Pubblico le riflessioni che Paolo Rabissi e Franco Romanò hanno fatto leggendo il racconto del mio ’68 ( qui ). [E. A.]
IL MIO ’68 ERA COMINCIATO NEL ’66
di Paolo Rabissi
Caro Ennio
non sono uno dei vecchi cui poter passare le tue domande così cariche di problemi, non ho capito meglio di te il significato di quell’anno. Di più, io festeggio il ’68 tutti gli anni il 7 dicembre non perché a S. Ambrogio in quell’anno Capanna strigliava i compagni poliziotti davanti a La Scala ma perché più o meno nella stessa piazza (c’era un Motta) io e Adriana facevamo un piccolo rinfresco dopo il matrimonio della mattina. Non voglio essere irriverente, è che se riuscirò a parlare di quegli anni ( mi sono un po’ arenato nei miei biograffiti) come fai tu (apprezzo il tono che dai alla tua narrazione) verrà sicuramente fuori 1) che il mio ’68 era cominciato nel ’66 (perché ho cominciato a insegnare da studente e che non aveva una lira in tasca, perché ho conosciuto Adriana, perché ho conosciuto quelli di ‘Classe operaia’) e 2) che in realtà per me non è mai finito. Anche a me interesserebbe un po’ di più interloquire con un giovane, precario e disoccupato se proprio vuoi. Ma neanche tanto. Quando arrivano in casa i giovani di Amazon o di altri servizi, postali e non, mi confessano che amano il loro lavoro, durissimo ma pagato abbastanza e non si preoccupano per niente di futuri e di pensioni e di cassa malattia. Tutti a dire poveretti come sono sfruttati e c’è un po’ di miserabilismo intorno a loro e invece poi scopri che fanno lotte non da poco. Ma un amico della logistica ci sta dentro bene, lavora come nessun operaio fordista avrebbe accettato di fare. Però nella logistica fanno lotte non da poco e scoprono daccapo il mutuo soccorso, la solidarietà di un tempo. Accidenti c’è tutto un mondo da cui ricominciare ma io non ho più la forza e interamente nemmeno la voglia, seguo qualche situazione ma bisogna essere disperati come cani randagi. Mi manca l’inchiesta sul campo collettiva, quella con la quale sono nato politicamente, ma era fine ’67 con La classe, operai e studenti uniti nella lotta. Poi c’è stato Potere Operaio (fino al 71 quando la deriva insurrezionalista fece allontanare quasi tutti noi milanesi con Sergio Bologna). Ma Sergio ci aveva già fatto fare il giro tra Pirelli, Alfa e Mirafiori, e dopo il 3 luglio del ’69 non c’era stata quasi più storia studentesca se non operaista: se proprio devo ‘circoscrivere’ (come mi ha insegnato lo Zibaldone) il ’68 finisce la sua grande ondata nell’80 con la passeggiata dei 40.000. Ma poi continua e oggi sono ancora qui che studio i Grundrisse e il frammento sulle macchine, perché tutto è cominciato da lì, per me ma non solo.
Ma ne sai qualcosa. Abbiamo vicende comuni. La mia tesi con Catalano, dopo avere tradito Della Peruta col quale avevo stabilito una bella amicizia, era come te sui Quaderni Rossi ma poi proseguiva con Classe operaia. Era pronta da tempo ma la militanza mi ha bruciato un paio di anni. Ero, come sempre, fuori tempo massimo con gli studi (come te ho lavorato, dopo la maturità afferrata per il collo, come impiegato contabile (!) per un anno e poi quasi un anno come sguattero a Colonia), ma in quegli anni casa mia, prima della sua sede ufficiale in G. Modena, di P.O. è stata per più di un anno la sede. Lì è successo di tutto. Poi poi. Non lo so se ci riuscirò a ricostruire quei miei anni. Ma credo che tutti dovrebbero farlo. Senza piangersi addosso. E recuperare anche alla memoria i nostri anni d’insegnamento perché la scuola come ci abbiamo insegnato noi è stata una bella scuola sul serio, il ’68, studentesco e operaista è andato avanti con noi nella scuola, non a caso abbiamo insegnato negli IPSIA, negli ITIS, ed è stata scuola di democrazia, di conflitto, di rifiuto della parte sclerotizzata del nostro umanesimo. Ma eravamo già da prima nella scuola: con il terzo anno di iscrizione alla Statale ho ottenuto appunto già nel ’66 il mio primo anno scolastico di supplenza, incredibile, era la scuola di massa che avanzava ed è stata prodromica al ’68. La scolarizzazione di massa faceva aprire scuole dappertutto. ll mio ’68, anche in questo senso, era già cominciato. Quella era per se stessa una spallata incredibile all’ancien regime, nelle scuole arrivarono a insegnare studenti che portavano con sé un’aria libertaria e anche un po’ libertina, che sbaraccavano in quattro e quattr’otto metodi e ritmi della scuola. Ma trasmettevamo cultura alternativa, più di quanta noi stessi credessimo. I ragazzi ci volevano bene. I presidi no. L’antiautoritarismo dispiegatosi in quegli anni per me fu quasi un naturale portato di rottura con certi padri, almeno i miei, silenziosi, fascisti, piccolo borghesi, con la verità in tasca, succubi e servi in una città dominata da una borghesia industriale nera, autoritaria e cattiva, che all’università governava come signori feudali. Da allora la scuola non poteva più essere come prima. Magari abbiamo residuato solo coscienza sindacale, beh buttala via oggi, e comunque le tessere sindacali le abbiamo a un certo punto stracciate.
