di Davide Morelli
Vanno dosate le forze e soppesate le parole. Bisogna evitare di scadere nelle ovvietà e nelle semplificazioni. È lecito contraddirsi perché la realtà è essa stessa contraddittoria. Aveva ragione Walt Whitman: chi si contraddice vuol dire che contiene “moltitudini”. Inoltre è risaputo che chi si contraddice spesso diventa per questo motivo una persona coerente. Mai arroccarsi troppo sulle nostre posizioni. Bisogna andare oltre la sedimentazione del vissuto. Di tanto in tanto quel che resta di un giorno trascorso è una reminiscenza. Spesso non resta niente. Ci sono giorni comuni come fiori di campo e giorni speciali come le rose. Ma l’importante è non fare la grammatura del passato. Nella vita si confondono e si mescolano sempre memoria e desiderio come scriveva Eliot. Gli elementi materici dei ricordi sono l’inganno e l’impostura. Gli innamorati del passato sono dei noti rompicoglioni. Le loro sono inquietudini da ricchi. Commemorare gli amori non ricambiati è roba da canzoni per adolescenti. Anche i grandi innamoramenti si logorano con il tempo nel matrimonio. Non tutto andava meglio un tempo. Non volgersi mai troppo indietro dunque perché viene il torcicollo. La memoria ha più strati. A forza di fare i funamboli con le parole e la memoria si cade nel vuoto. Secoli fa avevano orrore del vuoto. Tutte le persone incontrate nella vita ti danno qualcosa. Spesso ti lasciano soltanto negatività, ma anche da questo puoi trarre degli insegnamenti. Si perdono amicizie. Si fanno nuove amicizie. La vita è come un treno. Ognuno ha la sua fermata. Ognuno ha la sua destinazione. C’è chi lo abbandona prima di noi e chi dopo. Ciò lo chiamano destino. Gli antichi cercavano segni del destino ovunque. Si pensi a omen nomen. Siamo sullo stesso treno. Si è nello stesso scompartimento, gomito a gomito, eppure accade anche che non ci diciamo niente e guardiamo annoiati fuori dal finestrino. Siamo compagni di viaggio ed estranei allo stesso tempo. C’è chi si fa prendere dall’ansia di voler comunicare ma si fallisce in questo senso perché vince sempre l’incomunicabilità. Ci vuole molta esperienza per saper vivere. Si impara spesso la serenità a proprie spese, dopo tentativi ed errori. Si impara a vivere e a sapere che farsene della nostra vita spesso quando si è maturi. Ma fermiamoci qui. Non parliamo della corda in casa dell’impiccato. Con una corda tuttavia ti ci puoi impiccare. Ad una corda però ti puoi anche aggrappare. Deve essere salvaguardata una seppure esile speranza. Magari è la stessa corda del suicida e tu con quella ti salvi. Chi non ce la fa è prima di tutto perché pensa di non farcela. Come diceva Zanzotto nella vita bisogna aggrapparsi ai propri capelli per togliersi dalle sabbie mobili come fa il barone di Münchhausen. La lettura ti può portare a nuove connessioni e a nuovi pensieri. La riflessione ti può far giungere all’epifania, la preghiera alla teofania, la meditazione al nirvana. Si è sempre in cerca dell’illuminazione. Hanno ragione i preti: l’umanesimo non dà la salvezza ultraterrena senza avere fede. Ti dicono che nella letteratura e nella filosofia non c’è salvezza; ti dicono che anzi certe letture ti allontanano dalla retta via, ti tolgono la fede, ti fanno diventare un miscredente. Ma si scordano di dire che anche il cristianesimo è umanesimo. Umanisti sono stati dei santi. Umanisti sono stati dei dittatori sanguinari. È risaputo che i cristiani all’inizio venivano sbranati dai leoni e successivamente la Chiesa ha compiuto nefandezze con le crociate, la Santa Inquisizione, l’aiuto dato a criminali nazisti per sfuggire alla giustizia, la protezione data a preti pedofili, etc etc. Infatti c’è bontà e saggezza in ogni umanesimo ma anche violenza. Le idee di Platone(la Repubblica), Machiavelli, Marx, Hegel, Nietzsche hanno provocato disastri nel nostro Occidente. Lo stesso dicasi dell’interpretazione letterale dell’Antico Testamento. Infine la spiritualità non è solo dei religiosi ma anche di mistici eretici, moralisti squinternati, artisti sregolati, ascetici ieratici. Pensare e riflettere può salvare la pelle in questa vita, anche se non l’anima. Non salva l’anima ma l’animo dalle brutture del mondo.
