Le lettere del Tonto 1
di Giulio Toffoli
Era da mesi che non vedevo il Tonto in giro per la città. Mi era giunto un breve scritto e poi più nulla. Avevo perfino ripreso a leggere con regolarità i necrologi sul giornale paventando qualche esito ferale ma senza avere risposte. Infine ho ricevuto una lettera che presentava già dall’esterno un qualche cosa di diverso, un sapore antico. L’indirizzo era scritto a mano, il tratto, largo e degno di una scuola di calligrafia, era chiaramente fatto con una penna stilografica di quelle d’antan.
L’ho aperta e mi si è svelato l’arcano:
“Carissimo amico
Conclusa la pagina elettorale, avendo preso atto dei risultati, che per altro erano abbastanza in linea con quelli che prevedevo, e non volendo assistere al rigurgito di miserie, risentimenti, odi di partito, falsità, menzogne e mediocrità che non solo i giornali e le televisioni ma oggi soprattutto i social media ci offrono in quantità da overdose, ho deciso di andarmene. Di liberarmi almeno per un po’ dal rumore di fondo di questa società dominata da uno spettacolo sempre più indecente. Con una plebe, spesso di sapore piccolo borghese, rumoreggiante, arrogante e nella sua presunzione senza freni, profondamente reazionaria.
Allora ho preso con me quattro cose, due stracci, due libri, il tablet, per mantenere un canale controllato e limitato di informazioni con il mondo, e sono partito.
Lo so che sorriderai. Forse è l’età che favorisce moti di regressione, grazie al fatto che siamo almeno in parte liberi dagli impegni della quotidianità, ma insomma sono finito a San Martino delle Scale, dove mi hanno accolto con grande cortesia offrendomi una stanzetta spoglia e una possibilità di vivere, per qualche tempo, ritirato e dedicarmi a un momento di meditazione, libero dal peso delle invadenze del vivere associato.
Mi chiederai, lo so, il motivo di questa scelta. La risposta è semplice: il monastero di San Martino delle Scale, della congregazione cassinese, è stato nel XVI secolo uno dei cenacoli da cui si è venuto sviluppando il movimento riformatore italiano. In un monastero della stessa congregazione posto alle falde dell’Etna, perciò a pochi chilometri da qui, prese avvio l’affascinante e tragica avventura umana di Giorgio Riolo, uno degli spirituali, un eretico, un portavoce di una battaglia per la libertà di coscienza e la libera lettura delle sacre scritture, che ha in qualche misura costituito uno dei presupposti della successiva affermazione della cultura liberale.
Oggi il monastero, che offre ricetto a chi voglia vivere un momento di spiritualità o più semplicemente di liberazione dalle catene del mondo di Amazon e Facebook, non è che la pallida ombra di quello che è stato nei suoi momenti di gloria ma può ben servire alla bisogna. O almeno a me sembra fornire la risposta a una esigenza che sentivo, come già ti dissi, sempre più forte: lasciare ad altri il palcoscenico da maschere senza volto e senza dignità in cui siamo costretti a vivere.
Non solo ho ripensato all’idea più volte avanzata da Ennio quando dice che noi siamo necessariamente i protagonisti di un «esodo dalle macerie del secolo passato» e mi è sembrato che ciò ben si coniughi con l’avventura dei cosiddetti «spirituali» del ‘500, portavoce di una nuova visione della cultura e della società, schiacciati fra il dogmatismo aggressivo e a suo modo non esente da intollerabili brutalità della Riforma e la violenza spietata dell’Inquisizione Romana. Condizione disperata come poche altre ma paradossalmente capace di sopravvivere alla sua stessa distruzione quasi a segnalare che le forze della conservazione non hanno mai avuto una strada facile di fronte a loro e che «talvolta è anche l’utopia a intercettare le ragioni della storia».
Ciò detto credo che dalle vicende di questi ultimi due mesi si possano ricavare alcune interessanti considerazioni, tutto sommato in sintonia con quanto si disse prima dell’evento elettorale. Cercherò di sintetizzare il mio pensiero in pochi punti in attesa di una tua risposta.