Ma i figli degli operai ai quali abbiamo insegnato il pensiero critico non residuarono solo straccioneria. Molti hanno studiato. Roberto, figlio di un operaio dell’Alfa, mi disse un giorno: guarda le lotte pagano, mio padre non deve più tenere le braccia alzate alla catena e si stanca la metà, io però in fabbrica non ci vado, piuttosto faccio la fame ma non ci vado sotto padrone.
Non sono queste conquiste di libertà da tramandare? Beh, figli a parte, oggi spero nei miei nipotini (tre)!
Il deserto si è allargato in maniera inverosimile ma qualche oasi (WEB compreso) c’è ancora. Tutto il resto per ora è solo concepito.
SUL ’68 DI ENNIO
di Franco Romanò
Caro Ennio, viste le difficoltà crescenti con cui mi avvicino al mio ’68, alla fine ho letto il tuo, molto bello, anche se forse questo aggettivo può sembrare abusato. E invece lo uso con piena consapevolezza. Alla fine del tuo viaggio ho capito che l’approccio che avevo in mente è del tutto analogo e cambia poco se il mio treno non veniva dal sud ma dal profondo nord della Brianza, che è a sua volta – nel mio immaginario – un altro sud. Ho sempre pensato che la Brianza profonda abbia qualcosa che l’assimila antropologicamente all’Alabama e avendolo scritto prima che la Lega Lombarda nascesse penso di avere qualche ragione dalla mia parte. Inoltre, una cospicua parte narrativa di quello che è il mio ’68 è finito in un romanzo che nessun editore per il momento ha scelto di pubblicare, anche se non demordo.
La ricostruzione del tuo percorso è convincente perché non è solo il tuo ed è scritto in uno stile che permette a ciascuno di ritrovare il proprio ’68: questo mette in moto ricordi e anche un po’ di nostalgia, che non guasta. Infine c’è un passaggio che per me è un vero cammeo: l’eleganza del levriero al guinzaglio della occasionale compagna di Feltrinelli dice molto senza spiegare nulla. Alla fine, ho rinunciato a scrivere del mio ’68.
Però poi, a conclusione del tuo viaggio, poni delle domande politiche che vanno oltre la narrazione ed è su alcune di queste (le riporto qui sotto) che vale la pena invece di soffermarsi e tentare di rispondere ed è quello che cercherò di fare, avendo in testa una linea precisa di ricerca e cioè che il modo politicamente meno angusto di ricordare il ’68 è quello di collocarlo all’interno di un ciclo più lungo della storia italiana che parte dai fatti di Piazza Statuto del 1962 e finisce con la marcia dei 40.000 della Fiat nel 1980. Mi rendo conto che è materia da storici, ma lo è anche da militanti quali, con tutti i limiti e le differenze di ruolo e coinvolgimento personali, siamo entrambi stati. Ripercorrere questa storia significa anche farlo alla luce di quello che sono state le pagine nobili e le sue sconfitte. Queste ultime hanno le loro ragioni negli assetti politici che le potenze vincitrici imposero all’Italia alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Tali ragioni sono state quasi del tutto ignorate da parte di movimenti e forze politiche extra parlamentari che si formarono in quegli anni. La parola ignorate non va presa alla lettera, visto che non facevamo altro che parlar di Cia e del ruolo degli Usa. Ho condensato in un ossimoro di cui ho discusso anche con Paolo Rabissi il senso della parola ignorate: Avevamo ragione su tutto ma non ci abbiamo capito nulla.
Vengo ora alle tue domande, rispondendo alle quali mi auguro anche di sciogliere un po’ il significato dell’ossimoro.
… Ma, vista l’aria che ira oggi, a cinquant’anni dal ‘68, non so più se parlarne possa servire a qualcosa o a qualcuno. E allora, come il mio personaggio, sono tentato io pure di ritirarmi «in un cerchio di solitudine» a riflettere e a farmi domande per conto mio: feci bene a partecipare a quella rivolta di studenti? feci bene a orientarmi verso l’operaismo? perché non avvenne una vera saldatura tra noi in basso e i leader del movimento, i fratelli politici (a volte maggiori di età e a volte minori) ai quali mi accompagnai?
