E’ una visione della poesia italiana d’oggi volutamente circoscritta a Milano e abbastanza amicale. Ma forse può riaprire una discussione. [E. A.]
Queste osservazioni riguardano la situazione attuale della poesia italiana, con particolare rilievo a un ambito milanese, finora in maggior evidenza sia come autori e case editrici.
Le principali fonti di queste iniziative restano ancorate a eventi ripetitivi che col passar del tempo appaiono come immutabili. In realtà nell’arco di anni una certa evoluzione c’è stata, anche se mancano a tutt’oggi adeguati supporti critici e una giusta discussione sulle forze in campo.
I poeti non se la passano bene perché non sono autonomi e non possono pubblicare presso case editrici accreditate di una certa credibilità. Mondadori rimane una specie di mito e nulla sembra possa sostituirsi ad esso.
In realtà le piccole case editrici hanno svolto finora una funzione esemplare salvando molti scrittori dall’anonimato. L’unico inconveniente è che in definitiva bisogna pagare ed è molto difficile sfuggire a questa realtà . Quindi soltanto autori come Majorino, Giampiero Neri e pochi altri figurano tra i mondadoriani “omologati”, ammesso che questo termine abbia un valore effettivo. Tra i non paganti, si salvano i “performer” e quelli che hanno “tenuto duro”, i resistenti che hanno svolto un ruolo riconoscibile che li ha resi in evidenza. Un segno di distinzione di pochi eletti tra i tanti.
Ci sono anche le rarità come Alda Merini alla quale ha arriso una fama popolare. Un caso unico, irripetibile, che ha sancito una notorietà forse un po’ discutibile ma in generale condivisa da una grande maggioranza.
Tra le realtà distinte un posto di rilievo meritano i piccoli volumetti pubblicati dal pittore Claudio Granaroli, che hanno superato oltre le centocinquanta copie. Forse paragonabile alle edizioni di Adriano Spatola, poeta visivo e sonoro, distintosi anche con “Verso la poesia totale”. Significativa esperienza figura anche quella di “Testuale”, diretta da Gio Ferri. Unico e costante esempio di critica della poesia
Tra i pochi autori nominabili figurano, oltre a Valerio Magrelli, appartenente a un’area extra milanese, un tris d’assi al femminile che purtroppo non c’è più: come Piera Opezzo, Marta Fabiani e Nadia Campana, grande traduttrice della Dickinson.
Un grande interprete della poesia sonora è Luigi Pasotelli che ha pubblicato “Serraglio”, volume con allegato videocassetta (quelle di una volta).
Un altro grande è Nanni Cagnone, raffinato interprete anche come editore (edizioni Coliseum).
Attualmente un poeta che” tiene botta” è Michelangelo Coviello con la sua “Officina Coviello” di via Tadino, una specie di poeta gemello di Angelo Lumelli di Momperone, entrambi ultimamente usciti presso le Edizioni del Verri. (“La primavera fa ridere i polli”, Coviello; “Bianco è l’istante”, Lumelli.) Gloriose edizioni del Verri, dirette come l’omonima rivista da Milli Graffi, che ha rilanciato tra l’altro una autrice un tempo trascurata come Giulia Niccolai.
In trenta, quarant’anni la poesia bene o male è sopravvissuta con poche eccezioni che confermano la regola, sempre con autori ”pochi ma buoni”. Sempre di straforo. Riflettere su quanto è accaduto forse è opportuno. La Casa della poesia attualmente non è più quella della Palazzina Liberty. Da Majorino a Kemeny molti passi sono ancora da compiere, molte verifiche da analizzare, cose decadute da rivitalizzare.
Concordo in linea di massima sullo “stato dell’arte” descritto da A.Mari, se così si può dire.
Al di là dei nominati o sopravvissuti, mi pare che una certa resistenza poesia e poeti la oppongano al sistema che tende ad annichilirli, non consentendo né pubblicabilità senza oneri (salvo rari casi… e cito per merito Dot.com.press di F. Bianchi) né visibilità o occasioni meno “da sottoscala per iniziati” per far conoscere il proprio lavoro.
Sulla fama della Merini; la trovo molto discutibile, non perché non ci siano anche dei buoni versi tra i mille, alcuni fulminanti e originali, ma perché credo che la sua fama sia dovuta più al personaggio che non ai testi, personaggio che ricalca al femminile quel mito del “poeta maledetto” che andava per la maggiore nel secolo scorso.
MI sembra che oggi il problema che più si pone, o che forse personalmente mi interessa, sia quello di un valido riferimento critico, una funzione che si è persa nel tempo e la cui mancanza si sente. Non si tratta infatti solo di poter usufruire di riflessioni critiche sui testi, ma di rinnovare un dibattito sui modi, le forme, i contenuti delle poesie che circolano. Questo dibattito è ASSENTE o si limita a pochi commenti tra persone che si conoscono e che, in occasioni particolari, riescono anche a riflettere, discutere, scambiarsi opinioni.
Un rilancio dell’interesse e della partecipazione per la poesia potrebbe secondo me svilupparsi a partire da un discorso che implichi la messa in gioco dei testi e dell’autore/autrice in una sorta di “luogo di dibattito aperto”, che dia la parola anche ai lettori e consenta di comprendere un linguaggio particolare (quello poetico appunto) che ha il potere, quando arriva ed è efficace, di essere rivitalizzante, fonte di emozioni e pensieri nuovi.
Ultimamente, in occasione della presentazione del mio ultimo libro, il commento di una ascoltatrice, quello che mi ha fatto più piacere, è stato: “… ho partecipato a diverse letture di poesie, ma oggi per la prima volta ho sentito che scrivete per noi…”.
Ecco, la validazione del lavoro di chi scrive poesie è per me sostanzialmente affermata da questa frase; non una scrittura per sé o di sé dunque, ma qualcosa che esce da sé e va ad incontrare altri. Un terreno di mezzo che è quello del linguaggio poetico, che non è un linguaggio razionale, logico, narrativo, ma qualcosa che si muove e muove altri livelli di sentimento e pensiero.
Con questo suo intervento l’amico Alberto Mari, senza volerlo, ha fatto secondo me un autoritratto di uno di quelli che a me piace chiamare *moltinpoesia* e delle sue ambivalenze irrisolte.
Non gradirà che io lo metta in questa «volgare schiera», ma è un fatto che – sempre secondo me – egli parla dell’attuale dimensione della poesia, che è di massa, con il cuore di altri tempi e con la nostalgia per un altro tempo (mitizzato) della poesia: quello dei padri o dei fratelli maggiori (Majorino, Neri ad es.). Che sia lui che tanti di noi abbiamo appena sfiorato e rischiamo ancora di immaginare come se fosse un piccolo paradiso perduto, dimenticando che mai ci siamo entrati (anche solo per capire com’era fatto davvero!).
Non vorrei essere troppo severo, amaro e polemico, ma lo stesso Alberto potrà negare che, pur essendo anziano quanto me e avendo una lunga produzione di scrittura (e anche di pittura) alle spalle, sia rimasto anche lui nella zona dei poeti ai margini, esclusi, non letti, non invitati o poco invitati ai riti dell’odierno Mercatino/Teatrino poetico?
Di sicuro egli – come me e molti altri – è ormai insofferente nel fare da pubblico ossequioso o plaudente a reading o festival o presentazioni di nuovi poeti e poetesse; ed è in fondo rassegnato, tanto da parlare di « eventi ripetitivi che col passar del tempo appaiono come immutabili».
Accenna ad «una certa evoluzione» nell’arco di anni. Ma l’unica “evoluzione” evidente a tutti è questa: moltissimi (per alcuni troppi) scrivono poesie (o versi…), pubblicano a pagamento; e nessuno (spesso neppure gli amici) o pochissimi le leggono; e quasi mai si azzardano a entrare nel merito dei testi, trincerandosi al massimo dietro al mi piace o al più generico complimento diplomatico.
«Mancano a tutt’oggi adeguati supporti critici e una giusta discussione sulle forze in campo». Ma perché mancano o sono venuti meno? E la «giusta discussione sulle forze in campo», e cioè esprimere dei giudizi di valore chi la impedisce? O chi è in grado di affrontarla? Di più chi ha il coraggio (e gli strumenti e quel minimo di sostegno psicologico e politico, sì, politico) per metterla in cantiere senza arenarsi presto in visioni parrocchiali o amicali o settarie ( qui a Milano o altrove)?
E, se il problema è che i poeti «non sono autonomi» – io pure lo penso e l’ho varie volte dichiarato – non lo sono solo mica perché «non possono pubblicare presso case editrici accreditate di una certa credibilità». Non lo sono perché non hanno un pensiero autonomo su cosa sia o possa essere oggi la poesia o il fare poesia in questa epoca caotica e “liquida”. (Oltre al fatto di non avere, di solito, fondi da investire e reti di amicizie influenti per pubblicare e farsi riconoscere come poeti).
Non lo sono perché, come lui stesso fa, pensano ancora che la «Mondadori rimane una specie di mito e nulla sembra possa sostituirsi ad esso». Ma, come mai la Mondadori rimane ancora una specie di mito? E per sostituirlo cosa bisognerebbe pensare o fare?
Puntare sulle piccole case editrici? Ma quelle al massimo possono (forse) salvare « molti scrittori dall’anonimato». E l’unico inconveniente non è che «bisogna pagare» ( sacrifico che si potrebbe persino affrontare con delle *casse di mutuo soccorso*, se avessero un’idea chiara e forte su cui costruire le loro collane di poesia). L’inconveniente più grosso è che tante piccole case editrici si acconciano ad essere succursali delle grandi, a dare un contentino agli esclusi dalle grandi, ma non hanno – appunto – idee alternative a quelle delle grandi. E ai presunti « mondadoriani “omologati”, ammesso che questo termine abbia un valore effettivo», che dovrebbero rappresentare ancora oggi la crema o la crestomazia della poesia italiana, i *pochi ma buoni* accertati, sanno contrapporre soltanto i molti genericamente abbastanza buoni o quasi buoni o non cattivi. Mentre i poeti-“performer” hanno trovato una nicchia meticciando poesia e oralità-teatralità-spettacolarità massmediale. Ma a *certificare* tutti costoro (per me – insisto – *moltinpoesia*) ci sono solo le parrocchiette – accademiche, paraccademiche, formalmente antiaccademiche – numerose sul web. (Io mi affaccio ancora, disincantato, sui siti «Le parole e le cose», «L’ombra delle Parole», «La dimora del tempo sospeso, la rubrica di poesia su «Gli Stati Generali», ecc.).
Accanto al mito Mondadori Alberto Mari coltiva un altro mito: quello dei poeti che « hanno “tenuto duro”, i resistenti che hanno svolto un ruolo riconoscibile che li ha resi in evidenza». Ma per cosa si distinguono questi altri «pochi eletti tra i tanti»? O si distingueva la milanesissima «La Casa della poesia», quand’era alla Palazzina Liberty?
E poi ci sono le eccezioni che confermerebbero la regola, « le rarità come Alda Merini», che viene certificata poeta/poetessa di grande valore soprattutto perché ha raggiunto « una fama popolare». Ma di questi casi in apparenza unici, irripetibili, ogni tanto ne viene fuori sempre qualcuno (Ad es. Alesi, Cattaneo) ed ogni raggruppamento amicale-culturale si sforza di creare il suo poeta-mito, il suo Rimbaud o la sua Cvetaeva.
Ma la vera, residua consolazione di Alberto mi pare essere quella che io chiamerei la “poesia amicale”, cioè quella fatta dai suoi amici; e qui egli elenca la sua cerchia, come io potrei elencare la mia o un altro la sua. Ma qualcosa manca ancora, credo, in questo quadro “milanese”,che ho cercato di “grattare”. Per ora mi fermo qui, scusandomi per la “cattiveria”. Più avanti, sperando che la discussione si animi, aggiungerò altre riflessioni.
Spero che l’amico Alberto Mari – che ricordo sempre con simpatia – non l’abbia a male se dico che non capisco il senso reale delle sue brevi notazioni. Sono parole nostalgiche, di critica, di propositi detti a mezza voce ? Su ciascuna di queste ipotesi ci sarebbe qualcosa da dire, non da ribattere. Le stesse omissioni relative a nomi di poeti – omissioni ampiamente giustificate posto quello che sto per dire – segnalano una perdita di campo della poesia o, se si vuole essere ottimisti – uno spostamento di esso. Da parte mia ricordo Silvana Colonna, Cosimo Ortesta, Tiziano Rossi e Ermanno Krumm, ahimè scomparso troppo presto. Ma quanti mi sono ignoti e dunque non citati!
Da tempo ho una mia opinione – ovviamente non pretendo che sia quella giusta – che mi permette un certo orientamento o disorientamento. Non si può neppure iniziare un discorso sulla Poesia ( maiuscolo per indicare un categoria di esperienza ) se non affrontando in qualche modo la nostra struttura sociale. Da parte mia mi sono convinto che la “ democratizzazione “ della cultura come esperienza di vita ( che si fraziona nelle diverse forme del pensiero e delle arti ) abbia comportato una decisa trasformazione del rapporto tra poeta e società. Il primo ha perso la qualità di “ vate “ ( legata – a mio giudizio – ad una riconosciuta o pretesa“ superiorità “ del poeta rispetto al “ vulgus “ ); la seconda – posta l’equivalenza delle persone ( “ uno vale uno nella vulgata del politicamente corretto ) comporta l’equivalenza dei linguaggi e l’indifferenza degli uni rispetto agli altri. Veramente vogliamo privilegiare il linguaggio poetico in una società in cui “ per “ è sostituito da X ? Cosa può importare a questa società il verso “ è questa l’ora che volge il disio “ se può scrivere ( può scrivere = è capita ) 1/2fisica al posto di metafisica ? Viviamo sotto la “ dittatura dell’ignoranza “ come scrive Giancarlo Majorino in un suo libretto utilmente provocatorio ? Abbiamo perduto la tensione verso il “ sublime “ come scrive il critico polacco
Zagajewski a favore dell’ordinarietà ? Non sarebbero domande “ capitali “ se non si scontrassero con l’esperienza esistenziale del “ poeta persona “ che investe nella propria esperienza tutto o quasi tutto se stesso sacrificando a volte la propria vita ( Nadia Campana ? ). Allora quello che ho chiamato “ orientamento “ ( che conduce alla fine ad una sorta di agnosticismo e rassegnazione o vuoto senso di superiorità ) si converte in disorientamento nel quale lascio – scusandomi – Alberto Mari e gli altri amici che mi leggono.
Giorgio, 3 settembre 2018.
La poesia percorre la strada dell’attuale, della società che trattiene solamente ciò che sconvolge in superficie.
Al poeta non deve importare nulla di ciò che oggi gira e interessa la gran parte della gente.
Mi sono rivolta ad una tipografia per pubblicare. Chi vorrà leggere farà di me un poeta che ha scritto per non dover lasciare nel cassetto ciò che sentiva utile per gli altri.
Sembra immodestia la mia, ma è solo passione per la poesia e per tutti coloro che vorranno o non vorranno leggerla.
Ho speso poco in denaro. Ho dato ciò che mi ha riempito la vita.
Semplicemente, giacché è così che amo entrare nel groviglio della poesia.
Adde
Le mie osservazioni – buttate giù in fretta e con qualche refuso del quale chiedo venia – non esauriscono l’argomento. Emilia Banfi, con la sua notizia , apre appunto un’ulteriore porta su un campo che è insieme esistenziale e ” politico “. Primo aspetto: perché si continua a scrivere poesia e vi è anzi una sorta di inflazione di questo tipo di comunicazione? Secondo aspetto: perché è così difficile – per molti – acquistare ” visibilità ” ” , aspetto esteriore ma importante del ” valore ” del lavoro poetico di ciascuno di noi. In qualche intervento da me fatto su Poliscritture ho cercato di dare risposte coerenti con le mie premesse ( non necessariamente giuste). Primo aspetto: ci deve essere ” qualcosa ” che connota la specificità del discorso poetico. Secondo aspetto: ai valori c.d oggettivi ( canone, tradizione, comune sentire ) si è sostituito come criterio di selezione tra parlare comune e poesia il criterio ” politico- economico ” del mercato che presuppone diversi
sistemi di selezione. Ciascuno reagisce a proprio modo o non reagisce affatto e vive lo stesso oppure soccombe. Situazione ” tragica ” ? Ma non ne abbiamo intorno di
peggiori ? Giorgio Mannacio.
Giorgio Mannacio
[il poeta che per tutta la sua vicenda umano-poetica ha fatto di tutto per ‘nascondersi’ ai riflettori, preferendo il fil di luce di una candela…]
Ad majora
Dopo la luce al neon
hanno inventato un cilindro
di sego o cera vergine che avvolge uno stoppino.
Acceso getta luce: lo chiamano candela.
Dice la gente in dubbio:
dove andremo a finire ?
Da L’Almanacco dello specchio 1977 n. 6
Giorgio Mannacio sembra che sia passato davanti alla vetrina crepuscolare, osservandone attentamente le novità legate allo spirito di quella stagione lirica; ma entra nella bottega e ne acquista da esperto soltanto pochi oggetti di valore.
Nella lirica scelta questo poeta, fedele alla sua lingua poetica ( com’egli medesimo con candore confidava a Giorgio Linguaglossa bussando alla sua porta) sbarbarianamente ci confida che la sua scommessa letteraria non è l’urlo patologico – né il pianto catartico – ma il tentativo di capire pianissimo, con poco suono, la sorte dell’uomo nelle dinamiche del mondo, visto che alla vita – fragile, breve, delicata come un cristallo di neve – “la morte nulla toglie”.
Credo che Giorgio Mannacio, nella sua formazione umana e culturale abbia incrociato al largo di sua vita la grande lezione di Carlo Diano, anche lui calabrese di nascita (Vibo V.), cogliendo il punto d’intersecazione fra Achille- Forma e Ulisse- Evento, quando nella sua scrittura, tutta da scoprire, adotta “l’abbassamento dei registri lessicali e semantici”, come ci segnala Giorgio Linguaglossa nella sua densa nota critica che accompagna
e illumina un’antologia poetica mannaciana fitta di pepite d’oro… una rarità da custodire, da proteggere, da valorizzare nel balbettio linguistico del nostro tempo. Perché Giorgio Mannacio mostra d’avere compreso pienamente la doppia natura della poesia, in sintesi estrema da intendere come arte del linguaggio e come arte della conoscenza… Come arte del linguaggio la poesia si radica nella lingua, come arte della conoscenza si colloca nella Storia… Più Giorgio Mannacio si nasconde più l’ammirazione per lui lievita in me.