Il primo è costituito dal tramonto della sinistra in tutte le sue varie, ambigue e trasformistiche, forme. Già negli ultimi giorni prima delle elezioni gli analisti più attenti avevano intuito quest’esito che d’altronde non era difficile da divinare. Un cartello elettorale creato all’ultimo momento, Potere al Popolo, ricettacolo delle più variegate forme di estremismo, e un assembramento di vecchi ruderi della sinistra ormai in disarmo, LiberieUguali, non potevano ottenere che un risultato residuale. Stanca ripetizione di giochetti e riti più e più volte ripetuti. Da questo punto di vista ho l’impressione che ben poco si possa recuperare almeno sul breve periodo. Perso un radicamento di classe, anzi perso ogni contatto con la gente se non nella forma di estemporanee proteste, ben lunga sarà la strada per ricostruire un rapporto di fiducia con il mondo dei lavoratori e dei diseredati. Non basta appellarsi a non meglio definita «moltitudini», bisogna fornirgli un programma, un disegno che non sia inficiato da antiche e nuove miserie.
Più difficile da definire era allora il destino del PD ma molti indizi facevano prevedere una débâcle come quella che poi nei fatti si è verificata. Invero Renzi è riuscito nell’impresa, certo non facile, di dilapidare un’eredità politica che era sopravvissuta ad ogni traversia attraverso un’abile trasformazione di una tradizione di sinistra in un comitato d’affari di un aggressivo liberismo abilmente camuffato dietro una ideologia di un non meglio definito «progressismo». Credo però che non sia neppure corretto addebitare tutta la responsabilità al solo Renzi. Se ci pensiamo bene si è trattato di una lunga e irresistibile fase di declino iniziata con Occhetto e continuata come le tappe di una via crucis, quasi trentennale, che si è forse definitivamente conclusa con queste elezioni del 2018. Si tratta sostanzialmente dell’esaurirsi di quella forma di fedeltà, quasi un fideismo, nei confronti di una serie di concetti, da quello di sinistra a quello di progresso e di riforma, che, sempre più svuotati nella loro essenza, hanno però continuato a costituire una calamita per un certo elettorato ideologicamente orientato capace di rimanere fedele alla linea nonostante tutti i più incredibili trasformismi dei loro dirigenti.
Un elettorato, e questo è il secondo punto su cui voglio fermare la tua attenzione, che ha subito un vero e proprio mutamento genetico di cui forse non ci siamo resi ben conto. La cosiddetta sinistra istituzionale ha cambiato la sua pelle, è invecchiata e si impegna in una affannosa difesa dello status quo. Raccoglie ormai, le analisi dei flussi elettorali lo attestano in modo quasi indiscutibile, una parte dell’alta borghesia, i cosiddetti salotti bene, un universo di piccola e media borghesia costituita da professionisti e dipendenti dello stato, spesso e volentieri pensionati, e infine qualche giovane attirato dalla sirena del «nuovo che avanza» e del primato di chi sgomitando meglio può trovare un suo qualche spazio attraverso una personale ascesa sociale.
E’ sintomatico che alcuni conoscenti di sinistra, si fa per dire, dopo l’esito elettorale hanno iniziato a pensare ai loro investimenti in prodotti finanziari, preoccupati di perdere le posizioni che avevano acquisito. Insomma una sinistra nei fatti impegnata nella speculazione. Non in quella teorica ma proprio in quella finanziaria e per questo a suo modo devota a De Benedetti, Montezemolo, Marchionne e ai suoi profeti della Repubblica, dell’Espresso e del Corriere della Sera.
Questo ci impone però di ragionare in modo più approfondito sulla realtà della società italiana di questi anni e la sua composizione sociale o se vuoi, come si diceva un tempo, di classe. Che l’elettorato della sinistra sia costituito massicciamente da pensionati e pensionandi qualche cosa pur vorrà dire!
Di fatto, se ci pensi bene, sono passati ormai trent’anni dalla conclusione dell’esperienza sovietica e dalla definitiva affermazione della ideologia del mercato di cui la sinistra, variamente socialdemocratica, si è fatta almeno in Europa promotrice e portabandiera. Per essere ancora più chiari la nuova cultura televisiva di massa, che da noi si è incarnata nel modello berlusconiano, ha imposto la sua egemonia culturale su quasi due generazioni. Non ha del tutto torto Dacia Maraini quando ha affermato: «Il berlusconismo è la più grande catastrofe culturale del nostro tempo. Forse anche peggio del fascismo, perché seduttivo e apparentemente vincente. Il berlusconismo ha introdotto la cultura del mercato, quella in cui tutto si compra e si vende, dai senatori alle minorenni». Si potrebbe obiettare che già molta strada era stata fatta prima che il Berlusconi entrasse in campo e che la modellistica di fondo è quella liberista del primato del mercato, insomma quella della scuola di Chicago, ma il dato di fondo rimane indiscutibile. Ciò che si è imposto è un modello di società fondato sulla più spietata concorrenza, sul primato del principio di prestazione e sulla logica della speculazione.