Comincio da queste per dire subito che secondo me facesti bene, come ognuno di noi fece, a partire dal luogo (da non intendersi solo in senso fisico) in cui si trovava quando fu trascinato dalla forza di quegli eventi a farne parte e a cercare di capire. Io ebbi, dopo molte oscillazioni, una propensione verso il maoismo, ma questo è ormai irrilevante. Rilevante è invece ricordare che da quell’ondata, che iniziava da prima di noi e cioè proprio nel 1962, e che avremmo imparato nel tempo scoprire, nacquero le più grandi conquiste civili di questo paese che metto nell’ordine in cui le ricordo:
- La legge 180 voluta da Franco Basaglia e Franca Ongaro.
- Lo statuto dei lavoratori, grazie alla determinazione di molti e alla cocciutaggine di un uomo che nessuno ricorda: Brodolini.
- La legge 194 sull’interruzione di gravidanza.
- Una copertura sanitaria per alcuni anni fu addirittura totale e sulle spalle delle fiscalità generale.
- L’unificazione del punto unico di scala mobile.
- Le 150 ore
- Laura Conti, Giulio Maccaccaro, Ercole Ferrario, per tutto quello che ci insegnarono e fecero attivamente per denunciare la non neutralità della scienza, per dire che sicurezza sul lavoro e salute non sono monetizzabili e nel concretizzare un discorso ambientale che sapeva unire insieme sua nell’analisi sia nell’azione concreta problemi ambientali e tensione anti capitalistica.
Questi sono solo gli aspetti più istituzionali: ma come non ricordare quello che nasceva e si sviluppava in un rapporto antagonista, a volte, altre volte con accordi parziali, con le istituzioni: dal movimento di occupazione delle case, la nascita dei consultori e dei centri anti violenza, l’autocoscienza che ebbe un influsso forte anche sugli uomini, i gruppi di autocura e chissà quante cose ho dimenticato. Lascio per ultimi consapevolmente i consigli operai, il vero centro e nucleo delle lotte di quegli anni, sia per quello che rappresentavano in sé, sia per quello che significavano per tutti gli altri lavoratori e lavoratrici, non operai nel senso proprio del termine; a cominciare per gli insegnanti, come eravamo noi.
Tutto questo, intendiamoci, non è una risposta alla tua ultima domanda, quella forse più pregnante, e cioè perché la saldatura fra i fratelli maggiori e minori non ci fu o ci fu solo in parte. Tuttavia, questa domanda, cui cerco subito di rispondere, non può cancellare a mio avviso tutto quello che ho ricordato in precedenza.
La saldatura in parte ci fu, per esempio con la generazione grazie alla quale scoprimmo o riscoprimmo il valore della Resistenza Antifascista, solo che ci trovammo ad affrontare un dilemma non da poco: un aspetto fondamentale del ’68 fu anche quello di non riconoscersi nei padri e dei padri rifiutavamo anche le tendenze autoritarie presenti nella generazione resistenziale, cui pur guardavamo con sentimenti di riconoscenza. E poi Freud, che scoprivamo in quegli anni, ci insegnava pure che i fratelli, una volta che si sono liberati del padre, non è che sappiano bene cosa fare. Tuttavia, penso che tutto questo sia vero ma che manchi qualcosa di decisivo e cioè che scoprivamo un po’ traumaticamente come uomini che il mondo non era fatto solo di fratelli ma anche di sorelle e che queste ultime si ribellavano ai padri come noi ma anche ai fratelli che noi eravamo.
… erano di gran lunga più potenti e insidiose le sotterranee manovre dei partiti di destra ma anche di quelli di sinistra per bloccare la rivolta e non si fu in grado di respingerle?
Sì, nel breve e nel medio tempo fu così e questa tua domanda mi dà modo di ritornare sull’ossimoro e cercare di spiegarlo. Erano più potenti perché noi ci affacciavamo sulla grande storia e non potevamo di certo conoscerla in partenza e non potevamo sapere in quel momento dentro quali vincoli internazionali e quanti e quali non detti (da entrambe le parti che combattevano la Guerra Fredda) agivano sotterraneamente. Qualcosa intuivamo eccome, anzi molto di più e questo è il senso della prima parte del mio ossimoro: avevamo ragione su tutto. Lo capivamo però astrattamente – anche dopo la strage di Piazza Fontana – e non nella concretezza fattuale e profondità e dunque non ci abbiamo capito nulla. C’era in questo anche un atteggiamento positivo, cioè dell’andare oltre un limite che, peraltro, nessuno veramente indicava perché per opposte ragioni – che a sinistra talvolta erano anche nobili ma altre volte no – tutti avevano la necessità di difendere ragioni indicibili. In particolare ci mancò la capacità di capire in fretta che la definizione di Guerra Fredda era un’ipocrita e tragica definizione che occultava la realtà dei fatti: una guerra calda e senza esclusione di colpi ma combattuta con i metodi della guerra asimmetrica e del terrorismo di stato; una guerra in cui l’Italia si trovava al centro. La stessa narrazione sui cosiddetti servizi deviati, avallata anche a sinistra, fu un altro strumento di occultamento della realtà.