A mettere le frasi in fila si fa la corda del testo, quella dell’impiccato a cui ci si può aggrappare, visto che ogni altra non ha agganci.
Faccio una crasi: “Gli elementi materici dei ricordi sono l’inganno e l’impostura. Le loro (dei ricordi) sono inquietudini da ricchi” se possono permettersi la rassegna in questione.
L’impressione è di una fine di tutto. Forse era anche l’intenzione, eppure proprio alla fine confida nell’animo di affrontare “le brutture del mondo” di cui sopra. Rassegnazione e privilegio?
È stato allo stesso tempo un gioco ed uno sfogo. Ho riportato i miei pensieri e le mie associazioni di idee. In fondo vanno prese per quel che sono: delle divagazioni. Non hanno niente di sistematico né di organico, ma non sono nate per questo. È un flusso di coscienza. Niente altro. Le ho volute lasciare così. Sono solo dei pensieri, che scaturiscono casualmente e che spesso non si relazionano dal punto di vista logico ai pensieri conseguenti. Testimoniano che io ho fallito e che sono un fallito. Ma penso che ci sia anche dell’altro. Volevo esprimere che la situazione in cui si trova ogni occidentale è quella del “Finale di partita” di Beckett. Volevo esprimere che ogni mistico ed ogni pensatore sono destinati al fallimento. La sconfitta è inevitabile. Non può essere altrimenti. Tutto qui. Rassegnazione.
…in questo racconto sospeso, a tratti svagato, di Davide Morelli i fili di ogni rgionamento sono corde a cui aggrapparsi o appendersi. Anche se alla fine l’autore elenca nomi di filosofi propendenti alla seconda soluzione, quindi da evitare al fine della sopravvivenza, le alternative sembrano ravvicinate e inquietanti. Come l’ambivalenza di ogni forma di umanesimo. Si resta intrappolati in un labirinto, le “soluzioni” restano a livello soggettivo, cioé non salvano che “l’animo”.
Il testo dell’articolo è una serie di parole in libertà («È un flusso di coscienza. Niente altro») che non chiedono (mi pare) né conferma né negazione, né approvazione né disapprovazione. Invece il titolo: «Sulla salvezza», impegna a un discorso di ben diversi natura e impegno.
Salvarsi vuol dire sottrarre il proprio destino (il proprio tempo, le proprie azioni, le relazioni, le speranze ecc.) all’inutilità e all’oblio. Nella storia delle filosofie, delle religioni e delle letterature il problema è presente in molti modi diversi e con una graduazione da un minimo a un massimo che si può tentare di schematizzare.
Innanzitutto non c’è salvezza se il proprio destino è privo di senso. Salvezza vuol dire avere senso, avere e dare senso a se stessi e al mondo in cui viviamo.
1) Il livello minimo è pertanto quello di chi, non credendo che il mondo (l’universo, il tutto, comunque inteso) abbia senso, cerca di dare un senso individuale e sociale alla propria temporanea presenza nel mondo. Il livello minimo è quindi dare un senso alla propria vita all’interno di una concezione metafisica di una realtà senza senso. Per riuscirci può bastare perseguire valori nella loro dimensione terrena, da quelli etici a quelli politici a quelli estetici dell’arte, della poesia, della musica. Così la vita può avere un buon senso, anche se l’universo non ne ha, essendo visto come una specie di macchina che non tiene nessun conto delle singole individualità naturali, siano microbi o uomini o pianeti o stelle o galassie intere.
2) Un livello più alto è quello di chi ritiene che la nostra presenza nel mondo abbia un senso anche per il mondo stesso. E che il nostro agire possa contribuire in positivo o in negativo al destino del mondo. Ciò comporta, pertanto, un impegno specifico che non riguarda solo i valori nella loro valenza terrena riferita all’individuo, ma anche nella loro valenza terrena riferita all’insieme del mondo.
