di Roberto Bugliani
E’ in via di pubblicazione il libro di racconti “Serraglio Italia” dell’amico Roberto Bugliani. Con l’autorizzazione dell’editore Santelli di Cosenza ne anticipo uno dei più interessanti per i richiami (anche dissacranti) alla pittura moderna e l’intrigante costruzione narrativa. [E. A.]
Fu soltanto quando si recò al Museo D’Orsay di Parigi per la seconda volta a rivedere Les deux fillettes dipinte da Vincent Van Gogh come s’era ripromesso subendo il fascino misterioso del quadro, che contemplò in modo diretto e in tutta la sua perturbante consequenzialità il particolare inquietante della mano. Quella mano, la mano sinistra della bambina in primo piano, in prospettiva la più vicina all’osservatore, stretta, meglio: avvinghiata, ecco, proprio così, avvinghiata alla mano della seconda bambina. Era una mano eccessiva, sbilanciata, all’apparenza del tutto fuori luogo se proprio quel dettaglio non conferisse al ritratto innocente di due bambine perfettamente simmetriche nell’abbigliamento e nelle fattezze, la cuffietta candida e immacolata sulla testa e il vestitino celeste da scolarette nella campagna vagamente olandese di Auvers-sur-Oise, il luogo che gli spettava nella geografia cavernosa dell’animo umano. Una mano ferocemente avida nella sua volontà d’impossessarsi della mano abbandonata in grembo della seconda bambina che soggiaceva alla sopraffazione dell’Altra, patendone il dominio. Da quella mano sinistra si diramava la crudeltà originaria che colmava lo sguardo da megera della prima bambina d’uno spaventevole epos. Da comune elemento raffigurativo, il dettaglio della mano s’era dilatato smisuratamente, fino a colonizzare del proprio senso estremo l’intero dipinto.
Nessun altro quadro del pittore fiammingo gli appariva parimenti terrificante. Il genio visionario di Van Gogh aveva trasformato un viso innocente nella quintessenza della malvagità, stravolgendo le rigorose leggi fisiche che organizzano l’ordine formale del mondo. E la mano era stata il grimaldello che aveva scardinato la porta blindata della coscienza, sospingendo lo sguardo dello spettatore sul baratro dell’abiezione e rendendolo partecipe della scelleratezza dell’oppressione allo stato puro. Questo anfitrione della percezione tardo-moderna aveva imprigionato sulla tela delle Deux fillettes la materialità dell’inconscio, precedendo d’almeno dieci anni i primi vagiti freudiani.
Quando era entrato la prima volta al Museo d’Orsay, l’ascesa all’Inferno era stata graduale. All’inizio aveva indugiato davanti all’Origine du monde di Courbet a inalarne gli effluvi umorali, quindi aveva voltato a destra e, scendendo i pochi gradini, s’era introdotto nella prima sala del pianterreno, bighellonando un po’ annoiato tra le tele di Daumier, Millet e Corot. Lì aveva assaporato oziosamente i toni ocra, rosa arancio e blu chiaro delle cuffie delle contadine prima di risolversi ad attraversare l’atrio gremito di statue senz’anima fredde più del loro marmo e infilarsi nella sala di fronte, dove venne prontamente respinto dalla languida retorica delle Veneri imperiali e dalla grazia stucchevole dello sciame immoto di fanciulle borghesi immortalate nel loro corredo di sete, crioline e mussole bianche.
Salendo al piano superiore, aveva gustato masticandoli piano i giochi di luce sulla cattedrale di Rouen di Claude Monet, poi aveva accennato a qualche passo di danza invitato dal ballo di Renoir non senza indugiare in cerca d’orientamento lungo le strade pissarriane di Ennery e di Voisins, mentre un soffio gelido gli aveva corso la schiena dinanzi al paesaggio innevato di Sisley. Infine aveva sbadigliato assieme alle stiratrici di Degas e s’era messo a interrogare la malinconia del viso della bevitrice d’assenzio accoccolata a fianco a loro. Infastidito dalla voce burbera del maestro della scuola di ballo, s’era provato a sbirciare senza successo tra le carte dei giocatori di Cézanne, quindi il chiacchiericcio insipiente dei bagnanti vicini lo aveva distratto, sospingendolo verso il severo cipiglio della donna con caffettiera. Ma non riuscendo a percepire alcun aroma di caffè, aveva seguitato col suo passo ciondolante da perdigiorno che lo condusse in una sala all’apparenza uguale alle altre.