Chi pretese di capire di più e per questo scelse la lotta armata (cercando appoggi più o meno consapevoli con il campo socialista) cercò una scorciatoia che si rivelò la catastrofe che sappiamo, tutti gli altri furono presi nel mezzo, ma non si riuscì a fare molto di più. Non credo però che possiamo essere mal giudicati per questo: anzi a me sembra un miracolo che abbiamo contribuito nel tempo a tenere comunque vive certe istanze.
Ora sappiamo tutto e non sto usando un’iperbole, anzi mi prendo la responsabilità di affermare che di misteri non ce ne sono più, dopo la pubblicazione recente di alcuni libri – fra cui in primis quelli di Fasanella e Giannuli.
Ci sono dei dettagli da chiarire, il ruolo di alcuni personaggi chiave può essere ritenuto ambiguo, ma il perimetro politico in cui s’inscrivono e il senso complessivo di certi fatti, a cominciare da Portella della Ginestra, poi dal Piano Solo del 1964, per passare dalle stragi e per finire con il rapimento e l’assassinio di Aldo Moro, sono chiari ed evidenti. Il puzzle è finito e se qualche casella rimane ancora vuota, oppure può essere riempita da attori e figurine diverse, questo non impedisce di leggere bene la figura. Anzi, continuare nella narrazione che avalla l’esistenza di misteri significa a questo punto non fare i conti con la realtà, significa non voler vedere e non voler sentire che in Italia non manca appunto lo scioglimento dei misteri, bensì un discorso sulla verità che forse non verrà mai ma che trovo assurdo non chiedere comunque. Penso a un gesto come quello che compì Willy Brandt davanti al monumento di Auschwitz. Un establishment come quello italiano non è in grado di farlo, ma penso sia legittimo pretenderlo o sollevare il problema.
Infine, cito l’ultima parte del tuo scritto:
… mi accorsi presto – e ancora devo citare Brecht – che anche nel movimento degli studenti «Anders als die Kämpfe der Höne sine die Kämpfe der Tiefe!» (Diverse dalle lotte sulle cime sono le lotte sul fondo!).[1] Quando poi s’interruppe quel frenetico ma fecondo lavoro di contrabbando intellettuale tra università e esterno (bisognerebbe informarsi sull’ormai dimenticata esperienza delle «150 ore» partite nel 1973!), mi accorsi che dal ’68 avevo imparato comunque che è possibile lottare assieme agli altri; e che potevo continuare a cercare compagni con cui farlo. Sì, «sul fondo», anche scrivendo da solo i miei poverissimi samizdat ciclostilati in proprio e distribuiti a poche persone.
Ecco, e se fosse tempo di ricominciare?
[1] Dal frammento La bottega del fornaio.
ANCORA SU ALCUNI NODI DEL ’68
@ Franco [Romanò] e Paolo [Rabissi]
1.
La nostra giovinezza è stata attraversata da un lampo di eroici furori politici. Imprevisto, eccezionale, mondiale. Ma il ’68 non deve diventare una sirena che impedisca alla memoria di ritornare all’*adesso*. (“Storia adesso” è il titolo di una rubrica di Poliscritture). E, visto che abbiamo avuto la fortuna o la sfortuna di assistere a ben 5 decennali del ’68 con l’angoscia (parlo per me) di dover subire un rito manipolato e di saperne l’irripetibilità, non vorrei annoiarmi o annoiare. Spingerei perciò verso una discussione più spietata.
2.
D’accordo, pensiamo il ‘68 «senza piangersi addosso» né cancellare quella felicità assaggiata. Contrastiamo a testa alta i liquidatori di quella esperienza straordinaria. Ricontrolliamo quel battito accelerato del cuore democratico di questo Paese che si fece sentire più forte in quell’anno. Ricordiamo pure i suoi echi prolungati negli anni successivi (« le più grandi conquiste civili di questo paese» dal movimento di occupazione delle case, la nascita dei consultori e dei centri anti violenza, l’autocoscienza che ebbe un influsso forte anche sugli uomini, i gruppi di autocura e chissà quante cose»), come dice Franco. E nel bilancio mettiamo pure, come fa Paolo, i nostri anni d’insegnamento in «una bella scuola» . Ma poi? Di fronte alla «buona scuola» di Renzi che ha preso il posto della «bella scuola» evocata da Paolo? All’abolizione dello Statuto dei lavoratori e all’arbitrio padronale nella gestione del lavoro? Al deserto politico e alla miseria dell’ oggi? Stiamo all’«adesso», al «poi» (“reazionario”? “controrivoluzionario”?) che ci hanno imposto, all’ombra che ha eclissato, deformato o accomodato il ’68 alle esigenze dei vincitori dello scontro degli anni ’70.
3.