Gino Rago
Concordo con le osservazioni fatte da Ennio Abate e da Giorgio Mannacio che, pur collocandosi in ambiti in parte diversi, confluiscono poi in un punto che riguarda proprio il nesso fra organizzazione sociale e cultura di massa. La seconda proveniva dal diffondersi di un welfare che permise negli anni del dopoguerra un’acculturazione che non ha precedenti nella storia dell’umanità quanto a estensione a ceti che ne erano esclusi. Anche la scrittura poetica che Abate riassume nei tanti in poesia nasce da questo, ma di fronte a un fenomeno così inedito né la critica letteraria e tanto meno il mondo dell’editoria – che è pur sempre un’impresa – potevano farsene carico e neppure ci provarono. Non si trattava in realtà di una vera democratizzazione a metà della cultura ma di una democratizzazione a metà, presto spazzata via dalla fine del modello fordista, mentre altre forme di espressione artistica erano più capaci di parlare ai ceti culturalizzati di recente: la musica popolare colta, Bob Dylan e De Andrè, Fernanda Pivano e l’Antologia di Spoon River. La Mondadori è oggi un residuo di una cultura precedente, omologata al ribasso come tutto il resto:basta andare a vedere chi hanno pubblicato negli ultimi anni e fare un confronto con i poeti che hanno esordito o pubblicato con le piccole case editrici. Non vi è nulla da rimpiangere e anche sulla questione del pagamento, non sempre è così e in ogni caso si può sempre dire di no.
SEMINATOR DI DUBBI (PER APPROFONDIRE…)
Quindi in una società democratizzata:
1. è stata annullata la « riconosciuta o pretesa“ superiorità “ del poeta rispetto al “vulgus»?
2. domina « l’equivalenza dei linguaggi e l’indifferenza degli uni rispetto agli altri»?
3. la perdita della « tensione verso il “ sublime “» ha svelato cose che gli innamorati del sublime occultavano (in poesia e nella storia umana) o ha portato solo “decadenza”?
4. vige il primato o «dittatura dell’ignoranza»? Sicuro? Ma ci può mai essere una”dittatura dell’ignoranza”? Questa formula majoriniana, apparentemente brillante, non è che sia consolatoria? E non s’accorga che i dittatori (perché, se c’è *dittatura* ci saranno pure *dittatori* in carne ed ossa: chi sono?), per manovrare le masse (su certe cose di sicuro ignoranti, su altre affatto), usano fior fiori di specialisti ben poco ignoranti, che utilizzano con grande abilità il serbatoio secolare della cultura aristocratica e di Destra?
5. prevale «ordinarietà» o « agnosticismo e rassegnazione o vuoto senso di superiorità»? e c’è spazio solo per « parole nostalgiche» o per eroismi solitari del «“ poeta persona “ che investe nella propria esperienza tutto o quasi tutto se stesso sacrificando a volte la propria vita»?
6. è davvero consigliabile una sorta di cecità del poeta al quale «non deve importare nulla di ciò che oggi gira e interessa la gran parte della gente»? Purché continui indefessamente a scrivere poesia (o qualcosa del genere)? E malgrado tutti (o quasi) vedano gli effetti deleteri o grotteschi o dannosi dell’« inflazione di questo tipo di comunicazione»? (Pensiamo al profluvio di pubblicazioni che nessuno legge; alle pillole di poesia somministrate come baci perugina a pochi followers compiacenti come cortigiani o sudditi;
alla stitichezza (non concisione!) e al frammentismo“fessbucchiano” per accalappiarsi un pubblico che parrebbe (o è ormai abituato?) a non leggere o a leggere testi al massimo di 4 righe in fila; a stratagemmi furbini che vorrebbero attrarre l’attenzione sulla poesia usando immagini da pornostar come specchietti per le allodole).
Se *questa* è democratizzazione (o democrazia), abbasso *questa* democrazia (velenosa).
*
Se poi:
a. « ai valori c.d oggettivi ( canone, tradizione, comune sentire ) si è sostituito come criterio di selezione tra parlare comune e poesia il criterio ” politico- economico ” del mercato», perché i poeti non dovrebbero impegnarsi a contrastare questo potere che insidia così da vicino «il mestiere di poeta» invece di farsene complici acquiescenti?
b. « un fenomeno così inedito [ i “moltinpoesia”] né la critica letteraria e tanto meno il mondo dell’editoria – che è pur sempre un’impresa – potevano farsene carico e neppure ci provarono», non ci si dà da fare per far risorgere una critica capace di occuparsene? ( E in tal senso proprio a Milano – ed è solo un esempio che conosco, altri ce ne sono che ignoro o conosco meno – Paolo Giovannetti qualcosa di meno balbettante ha tentato di recente con “Poesia italiana degli anni Duemila”),
c. « altre forme di espressione artistica [sono state] più capaci di parlare ai ceti culturalizzati di recente: la musica popolare colta, Bob Dylan e De Andrè, Fernanda Pivano e l’Antologia di Spoon River», perché non coltivare lo stesso la ricerca poetica in nicchie apposite (salotti, gruppo amicale, blog) o addirittura da eremiti, usando « la specificità del discorso poetico» *al meglio* ( e chiarendo cosa debba intendersi per *meglio*)?
d. riteniamo davvero che «una democratizzazione a metà» nel campo della poesia (o della cultura in genere) sia soltanto una *falsa democratizzazione*, l’aut aut mi pare chiaro: o si accetta (o sopporta) questa democratizzazione a metà, perché comunque è “conveniente”, è “il meno peggio” ; oppure, smesse le lamentazioni, le astratte invettive contro i poteri accademici ed editoriali che boicotterebbero (o boicottano) i “refusées” i “rivoluzionari”, i “libertari”, si uniscano le forze disponibili per immaginare/pensare seriamente cosa possa essere in poesia una democratizzazione vera, assoluta.
Poesia è spazio e tempo impiegato per scrivere e leggere. E’ attività umana riconosciuta, anche se mai retribuita. A mio avviso è anche un mestiere, un mestiere che abbiamo dimenticato. Oggi, come faccio io che sono sventurato, non appena finiamo di scrivere, ecco che pubblichiamo sui social o sul blog, se ne abbiamo uno. Per quel che mi riguarda potrebbe anche finire così; ma la consuetudine prevede che se non pubblichi almeno un libro non sei nessuno, non puoi dire la tua, non puoi essere preso sul serio, non sei attendibile: chi sei, che hai fatto, qualcuno ti ha mai recensito? Ecco, penso che in senso stretto tutto ciò abbia poco a che vedere con l’attività del poeta. Ma c’entra con il mestiere: per pubblicare dovrai correggere, rivedere, magari aspettare un po’ che le stesse poesie ti piacciano ancora dopo un mese, due, o anche dopo un anno… E questo è lavoro, non semplice diletto. E’ così per tutte le arti; anche i pittori non possono presentare opere raffazzonate, che nemmeno l’autore capisce a fondo. Che cosa espone a fare? Non è disonesta l’incompiutezza, la cosa non risolta?
In confidenza: ho 64 anni, scrivo da quando ero alle elementari e non ho mai pubblicato. Mi infastidisce perfino l’idea di doverlo fare. Poesia è difficile, corre corre e la distanza con il lettore si è fatta tale che, per poterla apprezzare, alcune cose bisogna saperle; perché le poesie hanno due facce, una è quella che sembra, e per tanti motivi può anche sembrare brutta, invece l’altra faccia è nascosta, e chi non sa non vede né può capirci nulla. Non è questione di linguaggio, che quello riguarda principalmente ciò che sembra, ma di ritrovarsi fortunosamente nella fantasia o nell’intelletto di altri, abitanti di questo tempo o di un altro che verrà. Eh sì, si fa presto a dire pubblico un libro… e tutte ‘ste menate sull’editoria, sulle congreghe degli amici, sul degrado culturale, eccetera: perché non dire onestamente del proprio scontento? Davvero, queste sono cose che non aiutano.
Lucio e Ennio dicono una cosa comune:
Lucio: “perché le poesie hanno due facce, una è quella che sembra, e per tanti motivi può anche sembrare brutta, invece l’altra faccia è nascosta, e chi non sa non vede né può capirci nulla. Non è questione di linguaggio, che quello riguarda principalmente ciò che sembra, *ma di ritrovarsi fortunosamente nella fantasia o nell’intelletto di altri, abitanti di questo tempo o di un altro che verrà*” (corsivo mio);
Ennio: “se il problema è che i poeti «non sono autonomi» … non lo sono perché non hanno un pensiero autonomo su cosa sia o possa essere oggi la poesia o il fare poesia in questa epoca caotica e ‘liquida’ […]
perché non coltivare lo stesso la ricerca poetica in nicchie apposite (salotti, gruppo amicale, blog) o addirittura da eremiti, usando «la specificità del discorso poetico» *al meglio* ( e chiarendo cosa debba intendersi per *meglio*)? […]
si uniscano le forze disponibili per immaginare/pensare seriamente cosa possa essere in poesia una democratizzazione vera, assoluta.”
Ma questo avviene con l’entrare nel merito dei testi: la poesia sono le poesie (la pittura sono i quadri, ecc)
Carissimo Gino ( Rago ), come potrei cominciare diversamente ? Ho letto il tuo messaggio – testimonianza e ti dico – senza retorica alcuna – che mi ha letteralmente commosso. Le ragioni sono molteplici , quasi equivalenti e solo l’esigenza tassonomica della grammatica mi costringe ad un elenco. Prima ragione: sei, come io sono, calabrese. Sono nato in un piccolo paese ( San Nicola da Crissa ) a due passi dal luogo natale del grande Diano del quale ho ricevuto uno scritto a cura dalla Biblioteca calabrese di Soriano Calabro. Saranno frottole ma le radici non si dimenticano. Seconda ragione: mi hai ricordato ! E’ il massimo che potessi aspettarmi in un tempo di solitudine e dimenticanza. E mi hai ricordato citando un epigramma che segna il mio “ingresso “ ( si fa per dire) nel mondo della poesia. Esso fu pubblicato non nell’Almanacco dello Specchio ma ne Il Verri Sezione Diario minimo curata da Umberto Eco ( 1959 n. 5 ). Quanta acqua è passata sotto i ponti e quanti tram ho perduto da allora. Terza ragione ( penso la più importante ): la tua lettura
( partecipata e d acuta ) . Che la mia bottiglia con il messaggio cifrato sia capitata nelle tue mani è davvero una felice ricompensa. Ho potuto leggere qualche tua composizione e l’ho fatto con grande piacere ma con qualche fatica : tra i tanti frutti dell’età ho dovuto raccogliere anche una maculopatia all’occhio sinistro che mi rende difficoltosa la lettura dei testi scritti in caratteri minuti. Ho visto che anche tu frequenti sommessamente ma con decisione gli antichi sapienti
( Democrito, ad esempio mi è parso ben presente ). Anche questo a aspetto mi avvicina a te.
Teniamoci in contatto. Mandami il tuo indirizzo sia di posta “ ordinaria “ che e-mail . Il mio primo è viale Papiniano 47 – 20123 Milano ; il secondo: .g.mannacio@alice.it.
Un fraterno abbraccio. Giorgio.
Caro Signor Giorgio Mannacio,
[p.c. caro Signor Giorgio Linguaglossa, caro Signor Ennio Abate,
cari Signori Poeti di Poliscritture]
rispondo io alla missiva,
collaboro con Gino Rago da poco, sono Annette,
la pronipote di Simone Weil,
Zia Simone per alcuni era la ‘mistica Simone’,
per altri ‘Simone-la- filosofa’, per altri ancora la ‘rivoluzionaria’.
Per me fu e rimane Zia Simone dai capelli sempre in disordine,
la donna senza trucchi,
pronta a spingere il suo corpo contro ogni tirannia.
[…]
In questo momento G.R. non è nel bugigattolo
che (per compiacerlo) anche io chiamo ‘il-suo-studio’.
Si è precipitato per le scale per andare a sedare una rissa.
Nella piazzetta sotto casa litigavano Virgilio e Omero sull’idea di tempo
e sul verso alessandrino.
Mi pare di avere notato fra i litiganti
anche Dante Alighieri spiando dai vetri della finestra.
Dava ragione a Virgilio, al suo concetto di movimento lineare,
al suo modello lineare dell’esistenza:
«Ha ragione Virgilio, altro che tautologia tra causa ed effetto e cerchi che si chiudono,
altro che ritorno perpetuo alle origini. Enea non torna e non fa ritorno nemmeno il mio Ulisse…»
Omero era furioso, Virgilio non scherzava sostenuto da Dante nella lite.
Non so come finirà.
Anzi, addirittura Dante ha urlato a squarciagola che Virgilio è il primo poeta cristiano dell’Impero di Roma,
Omero non l’ha presa bene [“…il mio Ulisse fa ritorno a Itaca”]
Gino Rago
Caro Sig. Gino Rago,
le discussioni non sono «risse» e non contano solo quelle che avvengono all’Ombra delle Parole sulla Montagna degli Spiriti Magni.
Queste dei *moltinpoesia* son d’altro ra(n)go: https://moltinpoesia.blogspot.com/2011/05/critica-ennio-abate-dialoghetto-n1-tra.html#more
Non me ne voglia. Salutamm’e…
Samizdat
A Ennio Abate:
Quando dico che al poeta non deve importare cosa gira, non intendevo in senso di disinteresse , ma al contrario nel senso del continuare nell’idea che lo spinge a scrivere nonostante ciò che gira …
Portare poesia anche in FB penso che sia positivo, anzi direi molto utile.
… puntualizzazione sacrosanta direi!
…l’idea dei Moltinpoesia è valida, secondo me, in quanto delimita, ma prova anche a valorizzare un fenomeno quasi di massa conseguente alla grande scolarizzazione della popolazione e alla diffusione della cultura. Tuttavia mi sembra essere rimasta poco più di un’dea perchè i componenti dei Moltinpoesia, come dispersi in tentativi di raggiungere una forma di visibilità e di riconoscimento ( a buon diritto), si muovono isolati, senza una consapevolezza di appartenenza…A volte finiscono per riprodursi le stesse dinamiche presenti nelle “alte sfere”. competizione, asservimento “in piccolo” al mercato…Al gruppo, per essere tale, mancano ancora un riuscire ad appoggiarsi a valori comuni, un muoversi attraverso modalità diverse. “Eppur si muove”
“Ma questo avviene con l’entrare nel merito dei testi: la poesia sono le poesie (la pittura sono i quadri, ecc)” (Fischer)
Correggerei. La poesia sta nei testi prodotti, ma la poesia è fatta da poeti/poetesse e, dunque, esiste anche un problema dei poeti. (Esiste per me anche una *politica* e un’*etica* dei poeti, ma rimando la questione ad altra occasione). L’affermazione della Fischer è un modo davvero troppo disinvolto e snob di saltare i problemi che questo post, che parla appunto di poeti (a Milano), solleva. Come i contadini, nel coltivare una pianta di pere, hanno in mente nozioni di agricoltura e regole da rispettare, così un poeta o aspirante poeta, per arrivare a produrre un testo poetico, ha in mente idee tratte da libri o riviste, amici a cui fa leggere i suoi testi ecc. Esistevano ed esistono comunità di poeti e aspiranti poeti che dibattono o si scontrano o si incensano vicendevolmente; e comunque s’ influenzano – positivamente o negativamente: nulla è scontato. E *l’ambiente poetico* circostante non è indifferente. Quindi, almeno finché saremo vivi, i rapporti con gli altri (poeti o aspiranti poeti, critici o aspiranti) contano. E, confrontati con quelli delle precedenti generazioni, possono essere migliori o peggiori. Com’erano a Milano, quando agivano certe figure e certi gruppi, come sono oggi?
Sarebbe bene che ciascuno facesse un bilancio. Tengo a precisare che dal 1995, quando ho cominciato ad occuparmi pubblicamente (anche) di poesia in vari luoghi-riviste (Manocomete, Inoltre, Il Monte Analogo, Laboratorio Moltinpoesia, Poliscritture), ho sempre tentato di promuovere momenti di *cooperazione critica non diplomatica né individualista*.
APPENDICE
editoriale del n. 4 del Monte Analogo che scrissi nell’aprile del 2006:
Foto di gruppo con riviste
Nell’ottobre 2005 «Il Monte Analogo» ha risposto assieme ad altre 26 riviste italiane di poesia a un questionario di 13 domande proposto dalla rivista on line «L’Ulisse», diretta da Broggi, Dentati e Salvi. Rileggere pazientemente i risultati dell’inchiesta pubblicate sul n.5-6 della rivista nel sito http://www.liecollelibri.it permette sia di rivedere la nostra immagine in una sorta di foto di gruppo sia di riflettere sul lavoro d’insieme di un campione rilevante di quanti si occupano oggi in Italia a vario titolo della poesia italiana.
Si ha, infatti, la percezione diretta della varietà delle ricerche attuali, della complessità dei problemi irrisolti e delle difficoltà di affrontarli.
Vediamo con ordine:
Nelle dichiarazioni di programma (o di poetica) si va dal recupero del simbolismo in polemica con le neoavanguardie (es. Anterem, Smerilliana, Atelier) allo sguardo socio-antropologico (es. Atelier, Clessidra, La mosca di Milano, Pagine, Polimnia, Annuario, Le voci della luna), dal ripensamento critico (o storico-critico) dello spazio letterario o poetico (es. Kamen, Il segnale, Hebenon, Tratti) alla volontà di relazionare la poesia con l’extra-letterario sociale e a volte politico (es. Daemon, La gru, Pagine zero, Re, Semicerchio, Versodove, Nuovi argomenti).
Notevoli sono anche le differenze tra le riviste che danno prevalenza o esclusività alla poesia (ad es. Anterem) o alla critica (ad es. Kamen, Hebenon) e riviste che non perdono di vista l’extraletterario («Il Monte Analogo», col suo sottotitolo rivista di poesia e ricerca forse sta a mezza strada tra i due poli). Si colgono poi tante altre diversità e sfumature, ricollegabili agli ambiti sociali o istituzionali in cui agiscono i redattori, alla scelta, motivata o meno, dei destinatari: c’è chi si rivolge a un pubblico non specializzato o a lettori-scrittori sentiti alla pari dai redattori; e chi opera in ambiti parauniversitari e paraeditoriali o è collegato ai mass media e a grosse istituzioni (Nuovi argomenti, Re, Semicerchio) ed ha col pubblico un rapporto più verticale e gerarchico. Anche la gestione organizzativa – sempre secondo le dichiarazioni – ha le forme più varie: può essere collegiale (Il Segnale), iperindividualista (Steve), scegliere come logo l’artigianalità (Atelier) o la professionalità (Tratti).