All’improvviso il cuore si mise a battere celermente e il ritmo del suo andare curioso si scompigliò in una serie di passetti esitanti e disorientati, quasi non ritrovasse più la strada nell’infilata di sale spaziose e solari. Cercando di capire la ragione di quel brusco soprassalto dell’umore si guardò attorno e lo sguardo fu attratto dai gialli eccessivi di ritratti senza decorazioni né prospettiva prima di scivolare sull’inclinazione impossibile d’una camera sconsolatamente semplice e di scoprirsi avvolto come in una ragnatela dal blu intenso del cielo appiattito che gravava col suo peso eterno sull’edificio violetto della chiesa d’Auvers. Così, a quarant’anni suonati, si trovò, senza altra mediazione che uno stupore idiota, faccia a faccia con Van Gogh.
La tavola a cui il suo sguardo da naufrago s’aggrappò per non venire inghiottito dai flutti burrascosi di linee e colori, fu ancora più funesta che se non si fosse abbandonato inerme a quel mare ringhioso. E a confronto colle Deux Fillettes discoste e silenti in un angolo della sala non c’era Renoir, non c’era Gauguin, non c’era Monet, non c’era Degas, non c’era Manet, non c’era Pissarro che ne valessero una pennellata. Tutti i maestri del secondo Ottocento s’erano mummificati, larve rinsecchite, sotto il sole allo zenit dell’entelechia Van Gogh.
Dinanzi a quel capolavoro della pittura universale sostò impietrito a gambe larghe a sostenere le ondate di dolore e di perfidia che si fransero sul suo petto oppresso con un fragore che solo lui udiva, e la nozione del tempo si smarrì in un labirinto di squilibri immobili. Non poté dire quanti minuti, quante ore o quanti giorni trascorse ipnotizzato davanti al quadro, né in quale avatar lo trascinasse la corrente impetuosa di sconcerti e turbamenti. Soltanto quando un giapponese corpulento e sbadato lo urtò facendogli quasi perdere l’equilibrio si riscosse dal suo vaneggiamento. Accolse le scuse di quello con una faccia da sonnambulo cronico e uno sguardo assente che provocarono un sorriso di perplessità nel turista giapponese.
Infilando un passo da ubriaco dopo l’altro, con le gambe ancora impastoiate nel groviglio materico dell’immagine mostruosa, riuscì finalmente ad allontanarsi dalla sala e a guadagnare a fatica l’uscita senza che il suo sguardo smarrito cercasse orientamento o protezione in altri quadri.
Le allucinazioni e le crisi che avevano segnato nel profondo la vita del pittore s’erano materializzate sulla tela delle Deux fillettes, concentrandosi sul viso della prima bambina. Ma nella tela c’era molto di più della rappresentazione d’un delirio. Proprio lavorando su un soggetto modesto e ordinario l’artista aveva conseguito la percezione assoluta dell’animo umano: empietà, efferatezza, crudeltà, l’intera panoplia dei sentimenti malvagi, delle passioni perverse, dei peccati più inconfessabili v’era racchiusa, e la mano aggallava dalla tela come una condanna implacabile che lo risucchiava nel vortice della dissipazione entropica, mandando in frantumi l’ordine chiuso delle azioni e dei giorni che regolava la vita degli uomini.