Ma a questo punto si presenta un bivio: siamo un elemento utile e necessario ai fini del mondo, ma non ai fini nostri individuali, o siamo utili e necessari anche in senso individuale? Insomma, una ruota è utile al buon funzionamento di una macchina, ma la ruota è fungibile e la sua utilità è per la macchina, non per sé.
3) Ecco dunque che la scelta di una utilità anche per sé, anche per il proprio individuale destino, ci colloca a un livello ancora più alto. Ora l’impegno etico riguarda noi e il mondo in un abbraccio inscindibile.
4) Tuttavia non basta questo. Spesso si desidera di più, si desidera una salvezza e un senso che è anche conservazione si sé, del proprio io, delle proprie memorie, del proprio essere stati. Insomma si desidera una sopravvivenza individuale, si desidera una forma di immortalità che non sia un’immortalità priva di coscienza individuale e immersa nel tutto, ma un’immortalità in cui permanga la nostra coscienza individuale. Questo presuppone l’esistenza di una “base” su cui fondare questo tipo di immortalità, di un’anima immortale dotata di una sua realtà, di un suo essere.
5) Quest’anima, allora, per giustificarsi (per avere senso, per salvarsi) si pone come coscienza del tutto, come punto più alto della realtà dell’essere e come vertice della sua evoluzione. Dall’incoscienza del nulla emerge la coscienza dell’io.
6) Ma questa coscienza del tutto è Dio (o una qualche forma di concezione di Dio), per cui la nostra coscienza proviene da Dio, è creazione di Dio, oppure noi stessi siamo una particella, una manifestazione parziale di Dio. Le soluzioni che la storia della filosofia e delle religioni ci prospettano sono diverse, anche molto diverse, ma tutte finiscono per concordare con una qualche stretta relazione fra la coscienza dell’io individuale e Dio, che si tratti di un Dio del tutto trascendente o di uno immanente al mondo, al nostro destino e al nostro stesso prendere coscienza del mondo.
7) Il livello successivo, il massimo, aperto parzialmente solo alle visioni mistiche, riguarda il senso (la salvezza) dell’essere stesso di Dio. Riguarda la personalità di Dio e i perché dell’esistenza di qualcosa anziché del nulla e del significato di quest’esistenza. E anche, in fondo e forse soprattutto, del perché dell’impossibilità del nulla.
Il livello più alto è indubbiamente il paradosso, non un paradosso, ma l’esistenza stessa del paradosso. La logica è un linguaggio del mondo, serve a camminare nel mondo, ma per comprenderne il senso occorre una metalogica superiore che si fonda sul paradosso.
E questa è materia a cui solo la visione mistica e l’esperienza interiore può avvicinarci di qualche metro. Non abbastanza da capire, perché il capire non è di questa terra, di questo mondo. Ma abbastanza per intuire nebulosamente qualcosa e per credere che il problema del senso e della salvezza sia il problema principale che l’uomo si trova ad affrontare, sia il nucleo, la pietra angolare del suo destino, e la qualità della sua vita dipende da come l’affronta e da come tenta di risolverlo.
E forse non solo la qualità della vita terrena, ma anche di quella eterna, di quell’eternità fuori dal tempo-spazio dell’universo (o di un universo) immerso nel nulla primordiale.
E poiché il nulla non può esistere, tutto è in qualche modo eterno. Comprese le scelte passate. E il loro senso o non senso, al di là del destino individuale, resterà in eterno, sebbene non possiamo avere la minima idea di che tipo di realtà possa avere questa paradossale eternità. Certamente non avrà la realtà delle realtà e apparenze quotidiane, perché anche il quotidiano, nella sua eternità, perde la qualifica di quotidiano.
Caro Aguzzi, mi sembra che lei sia troppo prolisso e che non aggiunga niente di nuovo sul tema della salvezza! Mi sembrano cose risapute e trite e ritrite quelle che lei scrive. Forse nel mio brano ho toccato dei nervi scoperti come la condanna di Marx, del cattolicesimo e di certo umanesimo? È questo forse che infastidisce?
@ Davide Morelli
1) Non sono stato infastidito da nulla, ma ho solo voluto aggiungere un diverso approccio al problema del titolo. Sono sicuramente cose trite e ritrite e non c’è niente di nuovo, ma di tanto in tanto riassumerle schematicamente può essere utile visto che molti ne parlano a ruota libera.