E ancora. Possiamo tacere o sorvolare su quel *di più* immaginato e tentato allora? Sull’idea di un futuro non dominato dal capitalismo? Sulla volontà di rottura coi padri della Sinistra “progressista”? Certo non tutti i partecipanti al ‘68 si posero quei problemi. Il movimento fu composito. C’erano quelli che volevano “cambiare la vita” e quelli che volevano “cambiare il sistema”. A me interessano soprattutto le ragioni dei secondi (compresi quelli che cercarono i loro strumenti nella tradizione armata della Resistenza non imbalsamata dai democristiani piccisti e socialisti) e capire il perché della sconfitta. Meno le pur rispettabili ragioni di quanti vissero il ’68 come rivolta contro l’«autoritarismo».
4.
E, perciò, credo di non condividere l’ottica diciamo pure psicanalitica (in senso lato) che fa scrivere a Franco:
«ci trovammo ad affrontare un dilemma non da poco: un aspetto fondamentale del ’68 fu anche quello di non riconoscersi nei padri e dei padri rifiutavamo anche le tendenze autoritarie presenti nella generazione resistenziale, cui pur guardavamo con sentimenti di riconoscenza. E poi Freud, che scoprivamo in quegli anni, ci insegnava pure che i fratelli, una volta che si sono liberati del padre, non è che sappiano bene cosa fare. Tuttavia, penso che tutto questo sia vero ma che manchi qualcosa di decisivo e cioè che scoprivamo un po’ traumaticamente come uomini che il mondo non era fatto solo di fratelli ma anche di sorelle e che queste ultime si ribellavano ai padri come noi ma anche ai fratelli che noi eravamo».
Sono nodi complicati. Emersi nel dibattito proprio in quell’anno. Ricordate lo scontro simbolico tra Fortini e Fachinelli (riassunto dal primo in quell’articolo sui Quaderni Piacentini, «Il dissenso e l’autorità»)? Nodi che si complicano se, come fa Franco (e credo in piena sintonia con Paolo), aggiunge il riferimento (benevolo) alle «sorelle» che « si ribellavano ai padri come noi ma anche ai fratelli che noi eravamo». Sospetto di non essere molto in sintonia con le conclusioni a cui siete arrivati. Del femminismo ho parlato ( anche a livello personale) in «Donne seni petrosi». E in tanti anni ho discusso con punte aspre di contrasto anche in Poliscritture. Al momento mi sento di dire che la lotta all’antiautoritarismo permette di stabilire una certa continuità tra il ’68 e il femminismo degli anni ’70, la democratizzazione o modernizzazione della “vita” ( dei costumi sessuali, della mentalità e dei comportamenti quotidiani). Ma – questa è la mia convinzione – al fallimento nel costruire quel *di più* che si voleva raggiungere (magari attraverso la costruzione di un nuovo partito capace di orientare la lotta anticapitalista in modo più deciso rispetto a PCI e PSI) ha contribuito anche l’incapacità di distinguere tra autoritarismo e autorità (e – per citare parole di Franco – tra « tendenze autoritarie presenti nella generazione resistenziale» e necessità – dico io con il vecchio Fortini – di costruire *diversa autorità*). A me poi non pare che «i fratelli» (maggiori, aggiungo) si fossero veramente «liberati del padre» (PCI,PSI, DC). E pare, invece, che le «sorelle», nel ribellarsi ai padri e ai fratelli, non abbiano fatto quella rivoluzione/liberazione che pretendono di aver fatto. Perché hanno accettato di condurla all’americana *dentro il capitalismo* , staccandosi e sbeffeggiando la prospettiva anticapitalista in cui ci si stava muovendo.
5.
Il ’68 è stato un lampo. Presto è stato collocato in un’eternità astorica, mitica (forse simile a quella in cui si è collocato anche un *certo* femminismo). Solo così mi pare possibile prolungarlo fino all’’80, come voi dite. Ma di sicuro non fino all’ oggi, come dice Paolo. Il fatto che esso resiste come figura mitica nella memoria di qualcuno e questo qualcuno sia ancora capace di occuparsi di alcuni temi “classici” di allora (studiare i “Grudrisse” ad esempio) mi pare davvero poca cosa per parlare di continuità.
6.
No, il ’68 è «finito» quasi subito. Ed è meglio pensarlo così: compiuto, terminato, irripetibile. È stata una effimera “età dell’oro”, da tenere sì a mente (come Leopardi faceva con gli antichi) ma riconoscendo però che – già con le bombe a piazza Fontana – fummo inchiodati (e continuammo a restare inchiodati, malgrado l’energia profusa in tante lotte) in un’età che non so se di ferro o di piombo, ma che comunque impose scelte niente affatto felici né innocenti. Per alcuni furono drastiche, distruttive, autodistruttive e disperate (il terrorismo). Per altri (noi compresi, credo) furono di auto isolamento. Per altri ancora ( tra cui molte «sorelle») furono di adesione alla “modernizzazione”. ( Me li ricordo come un incubo certi loro discorsi contro il miserabilismo; e poi del “darsi autorità” tra sorelle e poi, scivolando in giù, sulle “quote rosa”).