I problemi aperti e spesso comuni a varie riviste sembrano essere: la critica all’accademia o alla grande editoria (a volte con accentuazioni esasperate e moralistiche: Atelier, Hebenon, Clessidra); la volontà di misurarsi con la «globalizzazione»: uscire da un ambito strettamente nazionale per aprirsi alle letterature straniere o alle cosiddette letterature “minori”; il bisogno di confronto e di dialogo (a volte espresso in modi enfatici e astratti); l’affermazione (spesso dogmatica…) del valore etico della poesia (Atelier, Versodove); la pluralità delle ricerche in corso (a volte sentita come una ricchezza, a volte come una minaccia). In particolare, un problema di grande attualità storica, come quello della cultura della differenza impostosi col femminismo, pare centrale solo in Voci della luna, appare aggiunto ne Il Segnale, non è presente in modo dichiarato nelle altre.
Alla fine di queste considerazioni a me viene spontaneo porre una questione: le riviste sono state per così dire esposte “in vetrina” su un sito del Web, ma ciascuna resta nella sua celletta ad oscillare tra competizione e cooperazione. A quando un dialogo critico non diplomatico, non cannibalico, non settario su alcune questioni dirimenti per uscire da un vago e ormai asfissiante pluralismo per passare da una sorta di privatizzazione della ricerca poetica ad una messa in comune dell’esperienza plurale che oggi caratterizza quest’epoca e non solo in poesia?
Può parere scandaloso a certi poeti e critici letterari, ma è ora d’imparare da microbiologi, genetisti e altri scienziati convinti assertori che il sapere e l’informazione non vengono prodotti da singoli individui, bensì collettivamente, attraverso la cooperazione; e che quindi la natura sociale e comune della produzione odierna mette in discussione la privatizzazione delle conoscenze, dei saperi, dell’informazione e delle reti comunicative. Questo, anche se si fa finta di non accorgersene e troppe sono ancora le resistenze, vale un po’ anche per la poesia (o almeno per il lavoro che fanno le riviste di poesia).
Chiediamoci, infatti, perché dei singoli – poeti o critici – tendono a *fare rivista*. Anche se scetticismo e individualismo sono sempre in agguato e le redazioni funzionano spesso da recinti “patriottici” pur proclamando volontà di dialogo e aperture all’*altro*, i singoli oggi accettano sempre più spesso di “fare gruppo” (fare rivista è questo).
Perché “lo spirito del tempo” lo richiede (o, più terra terra, le trasformazioni del lavoro e della società spingono in questa direzione), l’individualismo romantico è acqua passata e nel *far rivista* i singoli sentono la possibilità di anticipare qualcosa che serve anche ad arricchire la propria singolarità, sempre meno separabile dal *resto* (chiamatelo come volete: materia, mondo, società, inconscio, moltitudine, *altro*).
Realisticamente le attuali riviste restano per lo più una palestra (a volte un ring) per poeti e critici. In esse esigenze di singoli, esigenze di gruppo e esigenze del *resto* si fanno sentire. A volte si arriva a buone mediazioni, a volte colluttano malamente. Ma se l’esperienza resiste nel tempo e si diffonde nello spazio, ci sarà – si spera – per i partecipanti un acquisto di saggezza, ci saranno metamorfosi: il singolare si coniugherà col plurale in forme meticce e ibride e alla fine – se venti favorevoli spireranno portando aria fresca e nuova – l’io sarà meno io (chiuso, narcisista, a tutto tondo) che all’inizio e il noi meno noi (superegoico, rigido, burocratico).
Cosa verrà fuori? Non lo sappiamo. Ma sentiamo che oggi nessuno dei due modelli estremi e a loro modo classici della storia delle riviste novecentesche (quella incentrata sulla forte personalità dell’Autore e quella avanguardistica più o meno collegiale (i futuristi, la neoavanguardia, ecc.), pur essendo riprese, può valere per questo presente di convulsa transizione (dal moderno al postmoderno per alcuni, di *disagio della civiltà* senza sbocco rassicurante per altri).
Per finire. L’analisi della nostra foto di rivista nel gruppo delle altre c’induce a un sano relativismo, ci stimola a riesaminare quello che facciamo anche alla luce di cosa fanno le altre, ma anche a passare dalla foto di gruppo a un fotografarsi reciproco e a un commento sulle varie foto. Sarebbe un bel passo avanti, invece di convivere diplomaticamente, senza lode e infamia, senza pestarsi mai i piedi, in un nomadismo di redattori che spesso alimenta gli individualismi e castiga l’importanza del momento collettivo, che per affermarsi nel suo giusto valore ha bisogni di riflessione, dialogo critico, franchezza.
Altero un po’ il testo dell’editoriale “anche passare dalla foto di gruppo a un *fotografarsi reciproco e a un commento sulle varie foto* sarebbe un bel passo avanti, invece di convivere diplomaticamente, senza lode e infamia, senza pestarsi mai i piedi”…
Questo succede: incontri e confronti tra riviste, tra poetiche, tra idee, tra informazioni agricole, ma verificare la somiglianza delle foto ai soggetti, commentare la scelta delle inquadrature, la disposizione dei piani, la luce, e cogliere quindi il collocamento nel mondo, questo partire dal frutto di tutto il lavoro che viene prima, è proprio quello che non si fa, o si fa il poco che occorre.
Non si entra nelle poesie degli altri perché c’è nudità, ma in società si sta vestiti nei modi consentiti.
Brava Cristiana Fischer!
Caro Ennio, i tuoi interrogativi segnalano una richiesta di risposta. Non risponderò dunque – fin quando mi è possibile – con altri punti di domanda. Anche se non definitivo, ho qualche orientamento ( vacillante ) e a questo mi atterrò.
1 e 2.
Rispondo SI.’ Non v’è alcuna contraddizione tra tale risposta e la c.d proliferazione dei poeti. A parte il rilievo banalmente statistico che i poeti sono comunque una minoranza rispetto al
“ vulgus “, occorre considerare un dato antropologico ( spesso disatteso ) e cioè che alcuni credono ancora a tale “ superiorità ( la si può tradurre come “ specificità per non essere tacciati di superbi ), espressione di un loro inalienabile microcosmo significativo . Questo dato segnala una sacca di resistenza rispetto alle tendenze del sistema società. Le ragioni di tale resistenza meritano un discorso antropologico-esistenziale che esula dal campo delle nostre domande-risposte.
Quando parlo di vulgus intendo descrivere semplicemente la frattura tra tendenze e resistenze.
Quanto alla proliferazione, le ragioni sono collegate – in parte – a due fattori ( alfabetizzazione di massa, relativa ordinarietà delle capacità di scrivere rispetto alla difficoltà di altre arti ).
Ma – torno al punto – resta all’origine la forte convinzione della specificità della poesia.
3.
Non credo si debba demonizzare più di tanto la ricerca del sublime se nel contempo si piange sulla “ morte della poesia “ e se ne sottolinea la specificità. Sublime è semplicemente una scrittura sopra il limite dell’ordinarietà ( si chiami questa lingua dei commerci, propaganda , relazioni mondane ) )
Non ho mai parlato di decadenza in generale per la semplice ragione che mi sfugge il termine di paragone che è “ progresso in generale “.
Si può anche dire – se si vuole estremizzare – “ muoia la Poesia con tutti i filistei “.
4.
Continuo a ritenere stimolante il saggio di Majorino. Non escludo affatto che esso sia reticente sull’individuazione dei dittatori e sulle modalità e misura della dittatura . Ma questo è un problema dell’autore del saggio e non mio. Credo che il punto abbia precise connessioni con la politica culturale dei vari Governi italiani. Si può sostenere con buone ragioni che la Sinistra non è mai stata al Governo. Ma se è così manca la c.d controprova su quella che sarebbe stata la politica culturale della Sinistra. Resta aperto il problema “ Minculpop “
5.
Se parliamo di poesia autentica ( preferisco parlare di poesia autentica e non di vera poesia, come è stato detto a Milano tempo fa a proposito della Palazzina Liberty) non si può sottovalutare l’investimento che il poeta, come “ quella “persona determinata “ ,con tutto il suo vissuto opera sul proprio lavoro. E’ la qualità, quantità e modalità di tale investimento che misura – in parte – l’autenticità della poesia.
6
il punto non esige da parte mia alcuna risposta perché ne condivido i punti essenziali. Esso è infatti una descrizione dello “ stato dell’arte “ ( si fa per dire ) che anche in me suscita molte perplessità.
Non debbo essere io a insegnarti come la democrazia sia un sistema di governo largamente imperfetto e dunque fallibile. Ma se siamo pronti a imprecare contro la “ democrazia politica “ ben venga imprecare contro quella culturale. Che non basti imprecareè certo ma hic sunt leones
( anche in politica )
Proseguo sui punti alfabetici sui quali è forse possibile una risposta globale
Tempo fa credo di aver scritto qualcosa su Poliscritture relativamente alla necessità di criteri di selezione. Sinteticamente mi ripeto.
Quando parlo – riguardo al passato – di criteri oggettivi intendevo dire ( era chiaro nella mia spiegazione , a parte la sua validità ) che si trattava di valori accettati per mancanza di voci autorevoli che li contestassero. Per una serie di ragioni oggi non è così. E dunque o si rinuncia alla selezione ( di valutazione estetica ) o se ne cercano altri.
Il campo è aperto da una serie impressionante di “ conflitti di interesse “ che – se penalmente perseguibili – riempirebbero le carceri di poeti-critici, di critici poeti, di responsabili editoriali-poeti e di poeti-responsabili editoriali….Così è o mi pare. Si dovrebbe pensare ad un’opera culturalmente capace di critica letteraria che senza pregiudizi, interessi di parte, condizionamenti economici che fosse in grado di “ orientare “ verso la comprensione del valore di un’opera. Sul punto non mi pronuncio perché non ho sufficiente competenza e – confesso – le mie lettura di critici sono scarse. Non conosco il lavoro critico di Giovannetti .
Dei nomi di artisti che citi nulla da dire . Il mio Spoon River è datato DICEMBRE 1950
ed è sempre in bella vista nella mia bibliotechina. Almeno su questo punto siamo d’accordo.
Non ho la presunzione di capire a fondo , senza aiuto, il valore di un’opera sia essa una poesia ovvero un quadro ,una scultura, un brano musicale.
Chi crede nel proprio lavoro ha – in certo senso – il dovere di farlo conoscere e non sarei eccessivamente severo nel giudicare le mosse che ciascuno mette in atto per diventare pubblico e collettivo.
Ma questo punto esula dalle risposte che – giuste o sbagliate – credo di averti dato. Un cordialissimo saluto. Giorgio
A Giorgio Mannacio
Discorso molto democratico che apprezzo moltissimo.
La critica deve essere aperta comunque su tutti i fronti.
Ringrazio Giorgio Mannacio per aver risposto anche al mio dubbio “se pubblicare”.
“Chi crede nel proprio lavoro ha – in certo senso – il dovere di farlo conoscere”.
Mi sembra di capire quel “certo senso”, in fondo tutte le parole che scriviamo sono rivolte a qualcuno, per qualcosa, e poi ci sono le letture, i ripensamenti, in questi giorni per me anche un fastidioso mal di schiena, che metto in conto… Grazie, e buon tutto.
@ Giorgio Mannacio
PICCOLE PRECISAZIONI E POI TACCIO
Punti 1 e 2.
Sì, può darsi che la « riconosciuta o pretesa“ superiorità “ del poeta rispetto al “vulgus» segnali « una sacca di resistenza rispetto alle tendenze del sistema società», che – piatto piatto – per me è quella *capitalistica*. Ma nella storia – e pure nella poesia o nella cultura in generale – le resistenze vanno distinte. Per riprendere una recente polemica che ho avuto con Linguaglossa (qui: https://www.facebook.com/groups/1632439070340925/permalink/2186089708309189/ ), una cosa è la resistenza di un Heidegger e un’altra quella di Fortini.
Punto 3.
Non demonizzo il sublime. Non tutta la scrittura che oltrepassa l’«ordinarietà (si chiami questa lingua dei commerci, propaganda , relazioni mondane» è sublime. ( Comunque io ce l’ho con un certo sublime: https://moltinpoesia.blogspot.com/2010/12/quarto-dialogo-sulla-bellezza-tra.html).
Versi in forma di distici per Giorgio Mannacio, per Samizdat,
per i poeti delle parole abitate e delle parole disabitate.
Giorgio Mannacio, [cultura, garbo,finissima civiltà poetica lo sostengono in ogni suo scritto]è tra i pochi a sapere che per amare il poeta ha bisogno del deserto perché colui/colei che dobbiamo amare è sempre assente…
Gino Rago
Testamento
[Vi lascio parole senza suono]
Vi lascio le schegge. Vi lascio il sole.
Vi lascio la grandine, la pioggia, il vento.
Vi lascio i cascami delle fonderie,
Le scorie radioattive,
La ricchezza del mondo in poche mani,
Le macromolecole di veleni.
Vi lascio le vernici, la plastica, i trucioli
E il grafene.
Vi lascio parole senza suono,
I sentieri del dolore,
Le vie della mano sinistra,
Il catrame, le maschere, le colle,
L’alluminio in lamine per le scodelle dei cani,
Le limature, la calce viva, le polveri sottili.
Vi lascio il sorriso del prigioniero.
L’ansia d’azzurro di madri nel nero.
Vi lascio.
Vi lascio le stelle che brilleranno
E le schegge di quest’uomo nel fango.
Vi lascio il fango.
Vi lascio i versi del poeta, il suo gesto nel vuoto,
I suoi frammenti sparpagliati nei libri.
Vi lascio i libri
Per essere più liberi.
—————————————————-
GR
@ Gino Rago
Distici (finto o davvero) mistici
somministrati ai domestici?
Testamento? Un momento!
A me pare un monumento.
Lasciarci il mondo così com’è?
Ma gli faccia almeno un bidet!
@ Ennio Abate
Ricevo, leggo e anch’io sto zitto. Giorgio
E’ un crescendo (a partire da un certo punto):
Vi lascio.
Schegge nel fango.
Il fango.
I (miei) versi del poeta.
Vi lascio i libri (i miei fra quelli).
Per essere più liberi(?)
Chi, da cosa?
Mi perdoni Rago il cinismo, riparto da una botte.
(Vecchia, ahimè, in cui non mettere vino nuovo).
cristiana fischer,
“Grazie per la lettura.
Resta un po’ con i miei versi,
resta almeno un’ora con me.
Fammi sentire il tuo respiro,
dietro la schiena.
In petto si destano
mille usignoli.
Si destano.”
gr
Per C. Fischer
https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/09/08/commenti-liberi-e-improvvisati-su-due-poesie-postate-da-gino-rago-il-7-settembre-2018-partecipano-al-dibattito-giuseppe-talia-lucio-mayoor-tosi-giorgio-linguaglossa/#more-26207
gr
Gentile Gino Rago, mi pare che la abbia turbata il mio commento, che era una lettura trasversale di una intenzione non nascosta nella sua poesia, intenzione abbracciante ma paterna e disponibile nei confronti di chi discuteva di estetica e di poetiche. Mi ero data per l’occasione una attitudine riduttiva riguardo i propositi, quindi anche i suoi. Non posso andare oltre valutando poesia e scritti che non conosco, leggerò volentieri però quanto mi segnala sull’ombra delle parole. Cordialmente, Cristiana
Dall’archivio segreto delle lettere a E.L., scritte di nascosto e mai spedite, estraggo questa, destinata a Jolanda W. di Cracovia
Gino Rago
37ma Lettera a E. L.*
[Il liquido reagente]
Cara Signora Jolanda W.,
Il mio Amico poeta di Roma**
dice che possediamo il Liquido Reagente.
Ma chi davvero svela all’Occidente l’enigma dell’Occidente
e il messaggio di aiuto nella bottiglia?
Lei parla con saggezza del Prodotto Interno della Felicità,
del fatturato della Felicità in vigore nel Butan.
Forse nel Butan era un sogno
e il rompicapo di misurare il PIF non finiva con la luna piena.
Anche Lei conosce le cene cifrate, i segreti delle scarpe
che si toccano sotto il tavolo.
Sa, il motore della sofferenza dei poeti gracchia sempre
nello stesso istante del mondo,
questo mondo Lei e io lo chiamiamo “Rebus”
perché se ne infischia delle nostre domande.
E.L.* è Ewa Lipska
Il mio Amico poeta di Roma** è Giorgio Linguaglossa
———————————————————————
GR
@ Gino Rago
Garbatamente e non per censurare, ma per stare coi piedi per terra:
1.
Che senso ha intervenire nella discussione di questo post (che ha un tema preciso: «Poeti (a Milano). Un’opinione », trascurando completamento quello che l’autore del posto e i vari commentatori dicono e proponendo un ultimo testo, che sta tra il (solito) metafisico- oscuro e lo spot pubblicitario per il suo ” Amico poeta di Roma”?
2.
Che senso ha riprendere (quasi in contemporanea) su «L’Ombra delle Parole» (qui: https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/09/09/poesia-scritta-a-sei-mani-una-poesia-di-giuseppe-talia-mauro-pierno-giorgio-linguaglossa-gino-rago-commenti-di-giorgio-mannacio-lucio-mayoor-tosi-donatella-costantina-giancaspero-e-altri-uno/#more-26210) uno stralcio di Giorgio Mannacio, sradicandolo da questa discussione in corso (e indicando, sì, genericamente «da Poliscritture», ma senza indicare il link che permetterebbe all’eventuale lettore di risalire alla fonte esatta e al suo contesto)?
3.
Se si vuole un confronto, che avvenga nel merito delle questioni qui sollevate. E dialogando a tono. E in modi comprensibili ai lettori di Poliscritture, come cercano di fare tutti i commentatori.
4.
Se si desidera invece proporre poesie proprie o di altri, le mandi a poliscritture@gmail.com
Gentilissimo Ennio Abate,
Lei fa benissimo a redarguirmi, sollecitando gli/le autori/autrici dei commenti a restare con i piedi per terra ovvero a non eludere il tema posto sul tappeto. Ma i numerosi commenti che precedono il mio hanno gettato sul tappeto tali e tanti temi, argomenti, spunti di riflessione [fra i più terribilmente significativi quelli concernenti la cosiddetta ‘critica letteraria’, per esempio] che eventuali deragliamenti non è semplice tenerli a bada. Tuttavia, se intervengo ancora è solo per codeste Sue parole “[…] che sta tra il (solito) metafisico- oscuro e lo spot pubblicitario per il suo ” amico[…]” alle quali risponderei che
in realtà quei miei versi più esattamente son un tentativo di poesia bustrofedica in forma epistolare, genere nel quale è Maestra ineguagliata proprio Ewa Lipska in quel suo, per me efficacissimo, oscillare fra poesia in prosa e prosa poetica…
Gentilissimo Ennio Abate,
La ringrazio per la ospitalità che vorrà concedere anche al pezzo, che propongo al palato assai fine dei frequentatori di Poliscritture, dedicato a uno dei lavori poetici di Ewa Lipska.