La seconda volta che il quadro l’aveva chiamato, ponendo fine a un esaltato intervallo trascorso in febbrili compulsazioni di libri sul pittore fiammingo e trapuntato da improvvisi sussulti ogni volta che s’imbatteva nella riproduzione fotografica delle Deux fillettes, prima di raggiungere con passo ansioso e trattenuto, come nell’estremo tentativo di differire l’incontro, la sala dov’era esposto, aveva tracciato rapidamente sul taccuino una serie di giudizi sommari e improbabili che avrebbero increspato in una smorfia compassionevole le labbra del più scalcinato critico di storia dell’arte. Erano una sorta d’infantile dichiarazione di poetica e insieme l’accettazione totale del quadro, la dedizione al suo significato primigenio, che aveva trasformato in deserto la lussureggiante foresta dei dipinti del Museo:
Edgar Degas fa le figurine
Pierre-Auguste Renoir fa il patinato non-mi-piace
Claude Monet fa dei fumetti
Edouard Manet fa statuette cortigiane
Paul Cézanne fa paesaggi immobili
Paul Gaughin fa il taciturno scontroso
Il doganiere Rousseau fa il calligrafo ingenuo
Alfred Sisley fa… no, semplicemente si diverte
Camille Pissarro fa cagare gradevolmente
Vincent van Gogh fa il Museo d’Orsay
Questa volta non cercò di sottrarsi all’arbitrio tirannico della rappresentazione. Si consegnò interamente al quadro, accogliendolo non solo come il prototipo dell’arte, dell’arte vera, mostruosamente sublime, ma come la prodigiosa testimonianza dell’origine, del principio, dell’arché di tutte le abiezioni. Quindi lasciò che l’impeto dello spaesamento sbriciolasse le sue già lesionate coordinate familiari del qui-e-ora, e che il tremito incontrollato agli angoli delle labbra si trasformasse in un’angoscia indecifrabile, mentre con le pupille dilatate dallo stupore del fanciullo che ha appena ricevuto senza motivo uno schiaffo, risalì dalla voragine illimitata aperta sotto le gambe della prima bambina al viso insieme altero e remissivo della seconda, nel quale lesse, come su una pagina offerta al fuoco insaziabile d’un flagello cosmico, l’inarrestabile dolore del mondo. Era un dolore orgoglioso e consapevole, il dolore della trasparente purezza che s’apre all’opacità della colpa, e sa che la condanna rappresenta non già un ingiusto castigo, bensì il premio della virtù, la suprema giustizia che l’essere ricerca e riserva a se stesso. Allora comprese non solo la ferocia sanguinaria dell’aguzzino, ma anche il supplizio dell’innocente che s’offriva deliberatamente al carnefice, e si chiese per chi Van Gogh avesse parteggiato dipingendo il quadro.
Prese a concentrarsi sul contrasto, che non era la semplicistica contrapposizione di bene e di male, d’Ormuzd e d’Ahriman insulsamente vecchia quanto il mondo, ma il conturbante sdoppiamento d’un insieme chiamato, a seconda dei casi, anima, essere, spirito, ego. La postura complice dell’ostaggio non soltanto tradiva l’accettazione della sottomissione, ma stimolava e in un certo senso giustificava il suo assoggettamento al dispotico volere dell’Altro. No, non imploravano salvezza quelle labbra sottili, quelle gote piene, quella carnagione rosea e liscia, quanto piuttosto la condivisione completa della tragica assolutezza della condizione umana, affidata a una situazione ordinaria.
La terza volta aveva cercato di tacitare il possente richiamo interiore con la scusa dell’attesa snervante cui avrebbe dovuto sottoporsi prima che giungesse il proprio turno e la cassiera gli staccasse con un blando sorriso il biglietto, ma sapeva fin troppo bene che la giustificazione non avrebbe retto perché il richiamo era più forte dei fragili pretesti avanzati per evitare l’agguato del dipinto.
La fila sghemba dei visitatori che si muoveva sinuosa come un serpente e più lenta d’una lumaca riprodusse la sua ansia zigzagante tra viscere e cervello, nelle cui spire si sentiva imprigionato, irrimediabilmente. E l’impatto col quadro fu, come sempre, devastante. Questa volta pensò che nelle Deux fillettes Van Gogh non aveva voluto esprimere alcun sentimento, la sua operazione era stata ben più radicale e nichilista, giacché si trattava della sistematica distruzione del sentimento. E non appena il suo sguardo riuscì a liberarsi prepotentemente dal perfido incantesimo del viso della prima bambina, e scese con impaziente sofferenza alla mano scellerata, l’atroce rivelazione della contiguità azzerante qualsivoglia presupposto di separatezza gli pulsò limacciosa nel sangue e l’immagine positiva della seconda bambina fu pervasa da una sorta di corrente pulsionale che la contaminò senza che ciò venisse ridotto a mero episodio dell’eterna lotta tra gli opposti, bensì gli rivelò la fattura dell’essere unico esplicitata in endiadi: iniquità e virtù, malvagità e dolcezza, abiezione e bontà.