7.
In parte concordo con Franco quando scrive: « il modo politicamente meno angusto di ricordare il ’68 è quello di collocarlo all’interno di un ciclo più lungo della storia italiana che parte dai fatti di Piazza Statuto del 1962 e finisce con la marcia dei 40.000 della Fiat nel 1980». Istintivamente io pure recuperai un panorama più ampio di quello 68- ’80; e risalii al dopoguerra e al Sud del dopoguerra. E in quella mia “Poesia della crisi lunga” scrissi:
«dopo tanto sentir oscuro/ e pensar grigio/ in quest’ultimo anno/ il più ricco/ non per caso/ d’attentati/ solo un torpore/una pigrizia/ la rabbia/ e qualche intelligenza/ che ci volge indietro/ a un passato/ orecchiato sommerso/ sprofondato assieme/ alla gente magramente contadina/ con cui vivemmo/ acri giorni/ senza ribe11ioni / e si disegnano i profili di generazioni/ che si danno tremando la mano/ attraverso questo lungo/ difforme/ dopoguerra/ ne seguiamo il ricamo/ e le cuciture/ con affanno/ e scetticismo/ intaschiamo/ mormoranti e incerti / come monaci di fronte a resti/ di classicheggianti paganerie/ mentre fuori i barbari/ già si ritirano/ e nessuno capisce perché/ e si dice che torneranno/ e non si sa per fare che».
8.
Risalivo, cioè, dalla sconfitta politica degli anni ’70 ad una sconfitta (ancora più pesante). La mia la esprimevo in versi esistenziali o da “terra del rimorso” demartiniano. Ma ora – leggendo quanto scrive Franco sia per il lavoro fatto in diversi anni sulla storia del Novecento – mi è più chiaro il senso politico di quella sconfitta e mi è più facile nominarla come sconfitta della Resistenza. Concordo, dunque, con lui: è proprio sugli « assetti politici che le potenze vincitrici imposero all’Italia alla fine della Seconda Guerra Mondiale» che si giocò (e tuttora si gioca) la partita che impedisce qualsiasi ‘68. Sì, forse certi aspetti della storia italiana «sono state quasi del tutto ignorate da parte di movimenti e forze politiche extra parlamentari». E purtroppo ci lavorarono da sole – ahi noi – le Brigate Rosse.
9.
«Avevamo ragione su tutto ma non ci abbiamo capito nulla» ( Franco). A prima vista mi è davvero un’affermazione troppo ossimorica, forse pasoliniana. Come o in che senso potevamo aver ragione se non avevamo capito?( Specie se – dico io – molti si fermarono all’antiauturitarismo e le «sorelle» se ne fregarono del capitalismo, della dimensione storica del suo potere). Ma forse una verità la contiene: il modo, non solo personale ma proprio della “gente comune” costretta a lottare in basso ( Brecht), a partecipare alla lotta civile e politica sempre stando nel gorgo senza poterlo del tutto intendere e sapere veramente che fare.( E qui ancora di più brucia la mancata costruzione di quel “partito rivoluzionario” di cui tanto si parlò!) E guardando all’«adesso» – purtroppo di segno tutto cambiato rispetto alle speranze o alle illusioni del ’68 – mi devo riconoscere, ancor più di allora Renzo Tramaglino; e peggio ancora non nella condizione del giovane che fui ma del vecchio isolato. (Tra parentesi a Paolo. Che ai giovani di Amazon la vita d’oggi – non il nostro ’68 – appaia sempre carica di promesse o attraversabile con impavida leggerezza o incoscienza, non mi stupisce. Da giovani chi pensa alla pensione o alle malattie che possono colpire a tradimento? E quanti non finiscono gli studi in tempo o li interrompono…).