Partendo da questo dato di fatto ti chiedo, cosa possiamo aspettarci dai giovani? Se si escludono delle infime minoranze di intimamente malcontenti e irriducibili protestatari quale è il modello di l’istruzione/educazione che questi ormai ex-giovani, oggi fra i trenta e i cinquanta, hanno avuto? Quale il brodo ideologico in cui si sono sviluppati?
Basta andare in una qualsiasi libreria per rendersi conto che una pubblicistica di sinistra non esiste quasi più. Al massimo si può rintracciare qualche querelle fra addetti ai lavori. E in ogni caso tutto legato all’evento, alla logica dello spettacolo, dove tutto è fungibile in una infinita fiera, una giostra che macina ogni cosa avendo come sola finalità l’accumulazione di profitti.
Partendo da questi presupposti mi chiedo e ti chiedo: è pensabile che i giovani votino per un disegno politico che non solo non ha storicamente mantenuto le promesse che ne avevano segnato l’affermazione proprio un secolo fa ma che nei fatti ha visto il costituirsi di una casta di burocrati asserviti ai detentori del grande capitale finanziario, servi docili e imbelli del potere accentrato a Bruxelles e a Washington.
Insomma un ceto di politicanti impegnati a far pagare al popolo il prezzo dei loro fallimenti.
Ti pare così strano che la gente decida di votare per chi, nel bene o nel male, propone, almeno teoricamente, di difendere gli interessi materiali di coloro che vedono i loro livelli di vita intaccati da una continua aggressività di una élite mai sazia, che punta ad accrescere giorno dopo giorno i privilegi di cui gode, il potere e la ricchezza.
Non è che una volta tanto sarebbe utile che codesti soloni, prima di lanciare scomuniche e accusare di fascismo coloro che non seguono il verbo di una sempre più fantomatica «sinistra», provassero a ripensare alla «parabola della trave e della pagliuzza» (Luca 6, 41).
Posso ben convenir con te che votare per certi partiti e movimenti vuol dire uscire dal sentiero tracciato dai poteri forti e cercare di sperimentare nuove vie. Ciò che è nuovo non è mai esente da incognite, ma anche qui che fare? Accettare di restare sudditi di una casta di corrotti e corruttori perché, riprendendo il refrain della Thatcher, non ci sono altre soluzioni se non la sudditanza al mercato?
Giunti a questo punto voglio fermare la tua attenzione su un terzo e ultimo punto quello che ha a che fare con i concetti di popolo e di populismo, usati ormai ad ogni pie sospinto.
Nei decenni dal 1945 al 1990 la sinistra, persino quella extraparlamentare, si fa per dire, era orgogliosa di raccogliere e interpretare la voce e le esigenze del popolo o se si vuole, nella nostra dizione di allora, delle «masse popolari». Ad ogni elezione la crescita dei consensi alla sinistra da parte del popolo era esaltata come espressione di una giusta linea, della capacità di interpretare la voce di una realtà che si andava allargando e articolando pian piano fino ad interessare gran parte della società italiana.
Ora invece il popolo è diventato qualche cosa di estraneo alla sinistra. Anche solo pensare di ottenere il sostegno elettorale del popolo sembra costituire una colpa. Sono i «populisti» che si rivolgono a quella realtà che assomma in sé di volta in volta tutte le possibili stimmate di quelle che un tempo erano le classi pericolose: ignoranza, egoismo, poltroneria, grettezza, razzismo.
L’esperienza di questi ultimi cinque anni è stata da questo punto del tutto paradigmatica.
Lo so il tema è particolarmente complesso, legioni di accademici ci si sono esercitati in svolazzi senza fine, e non ho intenzione di riprendere la discussione. Un punto però mi pare certo: quando si perde di vista l’interesse materiale della gente si aprono a chi ha voglia di far politica solo due esiti o impegnarsi in un progetto rivoluzionario attraverso un’azione esemplare o lasciare che l’egemonia della società finisca nelle mani dei gruppi di pressione moderati.