G R
————————————————————-
Gino Rago
Il tema del trasferimento della memoria in Ewa Lipska in una poesia bustrofedica in forma epistolare
Tornando a Ewa Lipska, e mettendo a frutto alcune riflessioni di Luigia Sorrentino e di Marina Ciccarini, ripropongo la sua prosa poetica:
[Ewa Lipska
Il protagonista del romanzo
Cara signora Schubert, il protagonista del mio romanzo
trascina un baule. Nel baule ci sono la madre, le sorelle, la famiglia,
la guerra, la morte. Io non sono in grado di aiutarlo.
Si tira dietro quel baule per duecentocinquanta pagine.
Non si regge più in piedi. E quando finalmente esce dal romanzo,
viene derubato di tutto. Perde la madre,
le sorelle, la famiglia, la guerra, la morte. In un forum
su internet scrivono che gli sta bene.
Forse è un ebreo o un nano? I testimoni
affermano che taceranno su questo argomento.]
(Traduzione di Marina Ciccarini)
Direi che in questa prosa poetica si può parlare di una sorta di trasferimento della Memoria da un uomo solo a un intero popolo e dalla prosa alla poesia.
Ewa Lipska in Il protagonista del romanzo racconta la storia di un uomo, di un uomo solo.
Quest’uomo trascina in un baule tutta la sua famiglia, la trascina come se fosse un corpo morto.
Dentro il baule la Lipska ha messo tutto l’orrore della Seconda Guerra Mondiale, tutte le catastrofi di interi popoli e anche la Shoah, la Catastrofe senza pari.
Sicché, tramite il dolore di un uomo solo, l’autrice magistralmente ci racconta il dolore di un intero popolo, il popolo polacco che, come fu anche per altri popoli europei ,a quella tragedia ha dovuto assistere senza la possibilità reale di poterne concretamente deviare o interrompere il disastroso corso.
Ma proprio in Polonia, come tutti sappiamo dalla storia, negli anni hitleriani della Guerra si trovavano i più terribili campi di sterminio nazisti…
Per questo da grande poeta la Lipska in questa sua prosa poetica
fa ricorso al “trasferimento di memoria”.
Lo compie andando da un uomo solo a un popolo, da un popolo all’altro, da un confine all’altro, ma anche andando dai confini della prosa a quelli della poesia.
Lo fa nella riuscitissima forma epistolare in cui un uomo racconta ad una donna, forse austriaca, di certo la moglie di Schubert il grande musicista, la vicenda umana e la storia di un altro uomo, un ebreo, appunto, deriso su un social network. [ “Forse è un ebreo o un nano? I testimoni/ affermano che taceranno su questo argomento.”].
Dove risiede la grandezza del poeta di Cracovia? Risiede nel fatto che in appena due versi, e all’interno di una poesia bustrofedica in forma epistolare, la Lipska cala nel suo testo tutto l’antisemitismo che ancora alberga fra noi con testimoni che si avvalgono della facoltà di non rispondere…
E non voler testimoniare, oggi come allora, significa negare la verità crudele della storia con il rischio permanente di perpetrare il male, nel tempo e nello spazio.
G R
Un contadino disse
Io sono libero
perché non leggo mai
Stiró le braccia verso l’alto
guardò il cielo e disse
_ chi sa ciò che so io qualcuno
che ha scritto un libro
che sa si terra
che ha sentito
le parole di quella quercia
lo sguardo del grano
sull’autostrada di fumo
La storia di quella stalla
la gioia del parto
la fine della vita.
Troppi libri figlia mia
Buttali via.
Poeti a Milano? Cosa ne penso e come li sento lo dissi qui. E qui sto:
Contro i poeti che in tempo di guerra non tremano abbastanza
Abitò qui a Milano il poeta.
Coi suoi libri, una rosa in un bicchiere e la radio spenta.
Di botto erano cessati le urla nelle piazze e gli spari.
Altrove ammazzavano ora i Guerrieri. Sempre lasciando una vittima viva,
una donna di solito, che, piangendo, narrasse.
Il poeta tremante l’ascoltò, scrisse sette amare canzonette *
e morì.
Ma oggi si dice: in democrazia sono uomini come tutti gli altri, i poeti!
Non si sentano in obbligo di scrivere contro la guerra! Facciano bene
quel che san fare, le poesie. Nessuno di più da loro pretenda.
Uomini come tutti gli altri sono pure i guerrieri
e quel che sanno fare
ben fanno.
Addetta l’una al massacro permanente,
l’altra orgogliosa del canto suo sciancato,
maîtresses entrambe di democrazia,
in coppia procedano, orsù, guerra e poesia.
Vano è domandare ai poeti se sanguina mai
la loro rosa nel bicchiere
o tremano a volte i versi nelle plaquette.
Altrove kamikaze esplodono. E mai raggiungeranno
l’altezza sublime
della melliflua poesia adagiata sull’opulento divano occidentale.
(17 ottobre 2004/ 8 novembre 2007)
*Franco Fortini, Sette canzonette del Golfo in “Composita solvantur”, Einaudi 1994, Torino.
“[…la rosa nel bicchiere…]” stupenda metafora o immagine metaforica in grado di riportare alcuni lettori a Franco Costabile, da tempo sospinto nel totale oblio…
gr
REPETITA IUVANT? (1)
Per proseguire il discorso, tengo a dire che a me interessa stabilire soprattutto con quali altri territori confina oggi quello della poesia.
Di solito si dà per scontato che essa confini con le arti, la filosofia, l’antropologia, la religione, ecc. e molti si affaccendano a promuovere scambi, confronti, contaminazioni, tra poesia e pittura, poesia e sacro, poesia e Essere.
Ma da qualche decennio su alcuni confini, una volta particolarmente trafficati, – mi riferisco a quelli che portano ai territori del sociale, della critica e della – nominiamo il mostro! – politica, che io ancora visito costantemente – sono stati eretti muri altissimi, non di cemento, come quello vergognoso della West Bank, ma “immateriali” eppure tanto più resistenti quanto più si presentano a-ideologici o a-politici, per rendersi appetibili al senso comune della cosiddetta “ggente” dei nostri paesi modernizzati e/o postindustriali.
A causa di questi muri e della conseguente interruzione dei traffici coi territori appena detti, il territorio della poesia è diventato a partire all’incirca dagli anni Settanta del Novecento un grande casino, una babele solo apparentemente plurale e libera.
I molti avrebbero invaso come barbari i tradizionali sacrari della poesia, eretto accampamenti reali o virtuali (sul Web), scriverebbero troppo e leggerebbero poco, pubblicherebbero a più non posso, ecc. in barba ai critici, che una volta erano temuti governatori dei sacrari poetici e doganieri.
(da un mio intervento per l’incontro intitolato “Il Territorio della Poesia: Le Riviste”, tenutosi alla “Casa della poesia” al Trotter di Milano il 25 giugno 2007)
REPETITA IUVANT? (2)
Cosa fanno i critici oggi?
Prendiamo un loro esemplare in vista, Alfonso Berardinelli, del quale proprio adesso per Le lettere è uscita un’antologia con suoi testi, un’intervista e una presentazione a cura di E. Zinato.
Come tanti ha seguito una traiettoria, che va da un’antologia “storica”, Il pubblico della poesia (scritta con Cordelli nel 1975) a Il diario, una «rivista personale con periodicità variabile», scritta con Bellocchio e uscita dal 1985 al 1993.
La traiettoria va dall’esaltazione della pluralità, intesa come un essere «più liberi di andarsene ciascuno per la sua strada» (230) rompendo i ceppi dell’ideologia imposti da quegli imperialisti culturali degli anni Sessanta che erano i Novissimi, al rigetto altezzoso, individualista e rancoroso dei maestri (Fortini in particolare: vedasi Stili dell’estremismo del 1993…?), della politica, della stessa critica letteraria come istituzione, della scuola e alla collaborazione con i grandi giornali (compreso Il Foglio).
Dopo aver scambiato la deriva per atto liberatorio e messo in un calderone pluralità, caos, vitalità e illusioni su un poetare facile (233). Finalmente pentito, dichiara:
«la sola cosa che veniva comunicata a quei “tutti” che affollavano le letture di poesia era la voglia di fare tutti poesia, di produrla in proprio invece che leggere e ascoltare quella scritta da altri, da quegli individui speciali che pretendevano di essere loro e solo loro poeticamente creativi» (232)
E arriva alla certificazione di morte dell’antologia di poesia contemporanea ( che è poi una rinuncia ad occuparsi di ricerca poetica contemporanea) :
«Nessun catalogo, nessuna bibliografia, e tanto meno nessuna antologia potrebbe ormai contenere il mare della Nuova Poesia Italiana. Nessun Ercole dell’informazione e della critica potrebbe venire a capo di questa Idra dalle mille teste». ( Berardinelli 1984)
Altri invece
1) insistono a fare antologie alla vecchia maniera elitaria arrivando a volte alla loro parodia come Piccini, La poesia italiana dal 1960 a oggi:
individualismo poetico alla ennesima potenza, cancellazione di ogni categoria di corrente, gruppo o tradizione, abolizione dei “cattivi maestri” della neoavanguardia, scelta di una triade del presente (Ceni, Mussapi e Rondoni) nostalgica imitazione delle triadi per bravi liceali di un tempo che fu.
Oppure come Testa, Dopo la lirica,– serio, pensante – chiudono alla sperimentazione e puntano sullo “specifico letterario”
2) puntano all’antologia “espansa”, a una sorta di pesca più o meno accorta e ragionata nei bacini più limpidi (per loro) della nebulosa poetante
come Loi –Rondoni, come Cucchi-Giovanardi, come – è però un ibrido che fa eccezione e di cui ora dirò, Parola plurale.
Altri ancora, tra quelli ce considero più seri, s’interrogano pensosi sulla crisi del mestiere di critico o si occupano esclusivamente di classici, disinteressandosi del tutto della poesia venuta dopo gli anni Settanta.
——————————————
Unico esempio di ripresa critica – UN IBRIDO INTERESSANTE – è quello dei giovani critici di Parola plurale.
Rispetto alle altre antologie ha il merito di affacciarsi nella nebulosa poetante italiana d’oggi e in modi seri e agguerriti facendo lavorare in gruppo una schiera di giovani critici, etc.
A me preme comunque sottolineare i limiti e i compromessi dell’operazione:
1) Indica il punto di rottura, la «faglia epocale»
[(causa più lontana e profonda il ’68) che ha separato la Poesia Moderna, dotata di una «Idea della Forma», da quella d’oggi: attorno al 1975 – anno per gli autori fortemente simbolico (Montale ottenne il Nobel, fu ucciso Pasolini e uscì Il pubblico della poesia di Berardinelli e Cordelli, antologia cult da cui questa prende le mosse) – La nuova fase è quella di una «Odissea di Forme»…] ma non spiega, non ragiona sul perché di questa rottura.
2) Dà una visione della poesia troppo ottimistica
[ «serve, eccome, serve a tutti appunto senza servire nessuno».
L’affermazione a me pare generosa e simpaticamente paradossale.
Ma siamo proprio sicuri?
Le inquiete interrogazioni di alcuni dimenticati maestri del passato anche recente, qua e là omaggiati, ma in realtà evitati – sono bellamente saltate.
Si ha insomma l’impressione che gli autori abbiano troppa fretta di celebrare il nòstos della poesia.
Ma in quale Itaca essa torna in tempi di globalizzazione (e di guerra globale)?
Sarà un nòstos di resistenza o di accomodamento? ]
3)
ragiona su una sezione della produzione poetica contemporanea comunque ristretta (anche se onestamente lo dichiara):
quella monitorata da alcune cattedre universitarie (Roma in primis) e da alcuni editori “minori”.
Anche per Parola plurale resta insondato il cosiddetto “sottobosco”
che, finché non mappato convenientemente, non andrebbe snobbato.
Ultima obiezione imboccata la via del plurale, del molteplice (di Deleuze insomma e sullo sfondo io ci metterei la via della «democrazia assoluta» di Spinoza), non si capisce bene perché i curatori insistano ancora a fare un’antologia, anche se più plurale e seria di quella di altri pluralisti.
(da un mio intervento per l’incontro intitolato “Il Territorio della Poesia: Le Riviste”, tenutosi alla “Casa della poesia” al Trotter di Milano il 25 giugno 2007)
REPETITA IUVANT? (3)
Sono tanti oggi i singoli che s’impegnano a fare rivista e conseguentemente a “fare gruppo” (fare rivista è questo).
Penso che i singoli sentono che solo così possono anticipare qualcosa che li arricchisce e misurarsi al meglio con il resto (chiamatelo come volete: materia, mondo, società, inconscio, moltitudine, altro).
Ma se scetticismo e individualismo non vengono praticamente contrastati nella stessa organizzazione del far rivista, esse resteranno recinti patriottici e settari o palestre (a volte persino ring) per poeti e critici.
Il fatto è che oggi siamo di fronte all’indebolimento storico dei due modelli estremi, contrapposti e a loro modo classici della storia delle riviste novecentesche – quello incentrato sulla forte personalità dell’Autore e quello avanguardistico solo apparentemente collegiale (i futuristi, la neoavanguardia, ecc.).
fare rivista significa puntare all’obbiettivo di raccogliere la crisi dell’io (dei singoli, dei redattori) renderlo meno chiuso, narcisista e a tutto tondo) e contemporaneamente la crisi del noi , rendendolo meno superegoico, rigido, burocratico.
Fare rivista implica oggi dunque impegno per uscire e fare uscire molti dalle proprie solitudini e confrontarsi con altri/e, diventando scuola di cooperazione, di messa in comune e trasformazione di quello che spesso da soli appare immutabile ed eterno.
Fare rivista però non ci porta a negare o a sottovalutare la dimensione solitaria e singolare che è propria di ogni ricerca e non solo di quella poetica.
(da un mio intervento per l’incontro intitolato “Il Territorio della Poesia: Le Riviste”, tenutosi alla “Casa della poesia” al Trotter di Milano il 25 giugno 2007)
REPETITA IUVANT? (4)
Basta con lo snobismo all’inverso della rivista che accoglie solo poeti “non famosi”, “trascurati”. Attenzione sicuramente ai molti, così come sono. Ma sappiamo pure il semplice inventario di testi e di nomi non basta. Bisogna capire se questa “scrittura poetica di massa” covi in sé qualcosa di liberatorio o se non si riduca – come molti con un po’ di boria insinuano – a semplice sfogo, a forme espressive epigoniche o velleitarie.
Vorrei che Poliscritture si impegnasse di più nell’approfondimento della polisemia e specificità dei testi poetici contemporanei (della loro forma, della loro bellezza), che diventi crocevia di incontri tra scriventi sconosciuti, anche stranieri, in cerca non solo di un legittimo riconoscimento per sé ma di nuovi strumenti interpretativi in cui collocare le proprie ricerche, di una nuova critica insomma, capace, attraverso saggi, inchieste, seminari, di delineare un’estetica per una poesia dei molti.
Ma per far questo bisogna che i grumi delle varie crisi ( della poesia, della critica, della politica) si sciolgano attraverso un confronto serrato fra tutte queste pratiche .
Bisogna che i muri “immateriali” ( ma un po’ sempre materiali) che su certi confini sono stati costruiti vengano smantellati.
Poliscritture potrebbe svolgere il compito di rivista-cerniera tra dimensione lirica della poesia e dimensione sociale e storica; costruire un plurale non genericamente pluralistico o genericamente interdisciplinare e passare DAL PLURALE ALLA COOPERAZIONE IN COMUNE…
Il vero rischio oggi è che più che scoprire la ricchezza e le potenzialità del pluraleci si rassegni ad un generico plurale, ad una nuova ideologia del pluralismo, che sostituisce il vituperato monismo di una volta, ma finisce per svolgere la funzione soporifera che è di ogni ideologia.
Il plurale è per Poliscritture il problema da cui partire e non il punto d’arrivo già raggiunto.
Il problema che va posto è questo: come mappare e sviluppare il plurale in tutti i territori in cui Poliscritture si muove?
Oppure: come mantenere fluidi come in vasi comunicanti livelli alti,medi, bassi invece di moltiplicare monadi, gruppetti, cordate amicali incomunicanti tra loro.
Penso perciò che Poliscritture possa essere un luogo, un laboratorio per l’individuazione di un “noi” comune, che ci potrebbe tenere insieme
senza farci smettere di essere singoli.
E la poesia in questo processo è un elemento importante quanto gli altri.
Si dice che il territorio della poesia sia stato stravolto perché ha surrogato per molti dei vuoti: quelli lasciati dalla fine della politica, quelli che si aprono nelle esistenze sempre più chiuse dei singoli; o che sia a volte il surrogato a buon mercato di un’analisi non a tutti permessa.
Togliamo il disprezzo o lo snobismo presente in certe diagnosi e andiamo a verificare se in questi laboratori di ricerca ( di poesia, sulla poesia, sulla storia, la politica, ecc.) si discuta in modi veramente plurali e mirando ad un noi comune da costruire e se vi si possa imparare a distinguere le spinte estetiche e politiche capaci di generare non solo una *poesia dei molti*
ma nuove *forme di vita per i molti*, perché oggi non siamo semplicemente – come dicono i critici di Parola plurale – ad una *Odissea di Forme poetiche*. Siamo ad una *Odissea delle forme di vita* e ciascuno deve farci i conti.
(da un mio intervento per l’incontro intitolato “Il Territorio della Poesia: Le Riviste”, tenutosi alla “Casa della poesia” al Trotter di Milano il 25 giugno 2007)
REPETITA IUVANT? (5)
C’è infine la questione del pubblico che poi è prossima alla questione della forma che la rivista deve/può assumere:
Si dibatte spesso ( Mangano, etc.) sulla sua forma: cartacea e/o on line?(problema che implica un volontà di rivolgersi ad un pubblico “tradizionale” o “nuovo” o, in altri termini, ipotesi più o meno contrapposte di continuità o discontinuità col passato). Si dibatte sui contenuti (attuali/inattuali) e sul ruolo che possono svolgere le riviste di fronte alla nuova e impetuosa «grande trasformazione» (o «mondializzazione») che squassa, insieme al “resto”, anche il mondo culturale.