…trovo molto interessanti i tre racconti, da parte di chi li ha vissuti, del ’68, quando personalmente. pur aderendo ai valori del movimento, non ne presi parte. Ho invece delle riserve sul contenuto del commento di Ennio Abate, ritenendolo troppo drastico nelle conclusioni…In effetti la Resistenza prima e il ’68 dopo non sono pervenuti alla rivoluzione e a cambiare una soc. ad economia capitalista che perpetua le ingiustizie e le radicalizza…Però, come evidenzia Franco Romanò, pur con un fiato corto, entrambi gli eventi hanno consegnato qualcosa di positivo: il primo una nuova Costituzione che estendeva il diritto di voto a tutte-i. il secondo che favoriva nuove leggi per il lavoro, il diritto di famiglia… le promesse sono state ampiamente tradite e disattese, ma i loro ideali, secondo me, agiscono ancora in maniera magari sotterranea e vanno consegnate, come speranza al respiro lungo delle nuove generazioni (Paolo Rabissi)..Non concordo neppure sul discorso sul femminismo esposto da Ennio, perchè se l movimento è partito sul discorso “il personale è politico” e l’autocoscienza e ci stava tutto, si è poi sviluppato in molte direzioni nei suoi 50 anni di storia…so che quando le donne scendono in piazza, ed è solo per fare un esempio, lo fanno contro la violenza sulle donne, in appoggio della legge 194…ma anche a sostegno del popolo palestinese, per l’accoglienza dei migranti…Mi auguro che le prossime lotte raccolgano giovani, vecchi, donne, uomini di ogni provenienza, uniti senza barriere, perchè sulle divisioni ci sono già troppi giochi…
SEGNALAZIONE
(dalla bacheca di Franco Senia)
https://francosenia.blogspot.com/2018/06/raccontami-unaltra-storia.html?spref=fb
Raul Mordenti: La grande rimozione, Bordeaux edizioni)
Il ’68-’77 (“decennio rosso”) non è stato affatto quello che hanno raccontato le ricostruzioni giornalistiche e televisive: una simpatica lotta per la libertà sessuale e per i diritti civili, nonché la preparazione del terrorismo di sinistra. Il Movimento è stato invece un tentativo, per quanto politicamente primitivo e insufficiente, di riproporre il problema della rivoluzione in Occidente. Né più né meno. A partire dalla riflessione sulla novità teorica di quel ciclo di lotte (il concetto di “movimento politico di massa”), il libro ricostruisce la vitale realtà di un decennio di lotte che hanno fecondato e arricchito la democrazia italiana e si interroga in particolare sulle ragioni della sconfitta del movimento del ’77 («una sconfitta che si poteva e doveva evitare») attribuendone la principale responsabilità alla micidiale tenaglia costituita dal Governo Andreotti-Cossiga (sostenuto dal Pci della “solidarietà nazionale”) e dall’estremismo dell’autonomia. Schiacciato fra questi due elementi, diversi ma convergenti, si trovava una realtà ben diversa, cioè il movimento stesso: diffuso e duraturo, complesso e ricco di potenzialità, fatto di decine di migliaia di compagni/e, è stato ieri represso così come oggi è fatto oggetto di una inaccettabile cancellazione (“la Grande Rimozione”). Il libro argomenta questa tesi con documenti votati dalle assemblee del movimento e con brani scritti mentre gli avvenimenti si svolgevano intrecciati con osservazioni dell’oggi. Una posizione tanto convinta e appassionata quanto polemica e controcorrente, da cui non può prescindere il dibattito che si riapre in occasione del quarantennale del ’77 e del cinquantennale del ’68.
SEGNALAZIONE
Per approfondire i temi di questo post e le varie interpretazioni, sono di notevole interesse i numerosi interventi che l’amico Giorgio Morale ha pubblicato su VIVA LA SCUOLA sul ’68.
Andando a questo link (https://lapoesiaelospirito.wordpress.com/2018/05/28/vivalascuola-222/)
trovate l’Indice ( lo riporto qui sotto) coi rispettivi link agli articoli:
Il 68: deformazione storica, di Carlo Tombola
Il 68 unì l’Italia, il post-68 l’ha divisa, di Stefano Levi Della Torre
L’Erba voglio c’è, di Lea Melandri. Incontro con Luigi Monti
L’università post 68: un ingozzatoio d’oche, intervista a Giancarlo Consonni di Niccolò de Mojana
Altri materiali sul 68 su vivalascuola: qui, qui, qui, qui
Segnalazione: Che nelle scuole si torni a disobbedire ad ogni guerra… di Antonio Mazzeo e Berardino Palumbo
Note
Risorse in rete
SEGNALAZIONE
Emilio Molinari
Un altro ’68
http://www.puntorosso.it/uploads/1/7/0/3/17033228/i_due_68.pdf
50 anni dal 1968. Proliferano i convegni, i libri e le mostre. Protagonisti di quegli anni, ci interroghiamo: abbiamo vinto? abbiamo perso?
Per la maggioranza della gente il ’68 è una nebulosa di violenza, di insensate trasgressioni, di culi nudi che ballano tra nuvole di marijuana.
Oppure qualcuno ricorda che fu il tempo delle libertà personali e sessuali, dei diritti civili e poi del femminismo, del movimento gay, della legge sull’aborto e sul divorzio, conquiste vere che restano e che continuano ad affermarsi.
In Italia, però, non fu solo questo.
E’ una lettura monca dalla quale è stata cancellata una fetta di memoria. Il ’68 italiano non si può leggere separato dal 1969 dei metalmeccanici.
Abbiamo vinto o abbiamo perso…. bisogna leggerlo e spiegarlo con la consapevolezza di questa dimensione e con una provocazione vorrei dire che nel nostro paese ci furono due ’68.
Uno fu il ’68 degli studenti e di molti intellettuali. Un soggetto complesso egemonizzato dalla piccola borghesia radicalizzata, dal suo bisogno di modernità, di liberarsi dalle gabbie e dalle convenzioni della propria classe.