Sulla impraticabilità della prima via credo che oggi non sia neanche il caso di ragionare. Invece assai probabile è che qui come in Francia alla fine la destra, quella in doppiopetto, tiri fuori dal suo cilindro una soluzione alla Macron. Non ci resta che aspettare …
C’è però una terza possibilità, una specie di variabile impazzita, ovvero che un movimento popolare non ben caratterizzato ideologicamente se non dal disagio e dal rifiuto dello status quo riesca, restando all’interno del gioco parlamentare, a ridurre le mire aggressive del capitalismo finanziario cercando di salvare quanto resta dello stato sociale.
Certo non è la rivoluzione ma è pur sempre qualche cosa.
Forse l’Italia si offre ancora una volta come una specie di laboratorio politico per non ridursi ad essere semplicemente e solo materiale nelle mani di giochi del turbocapitalismo.
Con i naturali infiniti dubbi che la ragione non può che istillarmi e rinfrancato dal sole di questo fortunato crocevia di civiltà in cui al momento risiedo ti invio un saluto
Il Tonto”
APPUNTO 1
Dice il Tonto: ” un movimento popolare non ben caratterizzato ideologicamente se non dal disagio e dal rifiuto dello status quo riesca, restando all’interno del gioco parlamentare, a ridurre le mire aggressive del capitalismo finanziario cercando di salvare quanto resta dello stato sociale. Certo non è la rivoluzione ma è pur sempre qualche cosa.”
E su questo *qualche cosa* stanno puntando – mi permetto la semplificazione – i “populisti di sinistra” che, in una logica che a me vecchio fa pensare alla vecchia parola d’ordine di Lotta Continua: “il PCI al governo” (ed evito per ora battute), oscillano tra porsi come Consigliere dei (due per ora) Prìncipi e responsabili apologeti del *qualche cosa*.
Si veda questo passo di un intervento ben cesellato in senso social-populista.statalista di Mimmo Porcaro in difesa dell “nostra gente”:
“E’ per questo che il nostro atteggiamento nei confronti del governo non si può risolvere né nell’opposizione “sempre e comunque”, né, al contrario, nell’illusione che Lega e M5S stiano in qualche modo lavorando per noi, ma nella capacità di modulare i nostri giudizi e le nostre risposte. Contrastare gli aspetti inaccettabili del programma (penso ad esempio alla creazione e gestione di “classi pericolose”- fatte non solo di immigrati – come capro espiatorio di possibili fallimenti), incalzare il governo sugli obiettivi di redistribuzione, smascherarlo se e quando la sua opposizione all’Unione europea è puramente verbale, sostenerlo di fronte agli attacchi convergenti di Bruxelles e dei suoi agenti italiani indicando, se ne siamo capaci, strategie di contrattacco diverse da quelle gialloverdi. Sostenere Di Maio?! Sostenere Salvini?! Sì: perché ed in quanto sostenendo loro sosteniamo in realtà le richieste popolari di cui il governo deve, almeno fino ad un certo punto, farsi latore. Se e quando i due verranno attaccati dall’Unione per i loro intenti redistributivi, la difesa sarà d’obbligo, pena perdere per decenni qualunque credibilità di fronte a quella che dovrebbe essere, ed è, la “nostra” gente. Del resto, chiunque abbia giustamente protestato contro le pressioni di Mattarella e degli eurocrati in nome del diritto del popolo italiano a veder insediarsi il governo democraticamente scelto, ha portato con ciò, lo volesse ho meno, la sua pietruzza a sostegno del futuro premier. ”
Potete leggere l’articolo intero ripreso da Alessandro Visalli qui: https://www.facebook.com/alessandro.visalli.9/posts/10211662628817759
APPUNTO 2
1.
Sono d’accordo sulla pars destruens. Fai bene a parlare di «tramonto della sinistra in tutte le sue varie, ambigue e trasformistiche, forme», a criticare «un cartello elettorale creato all’ultimo momento, Potere al Popolo, ricettacolo delle più variegate forme di estremismo, e un assembramento di vecchi ruderi della sinistra ormai in disarmo, LiberieUguali, [che] non potevano ottenere che un risultato residuale».
2.
Ti concedo che «non basta appellarsi a non meglio definita «moltitudini»». Ma il discorso su questo concetto trascina con sé pregiudizi malevoli dei disinformati e problemi troppo noiosi d’interpretazione. Meglio rimandare. Ne riparleremo.
3.
«bisogna fornirgli un programma, un disegno che non sia inficiato da antiche e nuove miserie»?
Ma chi deve *fornire*? E a chi? ( Non è domanda semplicemente pignola. Anche questo spunto, facendo riemergere problemi complicati di organizzazione e di comunicazione tra – si diceva una volta – élite e masse o partito e classe ( o masse), è meglio per ora accantonarlo.