Quali contenuti:
Il presente, quello che abbiamo sotto i nostri occhi è fatto di guerra, di computer, di denaro, di televisione, di distruzione di uomini e natura. È da secoli quello inaccettabile del Capitale.
A me pare che molte riviste di poesia si siano accucciate in questo presente, cartaceo o virtuale che sia, e facciano da contorno delicato ai piatti forti serviti in festival e convegni universitari. La poesia ( in effetti singoli poeti), riceve sottobanco spiccioli da sponsor ambigui, fa lo spogliarello veloce o asseconda il sonno della ragione alla TV. E viene apprezzata tuttora – ahimè! – per il suo tradizionale «valore auratico» o – ahimè ancora! – per i suoi paramenti di «religione privata, mistica laica», contribuendo a far sopportare con qualche lagrimuccia il sangue versato nelle nuove guerre.
La poesia in Poliscritture vorrei che fosse una poesia «critica», come quella che in passato si era contrapposta al Capitale a modo suo; e non si facessefa mai *del tutto* politica, filosofia, scienza, religione o ideologia di una comunità o di una classe sociale.
Questa poesia però ( come scrissi per QUI. Appunti dal presente di Massimo Parizzi) è finita nel pozzo della guerra in Irak. È la mia potesi poco letteraria che qui sintetizzo brutalmente. E, sempre per ellissi, aggiungo che fin dagli anni Sessanta la poesia italiana stava faticosamente esodando, uscendo cioè da una consunta dialettica tutta interna alla tradizione nazionale, ma che oggi, sotto l’urto della mondializzazione, il suo esodo (come tanti altri materiali e mentali) è stato bloccato dalla guerra permanente (per ora in Irak) e dai suoi deleteri effetti, visibili in tutti i campi e fin negli interstizi della nostra vita quotidiana o inconscia.
Sarà davvero possibile far crescere dentro Poliscritture la poesia esodante? Non lo so. Ma sarebbe un bel passo avanti se poeti e poetesse (e non solo loro) si riproponessero il problema di una qualità e di una bellezza comune, di tutti e per tutti, cancellato dai venti di guerra e da questa mondializzazione imperiale. Riprendendo magari non le formule ma gli interrogativi, anche politici e sociali, presenti nella «poesia critica» degli anni Sessanta, contrastando politicamente e poeticamente il rapporto gerarchico fra pochi e molti, consolidatosi pure nell’istituzione poesia (materiale come tutte le altre), mirando a costruire una lingua comune (semplice, ma non banale e commerciale come quella dominante nei mass media). Che sorgerà solo dalla piena espansione delle potenzialità poetiche presenti genericamente nelle esperienze che, come singoli-molti, riusciamo a fare nel tempo di vita e nel tempo di lavoro, per una buona parte di noi sempre più interconnessi; e, da sistemare, spero, in un collettivo *De vulgari eloquentia* adatto a questi tempi.
Poesia e riviste sono andate spesso a braccetto. E oggi ce ne vorrebbero tante di riviste capaci di offrire alla nebulosa poetante inchiodata a questo presente del Capitale una prospettiva coerente per cominciare o riprendere assieme agli altri l’esodo interrotto.
(da un mio intervento per l’incontro intitolato “Il Territorio della Poesia: Le Riviste”, tenutosi alla “Casa della poesia” al Trotter di Milano il 25 giugno 2007)
REPETITA IUVANT? (6)
Esistono già tracce di essa in quel che si va dicendo o scrivendo oggi in poesia? È difficile dirlo. Una prospettiva *esodante* forse può essere solo intravista allegoricamente, accostando con la forza dell’immaginazione le figure oscure che vediamo agitarsi nelle folle dei migranti, dei lavoratori dell’*immateriale* ( o della *conoscenza*) e dei sempre più numerosi poetanti.
Migranti, nuovo proletariato, scriventi poesie. In questa moltitudine c’è di tutto: ambivalenza, nostalgia per la “Grande” poesia di un certo passato o “di sempre”, coltivazione in serra di genietti, fabbricazione di sottocorporazioni generazionali (i giovani poeti *scalpitanti sugli elmi ai moribondi*). C’è di tutto: arrivismo, improvvisazione; e forse anche un aspetto tumorale. La *nebulosa dei poetanti* cresce ma è atomizzata, non cooperante. Recita dialogo e critica, invece di praticarli seriamente. Ma se nel suo agitarsi ci fosse anche solo un germe per la formazione di una intelligente resistenza della poesia al presente del Capitale, come redattori di riviste di poesia e di letteratura e «non di poesia, non di letteratura, ma di ”appunti dal presente”» come Qui [la rivista di Parizzi], non dovremmo farcelo sfuggire.
E mi permetto perciò di evocare un’”eventualità” piuttosto interessante e magari avveniristica: un tipo di poesia – parlo della *poesia che sarebbe da fare* – che risultasse palesemente incoerente con questo presente.
Un tipo di poesia, stufa di essere *ancilla* di qualcosa o cenerentola in un angolo della rivista “intellettuale”, ma stufa pure di starsene in clausura nelle riviste di poesia “pura” e che pretendesse di entrare in fecondo dialogo/conflitto con i collaboratori-redattori delle più varie riviste (e discipline), pretendendo di svolgere un ruolo non aggiuntivo, non esornativo, ma alla pari con gli altri testi o addirittura d’inventarsi contenitori diversi dalle attuali riviste e più adatti al suo libero ma non capriccioso *poiein*.
Sono aspettative astruse (oggi), lo riconosco. Illuminano però, per contrasto, il misero panorama culturale di questo presente fintamente plurale.
Ma, ditemi, non sarebbe bella una prospettiva come questa appena accennata? Non sarebbe auspicabile una poesia che s’interrogasse e si facesse interrogare anche dai non poeti? Che s’interrogasse e si facesse interrogare sia sul *sommerso* (concetti o enciclopedie di concetti) su cui poggiano le riviste nelle quali viene ospitata e sia sul *sommerso* di questo presente del Capitale?
A me una poesia di questo tipo, capace di non allinearsi elegantemente o convivere senza mai pestare i piedi (e farseli pestare) con il pensiero di A, la testimonianza di B, il saggio di C, risulterebbe davvero simpatica.
Pensate, una poesia che – come sa fare solo lei – suggerisse ai suoi tanti falsi/veri devoti: frequentate di più la ‘realtà’, anche se non sapete più cosa indichi oggi questa parola.
(da un mio intervento per l’incontro intitolato “Il Territorio della Poesia: Le Riviste”, tenutosi alla “Casa della poesia” al Trotter di Milano il 25 giugno 2007)
Una proposta di impostazione “ fenomenologica “
1 Anch’io ho qualche repetita. Se torno sull’argomento rompendo l’impegno precedente di stare zitto è solo per fare onore al lungo intervento di Ennio ( Repetita juvant ? ) e precisare che la mia impostazione – prevalentemente fenomenologica/ esistenziale ( ma nulla a che fare con Heidegger dal cui pensiero sono ontano mille miglia ) – non serve a risolvere i problemi che ci interessano ma solo ad arrivare a “ nodi cruciali ineludibili “ ( secondo me, ovviamente ) ai quali apporre ben definiti punti di domanda.
2.
E allora.
A ) Rilevo nella società attuale la presenza di persone che esperiscono modalità di comunicazione con caratteristiche particolari.
A queste comunicazioni codesti nostri simili danno nome di “ poesia “ e si (auto) definiscono
“ poeti “
B ) In linea di principio non possiamo contestare questo loro porsi “ nel mondo “ sotto qualunque punto di vista.
C ) Alla base di queste autoattribuzioni sta il convincimento della diversità di tali comunicazioni e del possesso di una particolare capacità di produrle.
D ) Le persone di cui sub A e le loro opere sono soggette da parte di altre forze a una sorta di
“ verifica “ della legittimità della autoattribuzione della qualifca di poeti e dell’autoqualifica delle loro opere come “ poesia “.
E ) A tale verifica possono provvedere : a ) i meri fruitori delle opere; b) altri sedicenti poeti che mettono in campo le loro sedicenti poesie; c) da soggetti che si autodefiniscono “ giudici “ delle autoattribuzioni o che hanno “ il potere “di diffondere le poesie in una determinata società e in un determinato periodo storico.
F) Correlato a quanto detto sub C la verifica di cui sub D avviene confermando o negando le qualità di cui ho detto
G ) In via di principio quelli che da ora in poi chiamerò semplicemente “ poeti “ si mostrano variamente sensibili alla diffusione delle loro opera e dunque tendono ad ottenere una conferma oggettiva della loro qualità influendo in qualche modo sui tre fattori che ho indicato .
H) In linea di principio il poeta è indifferente ai giudizi del mero fruitore a meno che questi non incidano sul giudizio degli dei soggetti di cui sub b e c della lettera E.
I ) Il valore del giudizio dei soggetti di cui alla lettera b di E dipende dal convincimento della natura storico- sociale del giudizio di altri poeti e dunque della loro più o meno intensa rilevanza.
L ) Il giudizio di legittimità sub D dipende dalla posizione di alcuni criteri di giudizio che si ritengono validi da chi più o meno espressamente li formulano.
3.
Questa è la sequenza sottesa al mio modo di impostare la questione. Come ho detto a ciascun punto di essa – e certo qualche passaggio mi è sfuggito – si pongono quei punti interrogativi di merito puntualmente messi in luce da Repetita juvant ( ? ) di Ennio.
G.M 10 ottobre 2018.
@ Giorgio Mannacio
Semplifico ( per intendere meglio) il tuo discorso fenomenologico/esistenziale. Oggi molti comunicano (ma in questo modo la poesia rientra in pieno nelle *scienze delle comunicazioni*!) secondo «caratteristiche particolari» (differenti da quelle solite). Esse vengono dette *poesia* e i loro produttori si autodefiniscono o sono riconosciuti come *poeti*. Altri – i lettori («i meri fruitori delle opere»), i poeti riconosciuti come tali o sedicenti («altri sedicenti poeti che mettono in campo le loro sedicenti poesie»), i critici («soggetti che si autodefiniscono “ giudici “ delle autoattribuzioni o che hanno “ il potere “di diffondere le poesie in una determinata società e in un determinato periodo storico») – si prendono il potere o lo sfizio di verificare quanto e se queste comunicazioni siano veramente poetiche (e se i loro autori vadano considerati poeti). Gli “esaminati”, desiderosi di farsi conoscere attraverso le loro comunicazioni (poetiche), ambiscono soprattutto ricevere un giudizio qualificato ( dai critici e da altri poeti riconosciuti).
A me pare che questa fenomenologia sia statica. Dica quello che accadeva (forse) una volta. O quello che dovrebbe accadere oggi, ma non accade. O almeno non accade in modi chiari, convincenti, accettabili. E perciò discutiamo, litighiamo, facciamo analisi e proposte. Non consideri, cioè: la caoticità piena di ambivalenze ( e trabocchetti) dell’attuale situazione; il venir meno o la minore affidabilità (o autorità) dei critici (riconosciuti o sedicenti); l’aggiramento di questa via elitaria e maestra (una volta) attraverso la proliferazioni *massificata* di miriadi di luoghi (piccole case editrici, blog, riviste, cenacoli, ecc.), dove il riconoscimento delle comunicazioni (poetiche) e del singolo come poeta subisce ( molto più di una volta e in modi abbastanza selvaggi e spesso palesemente truffaldini) patteggiamenti, manipolazioni, adeguamenti, fraintendimenti, strumentalizzazioni, ecc. Come del resto in altri settori. Dalla politica, all’economia, alla cultura. Se questa caoticità ambivalente fosse mero polverone, se « nulla di nuovo sotto il sole almeno da due o tre millenni, » nasce e tutto si ripete, come ha commentato Alberto Rizzi in POLISCRITTURE FB [1], tutti questi nostri discorsi andrebbero come minimo smessi immediatamente, perché inutili. Ci penserà una Mano Invisibile (provvidenziale?) anche in poesia. E noi finiremo schiuma sugli scogli.
[1] Alberto Rizzi Credo che la Poesia già lo faccia di suo; cioè già sia dispostissima a dialogare coi “non poeti” e che sempre si occupi anche dei “sommersi” (che nella realtà sono moltissimi): ripeto, credo che questo sia nella sua anima. Il punto è che per dialogare bisogna essere in due: e si sa che alle volte i poeti “sono restii” ai dialoghi (magari preferendo i più rassicuranti premi a pagamento…); e che d’altra parte un sacco di “non poeti” ritiene che chi scrive poesia, sia un povero sfigato che – nella migliore delle ipotesi – ha un sacco di tempo da perdere. Cosa rimane? Un certo numero di poeti pronti al dialogo con una minoranza di persone altrettanto disponibile: nulla di nuovo sotto il sole almeno da due o tre millenni, insomma…
@ Gino Rago
“Gentilissimo Ennio Abate,
La ringrazio per la ospitalità che vorrà concedere anche al pezzo, che propongo al palato assai fine dei frequentatori di Poliscritture, dedicato a uno dei lavori poetici di Ewa Lipska.
G R”
Io semplicemente la invitavo e la invito a intervenire nella discussione del post, se ha cose da dire sulle questioni sollevate; e a inviare invece a poliscritture@gmail.com testi (possibilmente inediti) su Ewa Lipska o altri autori, che pubblicherò a parte in appositi post e riceveranno – spero- commenti appropriati. Perché, malgrado i miei sforzi, non vedo una connessione evidente con gli argomenti qui discussi. Se i suoi versi sono “un tentativo di poesia bustrofedica in forma epistolare, genere nel quale è Maestra ineguagliata proprio Ewa Lipska in quel suo, per me efficacissimo, oscillare fra poesia in prosa e prosa poetica…”, andrebbero valutati in un post che affrontasse appunto il tema del rapporto prosa/poesia. Non qui.
@ ENNIO
Caro Ennio, non è una replica, ma una precisazione. Ho parlato di comunicazione nel senso che i poeti vogliono comunicare. Niente Scienza della comunicazioni (propaganda, pubblicità etc ) come risulta chiaro dal fatto che ho distinto esplicitamente la comunicazione poetica dalle altre. Il mio taglio fenomenologico – anche questo risulta chiaro dalla parte finale del mio intervento – non rinuncia a tutte le tue domande di Repetita anzi le salva tutte, ma le trasporta in un campo di esperienza umana totale. Credo di essere stato chiaro -in alcuni interventi su P. – sul fatto che spesso e per ragioni “politiche” (cioè di potere) quello che chiami “sottobosco” ( che in genere è termine dispregiativo ma che può essere letto anche in altro modo) non è insondabile ma INSONDATO, cioè messo da parte razionalmente in esecuzione di un preciso disegno di esclusione. Perciò i tuoi interrogativi di Repetita restano validi anche per me ma io li porto dentro una struttura di ragionamento che è senza dubbio opinabile ma entro la quale mi oriento meglio. Non trascuro neppur l’eventualità apocalittica della schiuma sugli scogli come del resto una certa Fisica non esclude la morte termica dell’Universo (secondo principio della Termodinamica). Un cordiale saluto. Giorgio
SEGNALAZIONE
Poesia e nuovi media
http://www.leparoleelecose.it/?p=33721
Stralcio:
Dire che la poesia contemporanea è un genere negletto dalla critica recente è ormai una sorta di cliché dello stesso discorso critico. Forse si è storicamente troppo vicini al fenomeno per averne uno sguardo d’insieme; forse la poesia nelle sue forme tradizionali, sebbene ancora molto praticata, non riesce a tener testa a nuove esperienze artistiche. In ogni caso, una maggiore comprensione delle tecnologie che danno forma alla nostra vita, alla nostra creatività e alla nostra riflessione critica, può aiutare a cogliere quelle non-contemporaneità a cui si è accennato e a capire dov’è la poesia oggi, ancor prima di chiedersi cos’è.
Commento mio:
Oh, ci fosse una parola sugli effetti *politici* sulla poesia ( e annessi) delle “tecnologie che danno forma alla nostra vita, alla nostra creatività e alla nostra riflessione critica”!
Effetto Salvini anche in poesia?
SEGNALAZIONE
*Questo libro ha a che fare anche con questa nostra discussione.
Massimo De Carolis
Il paradosso antropologico
Nicchie, micromondi e dissociazione psichica
(https://www.quodlibet.it/libro/9788822902184)
Che cosa unisce l’identità dei singoli individui a quella dei soggetti collettivi, delle nazioni e dei popoli? Come si legano tra loro l’unità dell’io e quella del noi? Un tempo, l’una e l’altra erano affidate a una medesima scissione orizzontale, che divideva nettamente un alto e un basso: all’Io il compito di sottomettere gli istinti e le pulsioni, allo Stato quello di contenere le spinte centrifughe della moltitudine, per garantire l’unità del popolo. Da qualche decennio però un tale equilibrio sembra sfaldarsi sotto i nostri occhi, lasciando il posto a una rete di scissioni verticali, una miriade di spazi circoscritti, nicchie e micromondi artificiali, situati spesso in una zona grigia che rende i fatti indistinguibili dalle rappresentazioni. Uno scenario ancora in piena evoluzione, che al momento però sembra imporre agli individui un regime di precarietà e dissociazione sempre più profondo, lasciando emergere nei suoi interstizi solo delle comunità imperfette: troppo fragili e interdipendenti per potersi segregare in uno spazio autarchico, ma troppo ostili e concentrate su se stesse per riuscire a cooperare in una forma non antagonistica.
Sono fenomeni molto recenti, nei quali traspare però una dinamica paradossale che marca da sempre l’animale umano, consegnato dalla sua stessa costituzione biologica a due istanze opposte ma ugualmente imprescindibili: proteggersi dal disordine del mondo, perimetrando una nicchia artificiale, ed esporsi, al contrario, alla contingenza illimitata, per riconoscervi l’unico ambiente veramente adatto all’uomo. È solo leggendole come riflessi di questo paradosso antropologico che le forme di vita del presente, pur restando inquietanti, svelano la loro profondità interna e il loro insospettato potenziale innovativo.
@ Massimo De Carolis – Ennio Abate
Il breve testo che precede mi ha colpito per la sua profondità. Lo accetto in pieno nella sua apertura problematica. Mi spinge a leggere il libro dal quale è tratto. Mi convince questo partire dalla specifica considerazione della ” condition humaine “. Della sua struttura problematica. Grazie a Ennio per la segnalazione.
