’URSS parve semplificare la scena. Il travaglio dell’antifascismo va inquadrato nella difficile riconversione delle sinistre europee dal pacifismo, sentito quasi come un impegno d’onore dopo la catastrofe del 1914, alla piena assunzione come propria della guerra contro la Germania nazista e l’Italia fascista. […] Per gli antifascisti italiani, che parlavano a nome di un popolo che il fascismo lo aveva già al potere, il problema si era presentato in modo particolarmente drammatico. È merito di Carlo Rosselli averlo impostato con precoce lucidità, subito dopo l’avvento di Hitler al potere, nel suo celebre articolo *La guerra che torna*. «La lotta tra fascismo e antifascismo – egli scrisse – si avvia al giudizio di Dio. (…) Mussolini può lanciare fin d’ora il suo anatema contro i traditori della patria fascista».
Indicativa delle difficoltà di un movimento di antiche tradizioni pacifiste a seguire il leader di GL [ Rosselli era di Giustizia e Libertà] su una strada ritenuta troppo spregiudicata fu la risposta di Nenni. Fedele alla posizione da lui assunta nel lungio del 1930, al congresso dell’unità socialista, contro l’ipotesi della guerra come mezzo per abbattere il fascismo, Nenni scrisse che una guerra preventiva antifascista avrebbe assunto il carattere di «intervento imperialista, dettato da considerazioni imperialiste», quando invece «il dovere rivoluzionario è di dire no alla guerra, di negarla comunque essa si presenti, sotto il manto di guerra rivoluzionaria o di guerra della libertà». In queste parole c’era certo la passione antiguerrafondaia di un ex interventista, quale Nenni era stato, e che lo indusse a scrivere, nell’articolo appena citato, che « sono tutte le illusioni, sono tutti gli errori del 1914- 15 che ritornano». […] In campo socialista, comunque, rimase sempre chi – da Silone a Basso – puntò con particolare convinzione sull’autonomia dell’antifascismo di stampo, appunto, socialista, rispetto alla politica delle grandi potenze, URSS inclusa. […] [E] un giovane socialista dell’interno, Eugenio Curiel, aveva saputo, alla vigilia della guerra, individuare con chiarezza il nodo da sciogliere. Parlando a nome «dei compgni milanesi e degli altri» Curiel si era pronunciato a favore della costituzione, in Francia, di una legione italiana che «deve rappresentare il popolo italiano in questa prossima guerra». Con pari nettezza Curiel aveva affermato: «Noi non vogliamo che il governo del domani sia il governo della sconfitta, il governo di Weimar, e aveva perciò sostenuto che occorreva avere il coraggio di assumersi, all’interno, il ruolo di disfattisti, anche se «domani un pugno di mascalzoni, pagati da qualche residuo fascista, potrà urlare contro di noi le vecchie ingiurie». In queste parole si può leggere l’invito di un esponente delle nuove generazioni antifasciste a un rappresentate della vecchia guardia a far tesoro dell’esperienza del primo dopoguerra senza lasciarsene paralizzare, assumendo anzi con orgoglio quell’epiteto di disfattista che ancora turbava molti anziani, e legittimandolo con la partecipazione alla guerra dalla parte giusta.
(Claudio Pavone, «Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza», pag. 61- 68)
APPUNTO DI LETTURA 14
*L’ATTEGGIAMENTO DEI CATTOLICI SULLA GUERRA
Nel grande dibattito sulla guerra e la pace potrebbe dirsi che l’evoluzione dell’atteggiamento cattolico segua, nelle grandi linee, un andamento opposto a quello delle forze laiche antifasciste. […][Per] i cattolici, compromessi dal filo fascismo […]porre il problema della guerra e della pace significò un inizio di ripensamento dei propri rapporti con il fascismo. […] Solo piccole minoranze di cattolici, fra le quali emerge la figura di don Primo Mazzolari, parroco di Bozzolo [in provincia di Mantova], seppero condurre con radicale energia il discorso fino al nodo del rapporto tra violenza bellica e il quinto comandamento. […] Mazzolari risponde a un giovane aviatore che gli aveva esposto la sua crisi di coscienza di fronte al compito, cui era chiamato, di uccidere e di farsi uccidere e che aveva criticato il silenzio e l’ambiguità della Chiesa. […]Morire e uccidere inutilmente non era altrettanto angoscioso che morire e uccidere ingiustamente? Mazzolari non dava una risposta, ma osservava che la Chiesa aveva condannato la guerra in genere, non *questa* guerra. E, […] ricorrendo anche ad una citazione di Remarque [l’autore di « Niente di nuovo sul fronte occidentale» (Im Westen nichts Neues)] – «ditemi almeno *perché* debbo uccidere», ricordava con crudezza che la guerra consiste anche nell’uccidere. [E] faceva sorgere ancora un interrogativo forse insolubile: quello se sia preferibile uccidere a freddo. «Il soldato che muore senza sapere perché muore porta al colmo il regno dei servi», concludeva. […].
Di tutt’altra ispirazione fu il riaffiorare di quel filone dell’apologetica cattolica che, da de Maistre in poi, aveva additato la guerra come castigo che Dio manda agli uomini a causa dei loro peccati. La spaventosa dimensione del castigo in corso non poteva che essere proporzionata al massimo dei peccati, la scristianizzazione della società. La guerra perdeva così, da qualsiasi angolo visuale ci si ponesse, il suo carattere di parte e diventava un flagello inviato indistintamente a tutti gli uomini.
