di Giorgio Mannacio
1.
Sulle innovazioni tecnologiche si esprimono opinioni contrapposte. Di esse alcuni dicono che rappresentino un progresso. Altri invece sostengono che segnalino una sconfitta del miglioramento del pensiero umano. La questione è indecidibile perché non si sa cosa sia il termine di paragone cioè il PROGRESSO.
Di certo esse costringono a meditare su alcune categorie che riteniamo insite nel nostro sistema di ragionamento.
L’esempio più semplice , quasi banale ma non per questo meno significativo , è quello che pone in relazione lo spazio e l’innovazione tecnologica dei telefoni cellulari. Questi ultimi hanno ormai soppiantato il telefono fisso che è relegato tra gli oggetti culturali. Lo si richiama solo leggendo romanzi d’antan o riguardando film del passato nei quali rappresenta l’ingrediente necessario di intrighi d’amore, spionaggio e morte.
Nella realizzazione tecnologica del telefono fisso il luogo dell’avvenuta comunicazione coincideva esattamente con il punto dello spazio occupato dal comunicatore. Se ipotizziamo che la comunicazione fosse avvenuta per una qualunque pulsione esistenziale ecco che quel punto nello spazio andrebbe definito “luogo“ secondo una celebre distinzione di Goethe.
Anche nel sistema tecnologico del telefono cellulare si mantiene un rapporto tra luogo della comunicazione e collocazione del comunicatore nello spazio, come è dimostrato dalla possibilità di rintracciare con opportune indagini (anch’esse frutto di tecnologia) una certa porzione di spazio entro la quale la comunicazione è avvenuta. Il cellulare che si sposta non realizza quindi l’ubiquità come facoltà di essere contemporaneamente in luoghi diversi, facoltà propria della divinità e, eccezionalmente, di qualche santo.
La portata dell’innovazione è, dunque, modesta e di tipo essenzialmente pratico ma è invece significativo analizzare qualche modalità implicita nel suo uso.
2..
Nel sistema tecnologico del telefono fisso il comunicatore trovava nello spazio – attraverso uno strumento già collocato – un luogo predeterminato. Se voleva comunicare doveva servirsi di apparecchi collocati in un punto già scelto da altri. La sua volontà poteva manifestarsi sia nel volere o non voler la comunicazione che nel definire i contenuti di essa. Nel sistema tecnologico dei cellulari il comunicatore, oltre a scegliere il contenuto della comunicazione, è libero di comunicare da ogni punto dello spazio in cui si trova. Le sue capacità sono aumentate a dismisura. Ma in quale direzione?
Ritengo altamente probabile che le innovazioni (modifiche di oggetti esistenti) siano dettate da esigenze che si avvertono come relativamente indifferibili. In questo senso le innovazioni sono sempre un’esperienza umana, cioè culturale.
Se si prescinde dai fenomeni distorsivi legati alla moda e al mercato, è impossibile negare che l’innovazione del telefono cellulare rappresenti il soddisfacimento di una esigenza reale e profonda legata al qui ed ora di una esperienza umana. Se si prescinde, ancora una volta, dalla patologia sociale di tale fenomeno (che presenta altri punti di interesse “culturale “) e si affonda lo sguardo nel nucleo più significativo di esso, ci accorgiamo che tale innovazione realizza la costruzione di una ulteriore cellula di rapporti. In ogni momento e da ogni parte del mondo abitato si può “partecipare“ alla vita altrui e “far partecipare“ altri alla vita propria. L’esperienza quotidiana si risolve spesso nel fastidio di fronte alla distorsione dell’uso di tale innovazione ma si avverte in esso – nel suo nucleo – un bisogno reale le cui componenti (le più svariate) rappresentano “l’origine e la ragione“ di essa. Se ci concentriamo sul nucleo di tali comunicazioni e cioè sul bisogno che esse esprimono, ne risulta “allargata“ la nozione di luogo come quello che – in virtù del senso del discorso comunicato – fa dello spazio, in cui il comunicatore si trova, un “luogo dell’esistenza“. Il senso di vuoto e di “nudità“ che avverte l’individuo privo del cellulare (smarrito, rubato) non è – nel suo aspetto più profondo – la sospensione di un’abitudine ma la reale perdita di una parte del proprio nucleo esistenziale di rapporti e di nuovo modelli di espressione.
Se queste considerazioni sono corrette (corrispondono cioè ad una qualche verità del nostro comportamento) si arriva alla conclusione che l’innovazione di cui stiamo parlando realizza un allargamento della nozione di spazio nel senso specifico che ne fa una componente mobile della nostra esperienza esistenziale.