Anche se questo dietro di sé aveva: il Viet Nam, le lotte dei neri americani, il Che e Mao, la lettera a una professoressa, la morte dei due Kennedy e Papa Giovanni XXIII, ideologicamente era diviso tra il comunismo e la cultura del partito radicale e dei liberal americani.
L’altro fu il ’68/’69 dei lavoratori. Dietro di sé aveva lo stesso contesto, ma sopratutto aveva l’epica lotta degli elettromeccanici milanesi del 1960/61. La lotta “delle quattro stagioni” perché durò un anno. E fu durissima, con scontri ai cancelli d’ogni fabbrica, con i lavoratori che passarono la notte di Natale in piazza Duomo e poi lo straordinario contratto nazionale del 1963.
Se guardiamo a ciò che resta, sul filo della provocazione e semplificando, direi che il primo ha vinto. Ha vinto conquistando la politica e la cultura progressista mondiale: i diritti civili, i matrimoni gay, le quote rosa, l’adozione del figlio del partner nelle coppie gay, l’affitto degli uteri, e la vendita del seme e degli ovuli femminili, la libertà di decidere la fine della propria vita, il diritto alle droghe leggere.
Il secondo ha perso. In 50 anni ha perso i diritti sociali e del lavoro, straordinarie conquiste strappate appunto dal lungo 68/69.
Vale la pena metterle in fila e cogliere il significato profondo e l’attualità della grande cancellazione.
Nel novembre del ’68 con uno sciopero generale venne conquistato il diritto ad andare in pensione dopo 35 anni di lavoro, per poter vivere la propria vecchiaia con salute e dignità.
Nel novembre del ’69 con un altro sciopero generale sul diritto alla casa per tutti, fu rilanciata l’edilizia popolare.
E se guardiamo al contratto del ’69: l’orario di lavoro fu ridotto di 8 ore. Non compatibilità economica, ma cultura del diritto, libertà dal lavoro, tempo per sé.
Gli aumenti salariali furono eguali per tutti (operai-impiegati), diritto quindi all’eguaglianza tra i lavoratori nel ripartire la ricchezza prodotta.
Nei primissimi anni ’70 fu eliminato il cottimo e conquistato quel monumento al diritto che è lo Statuto dei diritti dei lavoratori, cose che vollero dire dignità.
Nella primavera del ’69, a Milano, anticipando l’autunno operaio, scesero in sciopero decine di migliaia di impiegati. Fu la rivolta della struttura gerarchica delle fabbriche. Dignità di non essere strumenti del padrone. 150 ore da dedicare alla cultura, diritto alle assemblee in fabbrica ed elezione dei delegati di reparto, unità sindacale.
Dall’incontro e dal convergere tra lotta degli studenti e lotte operaie, nacquero:
Medicina democratica….la salute in fabbrica e poi la riforma del sistema sanitario nazionale che garantì a tutti l’accesso alle cure migliori.
Magistratura democratica, ovvero una giustizia che cercò di diventare “eguale per tutti”, anche per i lavoratori e i cittadini.
Di questo si è perso coscienza e conoscenza.
In 50 anni le culture dei due ’68 si sono scisse, anzi una si è sovrapposta all’altra cancellandola nella politica, nei cuori e nei cervelli del popolo di sinistra. Se si separano i diritti sociali dai diritti della persona non si coglie ciò che vogliono i grandi poteri, e si apre la strada ai disastri.
Questa sovrapposizione è avvenuta tutta nel campo della sinistra, mutandola geneticamente: Jobs act, eliminazione dell’art.18, pensioni, privatizzazioni dei servizi pubblici e della sanità. Il PD e le socialdemocrazie sono una equazione: libertà personali + libertà di mercato = liberismo.
La sinistra non ha voluto affrontare la globalizzazione, guardare al resto del mondo rapinato dall’occidente, ai limiti del pianeta, a una visione integrale che coniuga condizione sociale, ambiente, pace, emigrazione.
La sovrapposizione è avvenuta a immagine delle aspirazioni di un ceto sociale che potremmo chiamare sessantottino. Dell’altro ’68, quello che ha vinto, che è andato anche al potere, che si è autodefinito civile e moderno, che ha cominciato a definire l’altro ignorante, e l’altro l’ha capito e l’ha abbandonato.
Tempo fa, vedendo un bel film, Pride, che parlava della lotta dei minatori inglesi contro la Thatcher (una svolta storica) e di un gruppo di gay che vollero portare loro la solidarietà, mi venne in mente che io c’ero a Londra in quella assemblea. C’ero come parlamentare europeo, ma non la vidi come è stata rappresentata nel film.
In quella platea c’erano centinaia di minatori che guardavano sconsolati un gruppetto di fuori di testa: punk, gay e femministe incazzati col mondo.
Ecco, li in quel momento quei minatori uscirono dalla storia della sinistra, come contemporaneamente in Italia uscirono gli operai della Fiat e quel gruppetto, che a me sembrava fuori di testa, vi entrarono e la conquistarono.
24 maggio 2018