Giorgio Mannacio
…mi sembra un discorso molto interessante: “perimetrare una nicchia”, per difendersi dal disordine del mondo puo’ anche coincidere con uno spazio che vive dentro di noi, di valori, di convinzioni, percio’ disponibile alla “contingenza illimitata, per riconoscervi l’unico ambiente veramente adatto all’uomo”…Ma tuttora sussiste un burrone di paure e di egoismi a separare le due prospettive, che pur convivono. Solo un cambiamento genetico potrebbe colmarlo, si spera comunque in un “inaspettato potenziale innovativo” da parte delle future nuove generazioni, credo
Miei cari, vi siete dimenticati di rastrelli, Raffaello e Sagredo?
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Prova n.° 2
(estorsione)
Io so come gli addii cantano la mia schiena scudisciata e le palpebre,
– che i saluti non sono terrestri banderuole cadute in pozze di miserie,
– che legioni d’ossa premortali avanzano con passi inamidati e gelidi sparati,
ma cisterne di lacrime votive non cedono liquidi cristalli alle visioni!
Da un tugurio in Via della Distruzione io saprò orgoglioso
dire alle tortuose trame di un credo perverso e inquisitorio,
e come il suo nero vuoto è la nemesi di un supplizio intollerante
che traduce il dolore in vana supplica, o dolce confessione.
Il mio cammino è un mosaico di acrostici ferini tra malati terminali
che le carità scambiano per pestifere croci numinose risanate dai miracoli.
Lo sciame dei commiati ripete una terrifica rinascita risorta e consacrata,
come la minaccia di una infettata fede è l’armonia di una musica abortita!
Saprò ancora disputare – in fiamme! – con l’insensato universo analogico
di un Torquemada, che a me oppone l’insipida sapienza capovolta
di una iena riciclata e il suo bavoso rimasticare il mio mistico midollo –
ma tu, Sant’uomo, resti sempre un boia che fa schifo alla sua stessa merda!
antonio sagredo
Vermicino, 13 febbraio 2007
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appuntamenti
Poi che sono nato da ombra o chiaro labirinto
dov’io deforme mi cerco invano negli specchi,
trionfale rovina o cieca gioia d’esser vinto
mi mostrano muraglie aride d’orbite e di occhi.
Catastrofi saranno le tue uniche risposte
quando lo spazio s’oscura di necrologi vuoti,
hai nel sangue quel Nulla attivo senza soste
che misura noi stessi, i destini e gli avari moti.
Lo sguardo di Orfeo con tutto il suo squallore
era quella ruggine in noi che corrodeva i cardini,
celebrava i fasti mascherando il suo rancore
la dolce corsa che stancava e fiaccava i tendini.
Di stanze in stanze rimastichi come una veridica mancanza
il ritorno dell’eterno che lo stesso uomo non ha mai generato,
e ti prepari al Tutto esangue, come fosse una mattanza
l’assenza di una femmina… è rifiuto, tu sai, il suo commiato!
antonio sagredo
Vermicino, 26 giugno 2007
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Poeti a Milano e non soltanto a Milano
Scriveva Ennio Abate su taluni segmenti della esperienza poetica di Antonio Sagredo :
“[…]Anche in «Parole beate» i tratti stilistici della poesia di Sagredo – oscurità, teatralità, aggettivazione barocca, pensiero luciferino e sublime – vengono confermati. Lo straniamento prodotto dai suoi versi è massimo. E s’insinua a tratti o mano mano nella mente del lettore e un po’ lo stordisce. Sul piano linguistico non viene ottenuto attraverso frammentazioni, ellissi, sconnessioni tipiche dello sperimentalismo neoavanguardistico. I versi di Sagredo, infatti, formano frasi grammaticalmente comprensibili, rispettano la sintassi e i significati consueti delle parole. È, invece, la messe fitta di citazioni, allusioni, rimandi ad autori amorosamente studiati o preferiti a produrre lo straniamento[…]”
Al commento icastico e competente di Ennio Abate [cui non so attribuire una data, una collocazione temporale] aggiungerei, per tentare di dare a Sagredo quel che è di Sagredo, alcune mie riflessioni su un’altra recente composizione poetica sagrediana, affidata ai lettori con il titolo SERENDIPITY, nella quale il poeta salentino-slavista dispiega buona parte di quel repertorio, magnificamente colto a suo tempo da Ennio Abate nel precedente commento.
[…]
Gino Rago
La poesia di Antonio Sagredo tra icarismo, mots-valises e lallazioni
SERENDIPITY
Gli ossi, la casa e il doganiere non hanno senso per me
e pure le altre corti, ignare, che ci circondano gementi.
Coraggio, entriamo gioiosi, nati ieri, nella Villa accesa.
Le mie Legioni hanno bisogno di scongiuri: che auguri, ZanZan!
Contro tutti difendo la celeste AMO dai compagni
e dalle capre, dai falchi, con eurovigore!
Dalla Boemia invocai: A cha Kandicha!
Bendir, Bendir siamo giunti a Tarab! A Toledo!
Gioia del sama’: palme… lagrime… arrabbìche!
O notte salentina! O folle Carmelo!
Ya lîl!… ya lîl!
La bestia senese divorai sul Ponte delle Legioni,
sotto i rossi lampioni m’inseguiva il famelico Campana,
mi tallonavano le sue visioni levantine.
Imbianchini, insanguinate i candelabri, le croci, le moschee!
Nelle vostre piazze versate cisterne di occhi, artigli di tigri!
Come arlecchini i tre profeti insozzate
di succo di mirtillo!
Dissacrateli!
Distruggete i loro inferni e i loro paradisi!
La terra?
Purificatela!
L’anima?
Hanno mutato in eresia!
Nutrivo di radici immaginarie le brughiere,
i miei occhi infanti, di pietra!, sono esplosi,
esplosi i vessilli su torri saracene!
Io, 12 enne: Padre mio, quando ritorna Oriente?
La luna sembra una moneta di rame…
lalla illali… lalla…
mi girano intorno statue colonne bifore…
djinns! djinns! djinns!
Era nerastra la torre moresca, dai merletti
gettava il silenzio nello strazio, come un affondo di stiletti…
lilah! lilah!
dagli arazzi liquefatti ai campanili ammutoliti
le umide lancette spente… alle cinque della sera.
Finzioni,
abbiate pietà!
aaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaah,
ho paura!… ho paura!… se svanisce la stranezza antica dei profeti!
il loro – incanto!
Tracciavano sui cuori eretici verità ambulanti:
meridiane informi… tangenti di progresso… ellissi innominabili…
deff… duff… deff…
I ponti divorati dagli arcobaleni, i suicidi dai marosi.versi da pubblicare
Sciagurati attori, dietro le quinte, misuravano i loro gesti
su tavolette d’argilla col suono di creta delle destinazioni:
percussioni di scritture dette e non comprese.
taratîn… taratîn… taratîn…
Offerte della rivelazione: sciocchezze!
Rivelazioni dell’offerta: sciocchezze!
Via il Coro:
al-B-usc… usc… al-B-bee… b-bee… al-B-lai… b-lai… al-A-azar…!
Il componimento sagrediano esordisce con il chiaro, fermo ripudio di Montale e della sua poesia, della sua poetica, dei suoi correlativi oggettivi (“ossi”; “doganiere”), per poi sdipanarsi, nella struggente assenza di Carmelo Bene e della ‘Voce’, racchiusa in due forti evocazioni (“Oh notte salentina! Oh folle Carmelo!) fra grappoli di metafore e fuochi di simboli, all’interno di un linguaggio incardinato sulle cosiddette “mots-valises”, vale a dire parole-valigie, quelle parole che tanto piacevano a Joyce perché le mots-valises sono parole che tengono uniti, tengono insieme diversi significati. Ed è un modo di esprimere se stesso in un mondo disumanato, con una poesia ad elevato tasso simbolico.
Antonio Sagredo è in piena libertà di parole, in pieno icarismo, tende al volo alto al suo massimo calore, ma si guarda bene dal toccare il punto critico, il punto di non ritorno di fusione delle ali..
Antonio Sagredo a volte dà l’idea d’essere nella gabbia d’una weltanshauung ‘sagredocentrica’, altre volte può apparire come colui che si diverte per tutto, ma non prende mai in giro la verità, la verità del vivere.
Tutto il resto presente nei versi sagrediani va scoperto, scoperchiato, conquistato, svelato, scorticando le parole una ad una, per evitare
‘[…] scritture dette e non comprese’, che poi è sempre il rischio in agguato negli atti di lettura e di interpretazione degli altrui versi. Anche dei versi dei poeti laureati.
Le lallazioni poi giocano un ruolo non marginale nella generale economia estetica del testo analizzato.
GR
… anche se non sono di Milano e conosco poco il sottobosco poetico milanese…
Non cerco la parola, ma da essa mi lascio trovare.
Nonostante questo, non credo negli sfoghi fatalistici ma in un lavoro di “artigianato poetico” che dal foglio vergato di cancellature di un taccuino evolve verso il monitor di un computer e il foglio stampato, passando per cuore e mente; anche se, come scrisse Pedro Salinas: <>.
Prima di riversarla sul foglio bianco del tipografo, la poesia è “sporca”, embrionale, inquieta, scritta a mano sui bordi dell’esistenza, come un appunto privo di tecnica, imperfetto, messo da parte giusto per salvarsi la vita. Spesso nasce da un abbozzo imprevisto, un mezzo verso che ci raggiunge mentre facciamo altro. Una sorta di “ictus” linguistico, non richiesto, intorno al quale si va ad addensare tutta la struttura della poesia che in seguito vediamo stampata in “bella copia” nel libro. Ma prima vi è la fase dell’editing, dell’autoanalisi e della riflessione razionale sul senso e sulla collocazione in una poetica individuale, se c’è. Al di là dei tentativi di analisi e classificazione, la nascita della poesia – per fortuna! – è ancora un fatto misterioso.
Non seguo scuole, movimenti, stili comprovati. Non credo in una poesia di cosiddetto “impegno civile”: con la poesia si può essere “politici” e trasmettere idee in modi inimmaginabili, non programmatici e non dichiarati. Non aderisco a manifesti artistici e non frequento salotti letterari; pur leggendo gli altri, non emulo consapevolmente: credo, invece, nella poesia che rappresenta onestamente (per dirla alla Saba!) l’evoluzione neurolinguistica dell’autore. Il poeta non è un essere fortunato raggiunto sulla terra da un raggio di luce miracolistico in conseguenza del quale comincia a verseggiare, ma è il protagonista (nella maggior parte dei casi inconsapevole) della propria evoluzione neurolinguistica, frutto del tempo, delle esperienze, delle continue sollecitazioni genetiche e fenomeniche, delle letture, dell’addensarsi della conoscenza o, meglio, della non conoscenza, dell’intangibile che preme per venire fuori… Protagonista umano, biologico, mortale, anche se nel fare poesia rivela il suo lato laicamente “divino”.
Aspetto con pazienza, ascolto, soprattutto mi ascolto, annoto nel silenzio tutto quello che l’anima mi suggerisce di conservare perché sa che ne vale la pena. Quando il verso funziona e soddisfa il tuo ritmo interiore, lo senti; anche se in seguito non piacerà al lettore. Sono fermamente convinto che la poesia non debba spiegare o descrivere, strizzando l’occhio a un linguaggio troppo confidenziale e quotidiano, senza per questo arrivare a esprimersi in uno stile aulico. La poesia dovrebbe distillare con naturalezza l’essenza dell’esistere, senza ampollosità; rasentando un’apparente semplicità che non deve mai scadere nella banalità.
Perché fare poesia in quest’epoca? La poesia ci salva, ogni giorno: non quella scritta e pubblicata; la poesia come pensiero di sintesi, come linguaggio unico per dare senso alle cose del mondo e della vita. Ma non esiste un percorso facile: si tratta di una strada decisamente in salita, e in alcuni momenti, necessariamente solitaria. C’è un dazio da pagare, è ovvio. “Mezzi sicuri” da consigliare non ne ho. Posso solo dire che grazie alla cultura, al sapere contenuto nei libri, abbiamo l’opportunità di acquisire libertà di scelta e indipendenza mentale; con la poesia, invece, cambia proprio la percezione che abbiamo del mondo (visibile e invisibile), anche se restiamo “ignoranti” in altri campi. Per aprirsi un varco su quella strada occorre fare tanto esercizio (non solo poetico ma prima ancora esistenziale: fare esperienza di “alternatività” senza forzare la mano ma con naturalezza) e non è detto che il risultato positivo sia assicurato. Il bagno di folla è necessario, il divertimento piace a tutti, i rumori della città fanno parte dell’original soundtrack di questa vita, l’uomo è fatto per stare in compagnia dei propri simili e il modello del poeta isolato e maledetto ha fatto il suo tempo; la poesia, però, c’insegna come essere parte di questo mondo senza farsi possedere da esso.
PICCOLE PROVOCAZIONI IN MAIUSCOLO A MICHELE NIGRO
Perché fare poesia in quest’epoca? La poesia ci salva, ogni giorno: non quella scritta e pubblicata;[CHI SALVA? QUANTI SALVA? DA COSA SALVA? IN COSA CONSISTE QUESTA *SALVEZZA*?] la poesia come pensiero di sintesi, come linguaggio unico per dare senso alle cose del mondo e della vita. Ma non esiste un percorso facile: si tratta di una strada decisamente in salita [E SE FOSSE IN DSCESA? E SE FOSSE UN PRECIPIZIO?], e in alcuni momenti, necessariamente solitaria.[NECESSARIAMENTE: PERCHÉ?] C’è un dazio da pagare, è ovvio.[ FUOR DI METAFORA: QUAL È IL *DAZIO*?] “Mezzi sicuri” da consigliare non ne ho. Posso solo dire che grazie alla cultura, al sapere contenuto nei libri, abbiamo l’opportunità di acquisire libertà di scelta e indipendenza mentale; con la poesia, invece, cambia proprio la percezione che abbiamo del mondo (visibile e invisibile), anche se restiamo “ignoranti” in altri campi.[ MA QUESTO NON SI POTREBBE DIRLO DI OGNI SAPERE?] Per aprirsi un varco su quella strada occorre fare tanto esercizio (non solo poetico ma prima ancora esistenziale: fare esperienza di “alternatività” [E COSA SAREBBE?] senza forzare la mano ma con naturalezza) e non è detto che il risultato positivo sia assicurato. Il bagno di folla è necessario, il divertimento piace a tutti, i rumori della città fanno parte dell’original soundtrack di questa vita, l’uomo è fatto per stare in compagnia dei propri simili [SICURO?] e il modello del poeta isolato e maledetto ha fatto il suo tempo; la poesia, però, c’insegna come essere parte di questo mondo senza farsi possedere da esso [MA ANCHE LA RELIGIONE DICE QUESTO. E ALLORA?]
PICCOLE RISPOSTE in minuscolo (e tra parentesi tonda) ALLE INTERESSANTI PROVOCAZIONI DI ENNIO ABATE.
Perché fare poesia in quest’epoca? La poesia ci salva, ogni giorno: non quella scritta e pubblicata;[CHI SALVA? QUANTI SALVA? DA COSA SALVA? IN COSA CONSISTE QUESTA *SALVEZZA*?] (Salva solo chi vuole essere salvato, non tutti – per fortuna! – ne riconoscono il potere “salvifico”: ma non si tratta di una salvezza miracolistica; la quantità dei salvati è irrilevante: punterei sulla qualità; salva dalla falsa credenza che l’esistenza sia solo un passaggio proficuo, un prevalere sugli altri: la poesia trasforma il disincanto in oro, la sconfitta in sapienza; la “salvezza” deriva dalla concretezza dell’azione poetica: quando si ha la sensazione di aver piegato la materia e di aver fissato un pezzo della propria storia, allora la salvezza è reale, puoi toccarla, rileggerla, è verità sotto i tuoi occhi e nessuno può contestarla se non stilisticamente o riducendo il tutto a un “mi piace” – “non mi piace”.)
la poesia come pensiero di sintesi, come linguaggio unico per dare senso alle cose del mondo e della vita. Ma non esiste un percorso facile: si tratta di una strada decisamente in salita [E SE FOSSE IN DISCESA? E SE FOSSE UN PRECIPIZIO?] (sarebbe altrettanto faticoso perché dovremmo utilizzare i nostri muscoli per “frenare”: chi frequenta la montagna lo sa! Frenarsi per non dire tutto stupidamente, per non spiegare anche quando usiamo un linguaggio quotidiano e apparentemente “facile” e accessibile; se fosse addirittura un precipizio il nostro verso acquisirebbe una più urgente velocità: per lasciare traccia prima di schiantarci!)
, e in alcuni momenti, necessariamente solitaria.[NECESSARIAMENTE: PERCHÉ?] (Come dico verso la fine, comunque siamo “imbevuti” di socialità, e per fortuna direi: però la parola, per venirci incontro, per “materializzarsi” in maniera sana, ha bisogno di alcuni momenti di silenzio e di solitudine, non di asocialità sociopatica. È una questione di “risonanze” da non disturbare…)
C’è un dazio da pagare, è ovvio.[ FUOR DI METAFORA: QUAL È IL *DAZIO*?] (Scegliere il linguaggio poetico se da un lato permette ad alcuni di sintetizzare, di creare un “significante” che rimanda a un significato interiore specifico, dall’altro condanna – paradossalmente – a un’incomunicabilità su un piano pratico che inizialmente la poesia sembrerebbe non scalfire. Inizialmente.)
“Mezzi sicuri” da consigliare non ne ho. Posso solo dire che grazie alla cultura, al sapere contenuto nei libri, abbiamo l’opportunità di acquisire libertà di scelta e indipendenza mentale; con la poesia, invece, cambia proprio la percezione che abbiamo del mondo (visibile e invisibile), anche se restiamo “ignoranti” in altri campi.[ MA QUESTO NON SI POTREBBE DIRLO DI OGNI SAPERE?] (Ogni sapere altera la percezione che abbiamo dell’esistente attraverso la sperimentazione e l’analisi dei dati acquisiti; con la poesia il sapere è diretto, trasversale, irriproducibile, inspiegabile…)
Per aprirsi un varco su quella strada occorre fare tanto esercizio non solo poetico ma prima ancora esistenziale: fare esperienza di “alternatività” [E COSA SAREBBE?] (Darsi un’alternativa, lasciarsi attraversare dall’esistenza senza costringersi ad essere vincenti, abbracciare il dolore in un mondo di presunti immortali, andare contro una vita a colori…)
senza forzare la mano ma con naturalezza, e non è detto che il risultato positivo sia assicurato. Il bagno di folla è necessario, il divertimento piace a tutti, i rumori della città fanno parte dell’original soundtrack di questa vita, l’uomo è fatto per stare in compagnia dei propri simili [SICURO?] (A piccole dosi! Senza esagerare… Oscillare come un pendolo tra la folla e il vuoto!) e il modello del poeta isolato e maledetto ha fatto il suo tempo; la poesia, però, c’insegna come essere parte di questo mondo senza farsi possedere da esso [MA ANCHE LA RELIGIONE DICE QUESTO. E ALLORA?] (Infatti la poesia è preghiera, laicamente parlando… Non si rivolge a un dio, ma al divino in noi. E comunque, valutando l’evoluzione sociale delle principali religioni direi che aspirano proprio a farsi possedere dal mondo… Ma dalla parte peggiore di esso.)