L’iniziale dualismo affidato alla doppiezza d’animo delle fillettes era vanificato dal contagio della mano che ne illustrava il momento autentico. La sintesi era dunque ciò che precedeva tesi e antitesi, essa costituiva l’avvio e non la fine del processo: le bambine, pur sedendo fraternamente una accanto all’altra, erano altresì consapevoli della loro identità sdoppiata in ruoli, perché non era tanto la separatezza quanto lo sdoppiamento a consentire all’osservatore di familiarizzarsi con il torbido, conturbante riflesso d’una verità altra. Ed era appunto quell’insieme infantile a risultare inquietante, non già una sua parte, come aveva pensato fino ad allora, credendo ancora possibile un gesto di liberazione con cui separare l’inseparabile.
All’uscita, mentre inghiottiva avidamente cucchiaiate d’aria che gli sbloccarono i polmoni rattrappiti nel respiro spezzato, quasi un rantolo, mantenuto dinanzi al quadro, si disse resoluto che doveva liberarsi dell’ossessione visionaria che il dipinto di Van Gogh gli procurava. L’improvviso frastuono del traffico serotino e il brulicare dei passanti lungo il viale lo riportò alla realtà rassicurante di corpi e voci ignari di verità inconcepibili affidate a un dipinto del 1890. E guardando la gioiosa gincana di due bambini che si rincorrevano vocianti e spensierati sul marciapiede dribblando passanti distratti e richiami dei genitori, stabilì che l’indomani sarebbe rientrato in Italia. La sua permanenza a Parigi s’era prolungata più di quanto aveva inizialmente progettato, ed era giunto il momento di ripartire.
Con quella determinazione nell’animo salì i quattro piani della scala a chiocciola che lo conduceva allo studio di rue Monsieur Le Prince. E con quella idea in testa si cucinò l’abbondante cena di commiato, dando fondo al contenuto commestibile del frigorifero assieme a quello alcolico della bottiglia di Côte du Rhône acquistata la mattina. La sonnolenza dovuta ai bicchieri di troppo lo colse che aveva appena iniziato la lettura di Rayuela di Julio Cortázar, scovato la settimana scorsa in uno scaffale d’angolo della libreria spagnola sottocasa, e benché non fossero ancora le undici di sera, decise d’infilarsi il pigiama e di mettersi a letto.
Un gemito prolungato come un’insistente nenia infantile lo risvegliò di soprassalto. Spalancò gli occhi nell’oscurità frattalica della stanza e con terrore scorse il biancore spettrale d’una mano che lo fissava con ostilità (sì, erano quelli i termini giusti, o almeno i soli che riuscì a trovare per quella situazione assurda). Era una mano larga e pesante, da contadino, una mano adunca e spietata, da carnefice, una mano inesorabile, da incubo. Una mano priva di braccio, di spalla, di faccia contratta, di pupille fiammeggianti, di ghigni malefici, di gelidi sibili di condanna. Una mano che fulminea gli si lanciò alla gola come un insetto schifoso acquattato nella fetida pozza del delirio.
Tentando inutilmente di divincolarsi dalle grinfie d’un destino ineluttabile, mentre il rigurgito di suoni spezzati misti a saliva gli gorgogliava in gola, capì che quella mano ripugnante dotata di vita propria non era, non poteva essere la mano della prima bambina, ma doveva essere la mano del pittore, la mano di Vincent Van Gogh, quella stessa mano assassina che aveva premuto il grilletto del revolver dell’artista, e che adesso gli stringeva la gola con la forza sovrumana dell’ultima pennellata, obbedendo all’ingiunzione dalle ragioni imperscrutabili ricevuta dal dipinto. E nell’agonia del corpo scosso da sussulti sempre più deboli capì che era stata proprio quella mano dispari a fornire al pittore il modello per la mano della prima bambina. Allora la mano andò ai suoi occhi, richiudendoli[1].
[1]Come ben sa chi l’ha visto, nel quadro di Vincent Van Gogh Les deux fllettes, la mano della prima bambina non ha la postura descritta in questo racconto, ma potrebbe averla, se l’osservatore cedesse all’inganno ottico provocato dalle linee di drappeggio delle maniche delle due bambine.