4.
«Renzi è riuscito nell’impresa, certo non facile, di dilapidare un’eredità politica che era sopravvissuta ad ogni traversia attraverso un’abile trasformazione di una tradizione di sinistra in un comitato d’affari di un aggressivo liberismo abilmente camuffato dietro una ideologia di un non meglio definito «progressismo».
Io, però, vorrei riesaminarla questa benedetta «eredità politica» ( del PCI, mi par di capire). Non vorrei passare per nostalgico di un’eredità, che – almeno noi del ’68-’69 – avevamo giustamente criticato; e che già marciva ben prima di Occhetto!(Rimanderei ad un’attenta lettura del saggio di Michele Nobile che ho segnalato qui: https://www.facebook.com/groups/1632439070340925/permalink/2103175643267263/)
5.
«Un elettorato, e questo è il secondo punto su cui voglio fermare la tua attenzione, che ha subito un vero e proprio mutamento genetico di cui forse non ci siamo resi ben conto».
Scusa, Tonto. Visto che in un punto del tuo discorso hai posto l’esigenza di « ragionare in modo più approfondito sulla realtà della società italiana di questi anni e la sua composizione sociale o se vuoi, come si diceva un tempo, di classe», prima dell’elettorato, uno che ha tale esigenza cosa dovrebbe guardare? La società, vero. E, se volessimo ancora parlare di «classe», perché ci dovremmo limitare a «pensionati e pensionandi»?
6.
«ti chiedo, cosa possiamo aspettarci dai giovani?»
Ma perché noi vecchi (o io vecchio…) dovremmo aspettarci dai giovani qualcosa, se non sappiamo neppure noi cosa dovrebbe/potrebbe vagamente essere? Te la dico senza ricami: temo che, epigoni di una “vecchia” storia, noi non abbiamo saputo o più voluto *proteggere le nostre verità* (Fortini) né dare una sistemazione alla nostra esperienza e alla storia da cui veniamo. Che poteva essere l’unica base per un possibile confronto coi giovani.
7.
«una pubblicistica di sinistra non esiste quasi più. Al massimo si può rintracciare qualche querelle fra addetti ai lavori».
È affermazione vera/falsa. Nel senso che esiste effettivamente una egemonia del pensiero “unico” nella lettura dei cambiamenti in corso, ma minoranze, se vuoi balbettanti e epigoniche, hanno elaborato varie ipotesi sulle trasformazioni in corso, più o meno valide ma discordanti, sulla quali si potrebbe/dovrebbe discutere. Ma non lo si fa o non si riesce a farlo seriamente.
8.
« mi chiedo e ti chiedo: è pensabile che i giovani votino per un disegno politico che non solo non ha storicamente mantenuto le promesse che ne avevano segnato l’affermazione proprio un secolo fa ma che nei fatti ha visto il costituirsi di una casta di burocrati asserviti ai detentori del grande capitale finanziario, servi docili e imbelli del potere accentrato a Bruxelles e a Washington. Insomma un ceto di politicanti impegnati a far pagare al popolo il prezzo dei loro fallimenti. Ti pare così strano che la gente decida di votare per chi, nel bene o nel male, propone, almeno teoricamente, di difendere gli interessi materiali di coloro che vedono i loro livelli di vita intaccati da una continua aggressività di una élite mai sazia, che punta ad accrescere giorno dopo giorno i privilegi di cui gode, il potere e la ricchezza. »
«Un ceto di politicanti impegnati a far pagare al popolo il prezzo dei loro fallimenti». Al popolo? Ma non stavi parlando di classe? E ancora ritorna tutta in primo piano ‘sta questione del voto! Le elezioni sono segnali, ma registrano la superficie di processi più profondi. Quelli dovremmo indagare…
9.
«Perso un radicamento di classe, anzi perso ogni contatto con la gente se non nella forma di estemporanee proteste, ben lunga sarà la strada per ricostruire un rapporto di fiducia con il mondo dei lavoratori e dei diseredati».
«Un radicamento di classe» è una cosa e imposta il discorso in una direzione (per chiedersi, ad es., quali mutamenti abbiano subìto le classi o se si siano dissolte e, se sì, lasciando cosa al loro posto…). Altra cosa è parlare di «contatto con la gente» che imposta il discorso in altra direzione (populista o pseudo populista, come sostiene il già citato Michele Nobile).
10.