CONTRO LA POESIA SALVIFICA
a Michele Nigro
E quelli che secondo te non salva
perché salvati – a ragione – non vogliono essere da nessuno
o da una Cosa Astratta che chiamiamo Poesia?
Che del «salvifico» diffidano
anche – o soprattutto – perché non s’accontentano affatto
di «una salvezza non miracolistica», surrogato di quella
promessa dalla (vecchia) religione o dalla magia,
a cui la Poesia ha rubato – credono alcuni – il mestiere?
Ah, sì, «la quantità dei salvati è irrilevante»!
Lo dici tu!
(E aggiungi pure: «per fortuna!»,
orgoglioso – suppongo – di essere tra i «salvati»
o adagiato – credo – nella secolare bugia dei Dominatori,
che suadente e sadica sussurra:
«Molti saranno i chiamati e pochi gli eletti»
e c’impone di genuflettersi al feticcio
puzzosamente aristocratico
della «qualità»).
Guardati dal distinguerti – a parole! – dalla massa degli altri
condannati – e chi ne ha mai verificato la potenza? –
alla « falsa credenza che l’esistenza
sia solo un passaggio proficuo,
un prevalere sugli altri».
È qui la mistificazione dei sacerdoti della Poesia Salvezza!
La usano in fondo come bambini golosi e viziati: io ce l’ho e voi , miseracci, no!
Se la Poesia salvasse (quei pochi)
trasformando «il disincanto in oro, la sconfitta in sapienza»
funzionerebbe da superstizioso palliativo, da cataplasma, da rimediuzzo.
Odiatela, allora!
Tutta illusoria è « la sensazione di aver piegato la materia
e di aver fissato un pezzo della propria storia».
Oh, quanto falso oro luccica
dietro i volti pensosi o accigliati dei Poeti Illustri!
Come la materia dei corpi loro
e delle loro donne e dei loro cortigiani e dei loro cani
se la ride
e va per conto suo!
Né la loro sapienza ha mai medicato la nostra sconfitta.
Il «pezzo della propria storia» resterà traballante
e schiodato dai «destini generali»
di cui in questo tempo troppo facile è dubitare.
(Ma dubitare – Brecht lo sapeva – si deve).
E rilette le poesie,
a distanza di anni o di secoli,
saranno sempre e solo rovine.
La loro verità brillerà ancora
solo se riusciremo a disporci
in una particolare posizione sulle strade
– in salita, in discesa, obbligate e quanto oscure –
della storia
e a riceverne il guizzo nelle nostre pupille
«prima di schiantarci»
nelle solitudini rumorose e affollate delle autostrade di cemento e di bit
in quelle interiori ancora pacate come in un paesaggio dolcissimo di Giovanni Bellini
o nei lager della Libia, delle carceri, delle disoccupazioni, dei discorsi vuoti.
[Bozza, 19 sett. 2018]
Bellissima arringa Ennio, da stampare e rileggere più volte!
“Perché fare poesia in quest’epoca?” si domanda Nigro.
—
Questa è una domanda che ogni poeta si è posta in tutte le epoche, e quindi è priva di senso. Comunque signor Nigro le consiglio di leggere alcune poesie di Pasternàk, specie quelle che tentano di dare un risposta, come dire “definizione” della poesia. p.e. :
–Definizione della poesia
È – un fischio maturato sodo.
È – uno schiocco di lastre di ghiaccio premute.
È – la notte che raggela la foglia.
È – il duello di due usignoli.
È – un dolce pisello inselvatichito.
È – il pianto dell’universo nei baccelli.
È – un Figaro che dai leggii e dai flauti
si getta come grandine su un’aiuola.
È tutto, ciò che alla notte è così importante trovare
sui profondi fondi delle piscine,
ed è anche portare una stella fino al vivaio
su tremanti palmi bagnati.
Più piatto di tavole sull’acqua è – l’afa.
Il firmamento è ingombro di ontani,
poter ridere in volto a queste stelle,
infatti l’universo è- un luogo remoto.
1917
———————————
(commento di A. M. RIPELLINO)
Ci sono spesso in Pasternàk delle poesie che si chiamano “definizione”. È il tentativo di un’autopoetica, il tentativo di dare un compendio dei propri congegni, delle proprie immagini, di fare una specie di vocabolario esplicativo dei propri espedienti verbali e della scala delle immagini.
“Definizione” è una tradizione tutta settecentesca ma, nello stesso tempo, molto vicina alla concezione dei futuristi, è la poesia in genere. Sono risposte verso (sostituendo: la poesia è…) il maturare (iniettarsi, gonfiarsi di qualche cosa).
– “La poesia è un fischio maturato sodo”, cioè, che nel maturare abbia assunto una sua sodezza, come un oggetto tangibile, come una mela, una pasta. Questo tentativo di tangibilità delle cose astratte è uno dei luoghi comuni del futurismo. In Majakovskij ci sono, per esempio “cassette di rumore”; gli astratti sono tangibilizzati e resi oggetti. Quindi, qui abbiamo questo fischio, che diventa come un frutto o come una pasta.
La poesia è un fischio tangibile ché nel futurismo non si danno cose astratte, ma ogni astratto tende a farsi oggetto, essendo l’oggettualità la base di tutta la poesia futurista.
Questa è una poesia dove c’è appunto questo movimento dei banchi di ghiaccio.
– “È la notte che raggela la foglia”: è semplicissimo, ma straordinario.
C’è questa grandiosità della notte che raggela la foglia (inselvatichito, abbandonato), lui stesso dà la spiegazione di questa parola : “baccelli di pisello”.
– È un Figaro (questo è un rimando a Rossini).
– “Si getta come grandine su un’aiuola”: natura e musica sono identificate, come natura e poesia. In Pastenàk non c’è divisione, distanza tra la poesia e la natura, quindi anche tra la musica e la natura .
Dice Nadežda Mandel’štam:
Qui c’è tutto Pasternàk stupito dal riflesso del cielo su un palmo bagnato dopo un bagno notturno.
Uscire di notte da una piscina, sotto le stelle, portare sul palmo bagnato una stella, portarla sino ad un immaginario vivaio di stelle .
–
(( mia nota:
>> Anche tutta la poesia della Cvetaeva è una continua ricerca della definizione… della Poesia! Il settecento era il secolo prediletto della poetessa.
È il secolo della scienza sperimentale, della ricerca della verità delle cause e degli effetti della natura: si mettono da parte le superstizioni, perché è oramai tempo che i lumi trionfino, che celebrino gli oggetti! È ovvio che il movimento futurista guardi a questo secolo, come il secolo delle novità e delle ricostruzioni, distruggendo le zavorre e le superstizioni del passato, ma di passato si nutre! Valgono per tutti le ricerche di Chlebnikov. Più che di definizione, si dovrebbe dire: ri-definizione… di ogni cosa, del tutto. (altra ricerca di definizione della poesia è nei versi di Poesia, a p. 69). Ma, aggiungo, i poeti della grecità, dell’antica e classica Grecia, sono quelli che con più insistenza e caparbietà cercano di definire la poesia. Quattro poesie compongono un Esercizio di filosofia che fa parte di una raccolta (che venne prendendo forma già dal 1917) Mia sorella – la vita (Sestra moja žizn’ – 1922 ): esercizio vuol dire anche tentativi di definizione della poesia, e a questo proposito Andrej Sinjavskij chiarisce la ricerca del poeta in Boris Pasternàk-Poesie inedite, op. cit. pgg. 59-60. – Ma anche i poeti Vladimir Holan e František. Halas e lo stesso giovanissimo Jiři Orten insistono, vogliono capire che cosa è la Poesia! Ma, a questo punto, tutti i poeti si domandano che bestia è – questa Poesia?! (Jiři Orten morì nel 1941 a 22 anni, amava tanto Pasternàk da citarlo più volte; ho immaginato sempre che dopo la guerra ci sarebbe stato tra di loro un incontro. Pasternàk non seppe mai dell’esistenza di Orten; non credo che Vitězslav Nezval gliene parlò durante i loro ultimo incontro a Mosca).
Non solo non c’è divisione, ma c’è un ininterrotto scambio, che è vitale per entrambi, come si evince dal terzo verso della quarta strofa e dal secondo verso dell’ultima strofa; dapprima è una stella (“chicco di sale”) che scende in un giardino per farvi parte; nel secondo è il firmamento che è stracolmo di ontani, di modo che appaia esso stesso come un giardino infinito. È certo che Pasternàk è davvero il poeta della gioia cosmica e terrestre! Che s’illumina di luce estiva. Ma notevolissime sono le sue impressioni poetiche invernali. — Anche qui una ripelliniana stranezza (vedi p.2) presente; p.e. nel primo verso quel “ fischio maturato sodo” è invece testualmente: “un fischio che si leva in alto all’improvviso”(come rileva Paolo Statuti, a cui preferisce:”.. s’è sparso all’improvviso”); e quindi il commento che segue, qui sopra, sulla tangibilità, vale per altri versi, ma per questo primo verso vi sono dei dubbi. /////// Questa poesia non è presente nella edizione di Einaudi.
Qui di nuovo è ripetuto questo interscambio fino all’ossessione, perché veramente si compia in maniera definitiva questo matrimonio tra cielo e terra, e che duri per sempre. Ci fa pensare tutta questa felicità pasternàkiana al Dante che finalmente esce a riveder le stelle, inebriato com’è di sublime contentezza. /// Quanto alla figura di Figaro, presente sia in Rossini (Il barbiere di Siviglia) che in Mozart (Le nozze di Figaro), Ripellino opta per il primo, come da commento qui sopra; e nonostante ci sia il riferimento ai “flauti” per cui sarebbe più logico optare Mozart (Il flauto magico), lo slavista non ha alcun dubbio per Rossini; a meno che non sarebbe uno dei tanti errori commessi dalle studentesse durante la trascrizione dal registratore alla carta. Invece il polonista Paolo Statuti opta senza dubbio per Mozart! Pure M. Г. ПАВЛОВЕЦ nel suo studio Analisi dell’opera di Boris Pasternàk, 2003, propende con certezza per Mozart; così anche il fratello dello stesso Pasternàk, Evgenij, in Boris Pasternàk, 2007; telefono poi per avere ragguagli al pianista Valerij Voskobojnikov (allievo di Nejghaus) che conferma Mozart, poi che mi dice, dopo aver consultato il testo di Andrej Synjavskij sul poeta, non ci possono essere dubbi: è Mozart! Quanto alla parola “grandine”, questa è presente in entrambi i musicisti. Per la parola “leggii” non c’è da commentare affatto.)))
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(commento di A.M. RIPELLINO)
È un’illuminazione straordinaria, questa afa che si può tagliare; afa densa che è come tavole unite nell’acqua piatta. Con questo battere delle tavole nell’acqua, e l’afa come una tavola. A ben guardare, il fondo di questa poesia non è che un fondo tradizionale, non è diverso quello che Pasternàk vuol dire da quello che diceva un poeta come Annenskij o come Polonskij ; cioè la poesia è il canto della natura, il poeta canta la natura.
Tutto questo è espresso in una forma vicina ai congegni del futurismo, e allora, a prima vista, sembra forse più tortuosa. Ma c’è un’intensità e una ricchezza plastica d’immagini che porta sotto gli occhi, che avanza sotto gli occhi, gli oggetti. In una prosa del ’22, che si chiama Alcune posizioni, Pasternàk ha detto :
Il libro è un frammento cubico di coscienza ardente, ansimante, e niente di più. Il pigolio è la preoccupazione della natura di conservare la specie dei pennuti, il suo trillo primaverile nelle orecchie. Il libro è un gallo cedrone ed un richiamo dell’aia: non ascolta niente e nessuno, è assordato da se stesso, ascolta solo se stesso.
La poesia è, quindi, un gallo cedrone che canta, riflettendo la natura senza preoccuparsi di nulla; questa è la posizione centrale di Pasternàk
Qui è: “un fischio… uno schiocco… un raggelamento di una foglia… un duello di usignoli… una musica che scende a gragnola su un’aiuola… è portare una stella… è l’afa in una piscina… è l’universo ingombro di ontani”.
Cioè, poesia e natura in una strettissima antologia. Per capire meglio tutto questo, forse alcune parole di Osip Mandel’štam, del poeta, che sono tra le più intelligenti che siano state scritte, accanto a quelle di Marina Cvetaeva, su Pasternàk.
Mandel’štam dice nel 1923:
La poesia di Pasternàk (l’interpretazione non è più facile della poesia stessa) è un diretto garrito (grido che fa l’urogallo, il gallo cedrone in montagna), quello del gallo cedrone, sul luogo dove i galli cedroni vanno a fare l’accoppiamento, quello dell’usignolo in primavera, è la diretta conseguenza di una particolare struttura della gola.
(Notate, è molto interessante che la poesia di Pasternàk “è la conseguenza di una particolare struttura della gola”, se ci si fa caso, la sua costruzione è veramente insolita: questo balbettio è un particolare congegno della gola.)
Scrive Mandel’štam nel 1923:
La poesia è un segno genetico, come il piumaggio e come il ciuffo degli uccelli. Leggere i versi di Pasternàk significa depurarsi la gola, significa rafforzare il respiro, significa rinnovare i polmoni. Simili versi devono essere curativi contro la tubercolosi. Da noi non c’è poesia più sana (più salutare); questo è il kumis (latte fermentato di giumenta, una specie di yogurth) dopo il latte americano.
Il che rende esattamente, anche se può sembrarvi strano; e voi che siete abituati alle scritture della critica italiana scolastica, può sembrare strano la maniera di affrontare, ma è perfetta. Ed aggiunge ancora Mandel’štam, e anche questo credo è importantissimo:
Il libro di Pasternàk, Mia sorella la vita, mi sembra una raccolta di bellissimi esercizi di respirazione; ogni volta la voce viene impostata in modo nuovo, ogni volta in un altro modo viene regolato l’apparato respiratorio” .
(è interessante questo confronto tra il fatto respirativo e la poesia stessa).
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Va anche bene che sotto i post e negli spazi commenti s’intessano dialoghi a due o botte e risposte, ma ripropongo una mia osservazione/obiezione, che avevo già fatta a Gino Rago (senza ottenere risposta); e invito ad una riflessione.
Anche su Poliscritture vengono pubblicati dei *discorsi* su un tema. In questo post sui «poeti (a Milano) oggi».
Quando intervengo, mi devo chiedere o no: il discorso che io sto facendo per mio conto ha relazione con questi qui in corso? Se quelli qui in corso li trovo banali o stantii, che faccio? Mettendogli accanto il mio, li correggo, li sollevo dalla loro banalità? O rischio di essere ( e non solo di apparire) come un nobile ben vestito che passa un istante tra una massa di *pezzenti moltinpoesia* e mostra loro la fulgida bellezza dei suoi abiti poetici? Per farli crepare d’invidia o di gelosia o sconcertarli? Mi devo chiedere che effetto posso ottenere accostando, senza le giuste ( e difficilissime da trovare) mediazioni, un discorso specialistico o *da laboratorio* come quello di Ripellino su Pasternàk, al discorso in corso, comune o banale o terra terra? Contribuisce forse alla costruzione di un *discorso comune*? Fluidifica l’intesa tra pezzenti e poeta ricco o geniale?
L’affastellarsi nell’Emporio Generale del postmoderno (Web, FB, ecc.) di frammenti di testi e di autori delle più svariate epoche ha un senso o va frenato, interrotto e sostituito da un *discorso comune* sulla poesia che abbia un senso?
P.s.
Nel merito degli interessanti appunti di Antonio Sagredo, mi chiedo se i poeti che oggi « vogliono capire che cosa è la Poesia» o « che bestia è – questa Poesia» possano accontentarsi della definizione metaforica che Mandel’štam dà di quella di Pasternàk (o – meglio ancora – adottarla come modello):
« La poesia di Pasternàk (l’interpretazione non è più facile della poesia stessa) è un diretto garrito (grido che fa l’urogallo, il gallo cedrone in montagna), quello del gallo cedrone, sul luogo dove i galli cedroni vanno a fare l’accoppiamento, quello dell’usignolo in primavera, è la diretta conseguenza di una particolare struttura della gola».
Io non me la sento di far mie definizioni come queste: « La poesia è, quindi, un gallo cedrone che canta, riflettendo la natura senza preoccuparsi di nulla»; « La poesia è un segno genetico, come il piumaggio e come il ciuffo degli uccelli».
Mi piacciono, mi affascinano, ma le sento appena giustificate per quell’epoca e per quel mondo ancora agricolo e “naturale” della Russia del primo Novecento.
Il «fischio, che diventa come un frutto o come una pasta» era immagine che poteva ancora nascere nella mente di quel poeta, il quale trovava conferme non solo nei libri amati ma nel *suo* rapporto con *quella* natura. Ma io oggi come posso realizzare in linguaggio la «tangibilità delle cose astratte» che chiamiamo capitalismo, guerre, migrazioni, razzismo, sovranismo, globalizzazione, etc.?
« In Pasternàk non [c’era] divisione, distanza tra la poesia e la natura, quindi anche tra la musica e la natura». Ma per me, per noi oggi?
Io pure vorrei distruggere «le zavorre e le superstizioni del passato» e nutrirmi «di passato». Ma, visto che i balzi nel passato dei postmoderni più che somigliare a quelli delle tigre, di cui parlò Benjamin, sembrano i saltelli graziosi o da ebbri che si muovono a tentoni appunto in un Grande Emporio dove le differenze storiche sono appiattite e equiparate da un estetismo nichilista e delirante che s’ingozza di qualsiasi immagine o concetto o forma, di quale passato dovrei o potrei nutrirmi?