…inquietante, anzi scioccante questo racconto di Roberto Bugliani, a voler seguire i mutamenti emotivi dell'”ingenuo” visitatore del Museo D’Orsay di Parigi. La visita a un museo solitamente non stravolge. E infatti l’incauto visitatore con leggerezza si lascia alle spalle una carrellata di dipinti famosi per rimanere poi inchiodato davanti a “Les deux fillettes” di Van Gogh. Come davanti a un destino. Il potere della mano (invisibile) riesce a colpire ben oltre quella visibile e sa stringere in una morsa senza scampo. Il racconto può sembrare del genere fantasy, ma secondo me, parla con realismo del potere occulto del dominio…Al quale, il pittore come il visitatore sembrano suggerirci, non ci si sottrae: d’altra parte la bambina della mano “dispari” e dai tratti malvagi porta il peso della crudeltà umana, l’altra bambina s’adagia nella sua bontà. Lo sdoppiamento dà origine a una unicità…Il racconto ci dice molto anche sulla psicologia dei gemelli
@ Annamaria,
concordo con la tua lettura relativamente a due aspetti rilevanti del racconto: 1) è (anche) una metafora, o meglio, vista l’estensione del récit, un’allegoria del Potere;
2) lo sdoppiamento che “dà origine a un’unicità” (è la terza lettura, la finale, che il protagonista fa del quadro).
Per tutta la lettura del -lungo- récit si sta, inquieti, a calmare l’attesa di comprendere perché Bugliani ha sbagliato la mano, la mano sinistra in primo piano che NON afferra quella minuscola della sorellina, e la spiegazione Bugliani la offre fuori dal racconto, con la nota.
È il primo dentro-fuori del racconto, che riassume innanzitutto le tre visite al museo, con l’attesa in fila per poter entrare, e anche gli urti dati al protagonista dal giapponese, perché si riscuota. Sveglia lettore che tra un po’ capirai.
La mano è *sinistra*, sinistramente avverte della morte vera di Van Gogh e di quella probabile del protagonista, ma, attenzione. In realtà, scrive Bugliani, il protagonista non muore, la mano assassina di Van Gogh, in letteratura, chiude solo gli occhi al protagonista, che smette di vederla, e fa terminare al lettore di leggere.
È solo un racconto, in letteratura non si muore davvero, come invece si è ucciso Van Gogh.
Altro dentro-fuori, il racconto e la vita. La prospettiva -vera, reale- di chi guarda la tela da fuori, indirizza la mano assassina ad afferrare quella minuscola della sorellina. Dentro il quadro invece si mette in scena il dominio e la resa, il ghigno sfrontato e la complicità muta della sorella: nella rappresentazione c’è solidarietà tra i soggetti e nel tema.
Da fuori si coglie il segnale che l’artista, l’autore Van Gogh, ha indirizzato: attenti, è un’opera, per quanto vivi e assoluti siano i miei colori, non ne esco, o sono dentro un quadro o non coloro la vita. Unire i due stati non si può.
Ricordo di avere già rilevato che Bugliani scrive sullo scrivere, scrive riflettendo sul fatto che vivere e scrivere sono due convergenze parallele.
@ Cristiana,
” Dentro il quadro invece si mette in scena il dominio e la resa, il ghigno sfrontato e la complicità muta della sorella: nella rappresentazione c’è solidarietà tra i soggetti e nel tema.
Da fuori si coglie il segnale che l’artista, l’autore Van Gogh, ha indirizzato: attenti, è un’opera, per quanto vivi e assoluti siano i miei colori, non ne esco, o sono dentro un quadro o non coloro la vita. Unire i due stati non si può”.
Mi pare questo il senso principale del racconto.
Grazie per averlo condiviso.
OT: mentre leggevo, sullo schermo del computer mi s’è aperta una finestra che, con toni allarmistici, mi avvisa che, siccome il mio sistema operativo è “obsoleto”, quindi obsoleto è anche il mio computer (messaggio subliminale: “cosa aspetti a cambiarlo?”), Firefox non supporterà più il sistema XP che uso, quindi il computer sarà esposto a rischi.
Anche questa è La Mano (tecnologica) del Potere, e siccome io non ho alcuna intenzione di cambiare computer, chissà se questa mano provvederà a chiudere i miei occhi telematici.
ah! i lettori però sarebbero dispiaciuti, in fondo gli schermi telematici sono a metà strada tra la pagina scritta che circola nel mercato (il quadro), e le chiacchiere di vita… non potendo frequentarci tutti in corpore vivi.