3.
Si può concludere che il cellulare fa parte del nostro spazio? Se la coerenza logica del ragionamento fin qui condotto sembra imporci tale conclusione, rispetto ad essa ci si presentano alcune difficoltà. La prima nasce dalla considerazione che non si può in astratto affermare che “il mio cellulare – spazio“ merita maggior considerazione rispetto al “cellulare – spazio“ del mio vicino di metropolitana. Ma la conclusione diversa – che appare ineccepibile – circa l’equivalente valore del “mio“ e del “tuo “ cellulare non è affatto innocente.
L’altro giorno sono salito su una vettura della Metropolitana di Milano assieme ad un signore che – intento ad una conversazione molto dialettica con un lontano interlocutore – quasi mi impediva di accedere alla vettura. Si è seduto di fronte a me accanto ad una persona all’apparenza molto stanca. La conversazione nella quale si intrecciavano – a voce altissima – argomenti disparati (malattie, liti familiari per questioni economiche e relativi giudizi sui protagonisti) continuò per circa venti minuti (forse più). Ad un certo punto il personaggio stanco ebbe una reazione infastidita e gridò all’imperterrito convervatore di smettere o di abbassare il tono. La reazione fu violenta, quasi un’aggressione fisica, accompagnata da una spiegazione che colsi nel suo senso essenziale (il cellulare è mio è faccio quello che voglio). Tutto finì nel nulla perché il personaggio stanco scese alla fermata immediatamente successiva ed io a quella dopo (ma in tempo per rilevare che la conversazione al cellulare continuava il suo percorso).
4.
Suggestionato dalle mie mini-meditazioni sullo spazio, ho deliberatamente tralasciato di spiegare le reazioni quasi violente dell’imperterrito conversatore con una questione di educazione. No, il conversatore al cellulare era – a mio giudizio – convinto che l’apparecchio costituisse a tutti gli effetti “un proprio spazio“ aggredito – senza ragione – da un estraneo. Ma anche il personaggio stanco viveva in un proprio spazio presumibilmente funestato da preoccupazioni esistenziali di vario tipo, che nel silenzio prendevano non benevole forma. Se l’uno e l’altro avessero letto il racconto di E. A. Poe “L’uomo della folla“ avrebbero richiamato – come situazione desiderabile – il curioso adagio di di La Bruyère, posto come epigrafe al racconto citato : “Che grande disgrazia non poter essere soli “.
Si può pensare così ? A parte la qualità delle intemperanze e le ragioni delle reazioni mi sembra di poter concludere affermando che nell’episodio di quotidiana cronaca cittadina sia mancata la considerazione della dimensione collettiva del vivere. L’affermazione di La Bruyère – depurata dal fin troppo palese significato di “snobistico rifiuto“ della folla (l’oraziano Odi profanum vulgus et arceo ) è contro la Storia e l’Umanità.
Riportato il banale episodio reale a quelle che intravedo come manifestazione di una struttura del proprio “spazio“ (vitale), si aprono filoni di indagine di grande importanza. Primo: i limiti della libertà individuale, accertata come dato indiscutibile la presenza di altre libertà individuali. Secondo: l’intensità e qualità dell’aggressione allo spazio altrui. Terzo. La legittimità della reazione all’aggressione altrui (problematica – oggi di pressante attualità politica – della legittima difesa).
Se non possiamo e non vogliamo vivere “soli“ – come individualità insensibili a quella
degli altri – siamo portati di necessità a costruire un sistema di limiti in cui non deve valere la massima – alla fine inquietante – secondo cui “uno è eguale a uno“ ma altra meditazione che valorizzi insieme -individualità e collettività.
…trovo molto interessanti queste “Divagazioni sul telefono cellulare” di Giorgio Mannacio, che prospettano scenari inquietanti sul futuro dei rapporti umani: dove si apre la possibilità di una guerra spaziale tra piccole divinità che si arrogano il diritto ad occupare l’intero spazio, come privato “luogo” esistenziale…Lo spazio che occupiamo con i nostri cellulari è comunque ballerino, se possiamo aprire una comunicazione viaggiando da vari mezzi di trasporto e ciò un po’ ci fa sentire delle piccole divinità onnipotenti , ma poi, come ben illustra l’immagine d’apertura del post, l’essere vicini a chi o a ciò che è lontano e isolati da chi e da ciò che è vicino, non ci rende maggiormente fragili, insicuri e soli?
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