Copio e incollo
da LA POST@DE “IL MANGIAPAROLE”, Anno 1, n. 2
Trimestrale di Poesia, critica e contemporaneistica- Roma- Progetto Cultura
rivista@rivistailmangiaparole.it
“Nell’inserto «La Lettura» del Corriere della Sera del 18 marzo 2018 ho letto un articolo a firma di Ida Bozzi dove, con riferimento a un libro [«La poesia è un unicorno (quando arriva spacca)» di Francesca Genti] vengono elencati dieci luoghi comuni sulla Poesia: 1) Tutto è poesia – 2)In poesia non si capisce niente -3)Basta andare a capo -4) La poesia non la legge nessuno-5)Le canzoni sono poesie-6)La rima cuore/amore è roba da baci Perugina-7)Tutti hanno scritto poesie-8)Lapoesia è una fuga dalla realtà-9)I poeti sono poveri-10) Le poetesse si suicidano…
Volevo un vostro parere riguardo a questo modo di vedere la Poesia. Grazie.”
(Mauro, daRoma)
Poco dopo Pasqua sono andato dal mio barbiere romano di fiducia, su Via Appia Nuova. Anche Berardo, il barbiere, scrive poesie e me ne legge sempre qualcuna. Anche questa volta ha voluto tener fede a questa sua abitudine e altri due clienti, presenti nella bottega, si sono lanciati nella improvvisata discussione fra« Berardo-il-barbiere-poeta» e me. E, sorpresa, quali questioni sono state con foga gettate sul tappeto? Praticamente le stesse di cui ai luoghi comuni citati nella tua e.mail! Si tratta appunto di questioni da barberia, ancora sopportabili per passare il tempo fra uno shampoo e un taglio di capelli, ma assolutamente da gettare nella spazzatura per un dibattito serio, colto, competente sulla poesia. Eppure, questi sono luoghi comuni duri a morire e, se persistono nei dibattiti, forse i poeti qualche domanda se la devono pur porre, recitando qualche mea culpa. Nella barberia di Berardo ben sanno che scrivere versi è l’arte più tecnicamente semplice che esista :bastano una matita e un foglio di carta..(Montale).Il problema, scandalosamente irrisolto, è che poi questo far poesia te lo puoi ritrovare stampato e diffuso anche sugli Oscar Mondadori e allora questi luoghi comuni saranno duri a morire, anzi sono destinati a vita lunga.Del resto,non dobbiamo meravigliarcene, offenderci sì,ma non meravigliarcene, se per decenni da Milano e in parte anche da Roma abbiamo subito la poetica minimalista, se tante esperienze della nostra poesia recente si sono concentrate sulla vita privata, sul culto di un «IO» ipertrofico, anzi innalzato a unico paradigma di verità, come cifra del trionfo di certo neo-individualismo [anni Settanta] o come opzione ironico-teatrale [anni Ottanta]. Ma soprattutto questi luoghi comuni non sono ancora morti per la ragione che la nostra poesia ha smesso di porsi le Grandi Domande… Non si è misurata con il Vuoto, con il Nulla, con il Tempo interno, con la Metafora silenziosa, con lo Spazio espressivo integrale, con le immagini metaforiche, con il metodo mitico, con il frammentismo, con la dialettica ‘oggetti/cose’ e altro e altro ancora.
Così come le è sfuggita la necessità del passaggio dal paradigma dell’unità al paradigma della molteplicità, nella consapevolezza della pluralità e della polimorfia. E si è così dichiarata estranea alle pratiche culturali della rottura, della frammentazione, della dissociazione, della ibridazione da intendere come mescolamento di tempi, di spazi,di storia,di geografia, con l’adozione coraggiosa e diffusa del parlato. Per concludere, devo dire che se i luoghi comuni sulla poesia cui fai riferimento fossero stati posti in forma di domande non avrebbero meritato nessuna risposta, perché la loro leggerezza vacua non umilia e offende chi le riceve ma chi le pone.
(Gino Rago)
A Ennio Abate
Ho capito di sicuro una cosa:
Che per partecipare a Poliscritture bisogna essere pozzi di cultura almeno tanto quanto Abate.
Io che sono alla mia prima raccolta, dopo aver letto tutto quanto e per non sentirmi una merdina, ho deciso di chiedere all’amministratore del Blog :
La poesia deve chiedere e rispondere a chi la scrive o a chi?
Perché giudicare i pensieri che non corrispondono all’idea che Abate ha della poesia ?
moltinpoesia sará solo un ricordo di poveri cristi che avrebbero voluto non solo scrivere ma anche ascoltare con interesse senza essere oppressi da una cultura alla quale mi inchino ma che ha già fatto le proprie scelte.
@ Emilia Banfi
Non capisco cosa significhi la frase: « Perché giudicare i pensieri che non corrispondono all’idea che Abate ha della poesia?». Non capisco perché mi metti tra i «pozzi» sia pur di cultura (o forse è un refuso e si tratta di ‘pazzi’?). Non capisco chi – non io di certo – ti abbia fatto sentire «una merdina» o ti abbia chiesto di inchinarti a « una cultura […] che ha già fatto le proprie scelte». O forse c’è l’obbligo a non scegliere mai?
Insomma non capisco i tuoi malumori che, in una discussione a più voci e mantenuta, credo, su un piano impersonale, mi prendono come bersaglio privilegiato.
Trovo molto strano il fatto che tu non abbia capito.
Ma non importa.
Ciao.
@ Rago
A parte il fatto che Mauro da Roma, che pone le domandine sceme, mi sa di attore di spalla (inventato), non credo che i “luoghi comuni” che accerchierebbero la poesia siano questi né che moriranno se la poesia si ponesse “le Grandi Domande” (più o meno -mi ripeto – heideggeriane) né che la poesia resusciterebbe affannandosi scolasticamente su di esse.
Tutti i poeti hanno la possibilità di misurare l’appeal delle proprie poesie su Facebook o simili. E’ un fatto che non va trascurato, perché oggi il referente sta in basso, molto in basso. Oltre questo non è rimasto nulla, solo matrimoni tra consanguinei.
Voglio dire, se qualcos’altro fosse rimasto lo si saprebbe, no? O devo pensare che le cose migliori sono passate alla clandestinità, e quelli rimasti in vista è perché sono babbei…
Remake.
«Tutti i poeti hanno la possibilità di misurare l’appeal delle proprie poesie
su Facebook o simili.»
«E’ un fatto che non va trascurato, perché oggi il referente sta in basso,
molto in basso.»
«Oltre questo non è rimasto nulla, solo matrimoni tra consanguinei.»
«Voglio dire, se qualcos’altro fosse rimasto lo si saprebbe, no?
O devo pensare che le cose migliori sono passate alla clandestinità,
e quelli rimasti in vista è perché sono babbei…».
La forza dirompente della verità. Musica per Sanremo. Il primo missile
sulla Luna non si scorda mai. Altrettanto.
Viene alla finestra il chiarore dell’alba. Pallido il divenire.
Nel preparare il caffè, l’arte dei Visigoti.
May – set 2018
Caro Ennio,
(che posso fare per Te, per comprendere che se la Poesia è legata alla Historia, è nello stesso tempo astorica, antistorica, protostorica, ecc, fino all’esairimeto delle varianti, che sono senza fine);
qui miei tre tentativi di definizione della mia Poesia nel trascorso degli anni:
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Tentativi di definizione
Poesia
sono tornei tra mare e cielo,
sembianti esotici, geometrie terribili.
Labirinti dove soli si azzuffano ringhiando,
universi che imitano apocalissi.
Poesia
sono tornei di tenerezze inaudite,
teatri di rugiade, prodigi evanescenti.
Finzione dei tarocchi che sognano destini,
immagini di fate e di leggende.
Poesia
sono tornei fra misteri di cristallo,
rubini dei cristalli, disperate corone.
Vanità delle lune dove s’indugiano i poeti,
cavalieri erranti, antiche sinfonie.
Poesia
sono tornei tra cielo e terra,
cigni in lagrime, donne innamorate.
Rosari di canicole dove smania la tortora,
deliri di madreperla, narcisi impazziti.
a.s.
Praga, 28 gennaio 1977
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Tentativo di definizione
Portami sulle mani la dissonanza delle ceneri
e dei viventi il lutto dei canti che non è per noi,
ma tu coi tuoi stessi sogni ti raggiri il giorno
per mutare del senso i numeri e non i tuoi notturni versi.
Ho contro di me gli occhi che cantavano i miei poemi!
Il sesso e la visione contro la parola, come su un murato specchio!
Poesia, sii più spietata dei carnefici e avrai il tuo Potere!
La lingua del poeta non è persuasiva, non dà consigli umani!
Tu, verso, inventa che io penso agli strumenti dell’armonia,
al verme che è digiuno di immortalità e di grida serpentine
e non gradisce del mio canto il suono che non sa la nota!
Poesia, ti tradirò altrove dove la ragione dal gallo è esiliata
per la sua banderuola che impazza ai cardini per divorare Leuco!
Poesia, non ti amare troppo, non sono un martire vanesio!
Al tuo capezzale, Poesia, ti volterò le spalle e me ne andrò, e
di nuovo canterò fuori, un’arietta canterò e un… ritornello.
Tu conosci tutti i canti e i trionfi, più eterno che immortale
è il tuo cammino, e sarai mortale finché gli dei vivranno.
Ed è per te, non per una donna, che la rovina mi tallona!
Non mi fare ombra, togliti di mezzo, fingi di esser finta, almeno!
Poesia, tu vuoi esser letta, essere sulla bocca di tutti,
come i nomi di tutte le puttane ad ogni trivio mestruato!
Togliti la maschera, fammi vedere il vuoto che ti fa viva!
Al poeta devi la tua fama, è per la tua storia che t’accendo di visioni!
E le chiacchiere che racconti sono per i Cesari, non per i miei trionfi!
Con altra voce ormai… ritornerò poeta! E mi toglierò il cappello,
alzerò i tacchi, e via dall’inferno! E nell’inferno almeno, fingi almeno
di avere il volto di un poeta! Dimmi almeno di essere umile e superba!
Poesia, tu hai coraggio, perché ti sostengo e spingo.
Mistico apostolo, io? Se mai, inutile! Io consacrato a Te?
Mai! Non sono un sacerdote, né un grafomane… Ti detesto:
più sei assente, più mi fai compagnia: sei amica, amante, diavoleria!
antonio sagredo
Roma, 13 marzo 2011
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Il suono della Cenere
Ascese a me la parola intatta dai miei fili inconsapevoli e sul palco il canto
e il suono della Cenere smorzato da serrate labbra e orecchie inascoltate.
Al poeta fu detto: non ti basta più il patibolo, i gradini sono divorati dalle soglie!
Nemmeno un volto cremisi fra tante maschere di gesso e di grassa gelatina.
Cieche, come tritoni nel calvario di luminose oscurità, le stanze se ne andarono
via da me lentamente… battelli in fuga dai moli e dai marosi! Muti gli stendardi.
Non avevo che da stordire i gridi dei gabbiani che invano beccavano il sangue
dei tramonti… i rostri pregarono le polene deformi di non sbattere sulle spume.
Come una mazzata disattesa mi crollò quel sangue dal futuro – creature albine
di conoscenza e di fede mi dissero tutto ciò che non ci sconvolse da tutte le disfatte e le condanne… e mi dissero gementi che m’avrebbero restituito gli occhi, ma non le mie visioni! Ero l’unico sano in un cottolengo di dislocati cerebri!
E non pregavano per coloro che non c’erano, soltanto gli assenti non ci stupirono.
Noi che dovremo in questo secolo di genocidi senza fine ristabilire la dolcezza
e sui moli sorridere ai suoni e ai rintocchi della Cenere, proprio noi gli assassinati
da Dio, dobbiamo scannare gli angeli per definizione come in un alogico assioma
interdetto alla finzione! Il suono – di me – della Rovina – in me – dai miei gesti genera le stazioni degli Ossari… avanzi di città noi canteremo… non riconosceremo più i sobborghi dalle macerie, dai suoi fanali arsi di visioni… novembre, novembre degli arcobaleni mai è stato il mese dei morti!… è tutto l’anno
in un secolo s’è ristretto come la legge delle visioni arse dagli occhi – e non mi silenzia il rumore di Dio! Il mio nobile disprezzo per la Storia! Il madrigale s’è oscurato per la Conoscenza! Oriente e Occidente non hanno più i monistici princìpi! E il suono della Cenere è crollato come il sangue dalle sorde ottave alle alcove… gemens, gemens!
Credevo la Conoscenza una presenza di fedeltà, non una figura o una finzione,
ma è un assassinio, un condursi alla forca o al rogo per soltanto dire andiamo a morire da Poeti, allegramente! Si ritrassero le stelle dalla propria luce, l’acqua, il fuoco e l’aria dalla Terra, e l’uomo dagli dei… il Nulla si ritrasse da se stesso,
come il Tutto! Non sono un cinico, disse Ruben, sono assente come una metafora… le figure sono una tortura e non conosco la differenza fra le macerie! Accidia è là dove mi sorprendono con un Pensiero! Il resto non è nemmeno un delirio o un caos… non ho che la mia presenza: vivo per vivere e non per prepararmi a vivere!
Basta con Dio e gli Dei! Con queste fandonie!… sono questi pastori che generano stermini: trionfi dei genocidi e delle Ceneri! Vedrete che mattanza questo secolo! Ci sarà da ridere come in una finzione di cartone, mi diranno solo su un palco è possibile! La realtà è altra cosa… ma i divani sanguinano… è ora di finirla con
questa Terra! È una caduta di stile il Tempo! Come il mancato volo della mia Parola! Al poeta, si disse, non basta più il patibolo, i gradini sono divorati dalle soglie! Nemmeno un volto cremisi fra tante maschere di gesso e di grassa gelatina.
Tento di piantare nel mio giardino un frutteto come Astrov, o come Antonio!
Antonio Sagredo
Maruggio/Campomarino, 4/11/15 agosto 2015
(dal 4 agosto in treno Rm-Br)
Storia
a Antonio Sagredo
La ragnatela di storia che ho sognato
era un rettangolo fitto di contorti filamenti
un archivio di poveri eventi
di rozzi e amari commenti.
L’avevo stesa
fra uno scaffale ed un altro
nella Civica di Colognom
e pregavo un pubblico
deambulante e sovrappensiero
che di certo l’avrebbe disfatta
di passarvi sotto
abbassandosi un poco
cautamente
come si faceva da bambini
fra le lenzuola stese da mia madre
sul terrazzo.
[Colognom mag. 2007]
Cari Ennio e Antonio,
di sicuro poesia non è svuotamento di ogni nostro pensiero. Né prova muscolare di convincimento , né malìa per il soprannaturale… Ma anche fosse, purtroppo va tenuto conto che oltre il 20° verso, oggi quasi nessuno regge più la fatica. Quindi, penso io, a che pro, se non si adottano almeno nuovi sotterfugi?
“Ma anche fosse, purtroppo va tenuto conto che oltre il 20° verso, oggi quasi nessuno regge più la fatica.”
Sei fuori strada, Lucio. proprio per questo io inizio sempre dal 20° verso in poi, così che mi possano leggere dal 20° al 1° verso; o dal 20° verso (che diviene 1° verso) in poi…
comprendi cosa voglio affermare?
Tu dai dei limiti alla poesia, ma non alla POESIA!
Tu dai dei limiti al lettore: troveremo la maniera per essere d’accordo!
Di certo è che la POESIA è tutto ciò che tu dici: “non é”!
Se non reggi più oltre il 20° verso, perché leggi? –
Fermati al 1°!
Ma non sarai mai sicuro se è il 1° o il 100°!
Sotterfugi… la POESIA? Allora non hai mai letto né Omero, né Dante, né Shakespeare, ecc.!
Di cosa farfugli?
… del tempo nostro, caro Antonio.
Però ho sempre amato le illustrazioni di W.Blake, che sento vicine al tono delle tue poesie. E in effetti non se ne può più di quel che passa il moderno convento, che tutto si somigli senza eccezione alcuna. Ma non era questo il punto. E forse sono io un pessimo lettore.
Citando i “miei” poeti a Milano non avrei mai immaginato di stimolare una cascata enciclopedica sull’argomento, ampliato da varie, infinite divagazioni.
Tutto sommato, anzi, ne sono lieto, del resto che male c’è?
A parte l’amico Ennio, al quale voglio sempre bene nonostante qualche inciampo su di me. ( Ma chi se ne frega!)Ai vari Mannacio, Fischer, Rago & C. , non ho molto da dire, e del resto come potrei ? Non credo di poter introdurmi nella loro autonomia, e nei loro “duetti” che pur una certa ragione ce l’hanno.
Concludo il mio esclusivo, personalissimo intervento, riassumendo in pratica, l’oggetto originario , che non è “amicale” come ha pensato l’amico Ennio. ( Non ero certo amico della popolarissima Merini, anche se ci stimavamo reciprocamente).
Ho citato e li confermo Coviello e Lumelli, più Nanni Cagnone, Ferri e la rivista “Testuale”, il pittore Claudio Granaroli e la cara amica Nadia Campana, oltre al grande( e lo ripeto) Luigi Pasotelli. In merito al quale cito un documento sonoro: la videocassetta visibile in DVD,allegata al libro originario, PasotelLi “Serraglio”.
Neri, Majorino e pochi altri affermati sono fin troppo ovvi, ai quali aggiungo Tiziano Rossi e Tomaso Kemeny.
Naturalmente ci sono delle “dimenticanze” la più grave é quella di Roberto Sanesi che ha pubblicato a mia insaputa una mia poesia e che merita alla grande il suo nuovo giardino e una citazione delle varie sue opere, comprese le traduzioni di Eliot e C.
Ci sono inoltre la mia amica Claudia Azzzola, bilingue (“Traduzione tradizione “).
Un attestato di stima a Valerio Magrelli (colpevolmente dimenticato).
Maria Pia Quintavalla è un caso insopportabile ma meritevole di citazione.
Più meritevole é il mio amico ex editore Milo De Angelis probabilmente tra i best di questi ultimi anni.
Ernesto Ponziani, mio angelo custode, in attesa di superare l’invisibile asticella che ancora si ostina a ostacolarlo.
Gli altri con Cucchi, Valduga in testa non fanno parte del mio repertorio e del resto non hanno certo bisogno di me.
Ma come ho detto la poesia non è una questione di nomi e quindi invito tutti a un prossimo mini (o grande) convegno in modo da entrare nello specifico.
Non dimenticate inoltre il mio penultimo libro “Pensieri, orologi”e il più recente “Il tempo dei desideri”, New Press.
E le mie opere visive, naturalmente.
Un grazie a tutti Alberto Mari
Gentile Mari,
Le segnalo un mio lavoro
ecco link
https://lapresenzadierato.com/2018/10/10/tomas-transtromer-autobiografia-di-un-nobel-a-cura-di-gino-rago-traduzione-di-enrico-tiozzo-con-stralci-di-poesie/
una Sua lettura mi è gradita,
buon tutto,
Gino Rago