« voglio fermare la tua attenzione su un terzo e ultimo punto quello che ha a che fare con i concetti di popolo e di populismo, usati ormai ad ogni pie sospinto. Nei decenni dal 1945 al 1990 la sinistra, persino quella extraparlamentare, si fa per dire, era orgogliosa di raccogliere e interpretare la voce e le esigenze del popolo o se si vuole, nella nostra dizione di allora, delle «masse popolari»».
Da quel che so di storia mi risulta che di «masse popolari» parlò il PCI togliattiano ( non più g ramsciano) e, all’interno della sinistra extraparlamentare. ne parlarono soprattutto formazioni come il MLS ( Movimento dei lavoratori per il socialismo) più vicine al PCI e Lottta continua. Tutto il filone latamente operaista (da Potere operaio ad Avanguardia operaia alla Lega dei comunisti) parlarono – a ragione o a vanvera – di classe operaia. E fu appunto al PCI che ci opponemmo in nome della classe operaia. Non dimenticare che la sinistra – inutile lamentarsene – è stata sempre fatta di varie sinistre.
11.
«Sono i «populisti» che si rivolgono a quella realtà che assomma in sé di volta in volta tutte le possibili stimmate di quelle che un tempo erano le classi pericolose: ignoranza, egoismo, poltroneria, grettezza, razzismo».
Sì, ma per quale scopo e che gli dicono? Ignoranza, grettezza etc. sono forse scomparse o sono diventati valori sui quali costruire un progetto politico? O vanno male quando praticate da aristocrazia e borghesia e bene se praticate dal popolo?
12.
« votare per certi partiti e movimenti vuol dire uscire dal sentiero tracciato dai poteri forti e cercare di sperimentare nuove vie».
Tonto, non inganniamoci. Non vedo né nei leader né nei programmi né negli atti già compiuti in passato e al presente da Lega e M5S questa distanza o volontà di « uscire dal sentiero tracciato dai poteri forti». Semmai ci sono poteri altrettanto forti ( ma un po’ diversi) a cui essi tentano di piacere. E di «vie nuove» si parla dai tempi di Togliatti. (C’era anche una rivista con questo titolo).
13
«perché, riprendendo il refrain della Thatcher, non ci sono altre soluzioni se non la sudditanza al mercato?
Ma che questi ti diano la soluzione (quale poi?) a me pare del tutto improbabile.
14.
«quando si perde di vista l’interesse materiale della gente si aprono a chi ha voglia di far politica solo due esiti o impegnarsi in un progetto rivoluzionario attraverso un’azione esemplare o lasciare che l’egemonia della società finisca nelle mani dei gruppi di pressione moderati. Sulla impraticabilità della prima via credo che oggi non sia neanche il caso di ragionare».
Eh, no! Proprio lo scartare da ogni ragionamento la rivoluzione forse ti ha spinto al convento. Quando Marx scrisse «Il manifesto del partito comunista» sai quanti fecero spallucce giurando sulla impraticabilità di quelle idee?
E qui devo tirare fuori un rospo: temo che proprio questo rifiuto di *ragionare di rivoluzione* (in senso storicamente forte, non mitologico o solo “desiderante”) – vedi le reazioni negative al mio commento sulla voce «Comunismo» di Fortini o appena io segnalo qualche libro del demonio Negri, che anche lui a modo suo insiste a parlarne) – si sia arenato il sodalizio della *fu redazione* di Poliscritture.
A me pare che tu oscilli tra un arrendevole «non ci resta che aspettare» e una vaga simpatia per una “terza via”, che a me fa pensare alla solita socialdemocrazia («una terza possibilità, una specie di variabile impazzita, ovvero che un movimento popolare non ben caratterizzato ideologicamente se non dal disagio e dal rifiuto dello status quo riesca, restando all’interno del gioco parlamentare, a ridurre le mire aggressive del capitalismo finanziario cercando di salvare quanto resta dello stato sociale»). E posso solo farti notare che è stata questa pretesa socialdemocratica che ha portato al crollo della sinistra e al passaggio dal PCI ai DS al PD di Renzi, sul quale hai detto peste e corna.
Per me è meglio restare davvero in attesa. Magari non nel convento dove hai ripreso fiato, ma nelle nostre città e periferie lavorate dai flussi impetuosi e contrapposti della globalizzazione e dei localismi. E pensare, pensare, sì, moltiplicando i « naturali infiniti dubbi che la ragione non può che istillar[ci]», ma su tutte le ipotesi, compresa quella rivoluzionaria, che tu ed altri scartate.