(Claudio Pavone, «Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza», pag. 75- 77)
APPUNTO DI LETTURA 15
* ITALIANI IN RUSSIA E NEI BALCANI
Due incontri lasciarono tracce, sebbene in misura molto diversa, fra gli italiani inviati a occupare le terre di Russia e dei Balcani. La scarsa cognizione dello sterminio che i tedeschi avevano iniziato degli ebrei è fenomeno, com’è noto, che non riguarda soltanto i soldati italiani. Non vedere neanche là dove le cose erano ben visibili e non raccontare quel tanto o poco che si era visto rende le testimonianze al riguardo molto scarse. Gli ebrei che lavoravano lungo la ferrovia, ha raccontato un reduce dalla russia e superstite dei Lager, «li ho visti magri, sfiniti, sotto la minaccia continua dei tedeschi. È da lì che ho cominciato a capire cos’erano i tedeschi», anche perché gli spiegano che le fosse lì accanto erano state fatte scavare, per i propri cadaveri, dagli ebrei stessi. Un cappellano entusiasta della crociata antibolscevica, quando ascolta il racconto tranquillo che un ufficiale tedesco fa del massacro degli ebrei di Kiev, dice: «Comincio a credere anch’io che questa guerra non potrà essere vinta». L’impatto con i partigiani, dai quali bisognava guardarsi, era più difficilmente evitabile. Revelli [lo scrittore Nuto Revelli, autore di «Pietà l’è morta», la canzone partigiana e di «La ritirata italiana in Russia», «La guerra dei poveri», «La strada del Davai»] ne incontra a Vorošilograd una ventina, prigionieri, in abiti civili, che vanno alla fucilazione a testa alta: «Non eravamo che straccioni con arie e pretese da signori. Guardai quei partigiani con grande ammirazione. Mi sentii umiliato». Un altro italiano, che li chiama «banditi partigiani russi», è stupito della presenza di donne fra i combattenti: «L’ tre signorine che pilotavano il carro armato mi hanno disarmato».
Dall’urto contro la guerra partigiana potevano nascere turbamenti di coscienza, assuefazione a vedere e praticare passivamente la violenza, educazione alla ferocia repressiva. «Tenente, se fosse stato un ribelle non ve la sareste presa così rispose un soldato all’ufficiale che lo aveva rimproverato di aver ucciso un daino. Eppure questo tenente Falco Marin, che cadrà in Slovenia nel luglio 1943, era uomo sensibile e riflessivo. Scrisse in una lettera:
Non capisco questi Sloveni, questi croati, questi serbi che con tanto ardore si battono per qualche cosa che mi sfugge, ma che certamente porterà alla morte di tutti loro o alla loro libertà (…). Il gioco è mortale perché ancoa siamo forti da poterli ammazzare tutti; ma la loro forza sta in una nostra strana perplessità (…). Lui va nel bosco solo con un ficile, vive no nsi sa come, ma sicuro più che se stesse a casa. E noi ci andiamo in ceto a prenderlo, subiamo il suo fascino e ci facciamo colpire senza riuscire mai a raggiungerlo.
(Claudio Pavone, «Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza», pag.85 – 86)
APPUNTO DI LETTURA 16
* CONTRO GLI IMBOSCATI
Nella guerra italiana c’è questo di caratteristico: nella Resistenza (e, a suo modo, anche nella RSI [Repubblica Sociale Italiana o di Salò] vennero scaricate alcune delle tensioni che potremmo chiamare protoreducistiche accumulatesi durante il conflitto. […] È evidente che gli imboscati fossero il primo e immediato bersaglio di questo risentimento. Essi sono disprezzati come coloro che «si lamentano del termosifone, degli orari scomodi dei teatri»; vengono odiati come «gentaglia», che meriterebbe di essere inviata «nel deserto e poi lasciarli parlare»; come «eroi domestici che dicono frasi roboanti nei caffè e ti scrivono vincere su ogni pezzo di carta»; come coloro «che stanno qui in città a ridere e divertirsi (…) mentre le donne dimenticano i più sacri doveri in braccio ai profittatori».
Il desiderio di vendicarsi di tutti costoro traspare con altrettanta chiarezza: «ma questi imboscati speriamo di poterli trovare un giorno per regolare i conti!»; «ma verrà anche il giorno in cui mi potrò vendicare»; «ma Dio ci preserverà una buona memoria»; «il proverbio dice che tutti i nodi vengono al pettine»; «si farà piazza pulita dei mormoratori, dei traditori; e tutta questa accozzaglia che ora guarda sprezzantemente il militare dovrà scontare o ricredersi dopo la Vittoria»[…]
La rabbia più assurda era certo quella dei fascisti convinti, perché era una rabbia contro se stessi e i propri miti. Se una donna poteva scrivere al marito in Russia o che scrivono che questa era una guerra per tutti, per tutti i poveri sì, ma non per i ricchi che sono quelli che con la guerra guadagnano milioni»; un fascista non trovava altro sfogo contro «i signori della doppia camicia», contro la «cricca dell’armiamoci e partite», che il riavvolgersi ancora una volta nel proprio linguaggio: «È meglio morire in guerra che vivere inutilmente (…). Si è italiani e fascisti solo quando si è provato il profumo della trincea, il fischio delle mitragliatrici».
Paradossalmente, i fascisti al fronte debbono prendersela con altri fascisti, quelli rimasti a casa, anticipando così uno dei temi della contraddittoria polemica del Partito fascista repubblicano contro il Partito nazionale fascista. Lo stesso Carlo Scorza, prossimo a diventare l’ultimo segretario del PNF, avrebbe detto a Fidia Gambetti in partenza per la Russia nell’estate del 1942: «Cerca di tornare; dopo faremo i conti con tutti, anche col duce, se è necessario».
(Claudio Pavone, «Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza», pag.90)