2) Se lei mi conoscesse meglio forse avrebbe evitato la punta di inutile aggressività e di parlare di nervi scoperti, visto, fra l’altro, che non sono cattolico, non sono “umanista”, non sono marxista (anche se nel mio curriculum ci sono studi critici che hanno a che fare col marxismo).
3) Non faccio fatica a concordare con lei (e Popper e tanti altri) che «Le idee di Platone (la Repubblica), Machiavelli, Marx, Hegel, Nietzsche hanno provocato disastri nel nostro Occidente»; e che «Lo stesso dicasi dell’interpretazione letterale dell’Antico Testamento»; e che «Infine la spiritualità non è solo dei religiosi ma anche di mistici eretici, moralisti squinternati, artisti sregolati». Anche queste affermazioni non sono certo nuove.
4) Ma comunque, se lei se la prende in questo modo, pazienza. So che è difficile dialogare anche quando si è d’accordo, figuriamoci poi se si crede di essere in disaccordo. Bisognerebbe applicare più spesso il principio libertario di non aggressione anziché applicare i suggerimenti di Schopenhauer a proposito del come vincere le dispute.
5) Del resto io non mi sento in disputa con nessuno, sul tema della salvezza: che ognuno segua la propria via, basta che non pretenda di chiudere le vie degli altri. Ci sono già troppe dispute sui problemi quotidiani economici, politici ecc. Inutile cercarne anche sul tema così oscuro della salvezza.
6) Infine, sono convinto che ascoltare è sempre più difficile che parlare. E che il silenzio dello stilita (sia nel senso greco sia in quello cristiano del termine) è più doloroso del chiacchiericcio che ci circonda.
Grazie dell’attenzione, auguri per la sua salvezza e cordiali saluti.
L.A.
Caro Aguzzi,
mi chiedo se è vietato parlarne a ruota libera. Neanche lei mi conosce. Quindi siamo in due a non conoscersi. Non mi sembra di essere aggressivo. Ho solo scritto la mia sulle sue riflessioni. È vietato forse? Non me la sono affatto presa e non ho mai scritto di essere originale. Probabilmente tutto è già stato detto. Restano solo a mio avviso dei pensieri in libertà e delle piccole note a margine da scrivere. Sono forse vietati i pensieri in libertà? Per il resto le auguro buona vita. Cordiali saluti.
1) «è vietato parlarne a ruota libera?». No, e io non ho mai mosso la minima obiezione a questo stile di scrittura e di pensiero adottato da tanti autori. Ma credo che non sia vietato nemmeno cercare di unire i vari nodi problematici in un quadro più esteso.
2) «Neanche lei mi conosce». Conosco due raccolte di sue poesie (se il Domenico Morelli poeta è lei, e non un suo omonimo fra i tanti Domenico Morelli attivi nel Web). Ma questo non c’entra nulla.
3) «Ho solo scritto la mia sulle sue riflessioni». Ma in questa “sua” lei mi ha attribuito un fastidio (inesistente) e al presunto fastidio ha attribuito delle cause completamente campate in aria. Qui invece il problema del conoscersi o no c’entra. E in ogni caso attribuire negativamente atteggiamenti non esistenti e non dimostrati è un vecchio trucco che denota aggressività e anche arroganza.
De hoc satis.
Caro Aguzzi,
innanzitutto mi chiamo Davide Morelli e non Domenico. Io ho messo la parola “forse” e ho anche messo il verbo “sembrare”. Non posso neanche esplicitare una mia impressione? Lei stesso non ha scritto che io me l’ero presa in “questo modo”? Non voleva forse con ciò intendere che me l’ero presa? Non era anche questa una sua impressione? Aveva dei riscontri oggettivi per sostenere che me l’ero presa? Non penso di averla attaccata personalmente. Non volevo certo mettere in discussione la sua validità e la sua cultura. Il mio era solo un dubbio e l’ho esposto.
Mi scuso per il lapsus di battitura. Mi riferivo al poeta Davide Morelli autore delle raccolte di poesie: «Dalla finestra» (2013) e «Varie ed eventuali» (2014).
Caro Aguzzi,
sono io. Però sono solo uno scrivente. Non mi definisco un poeta e neanche uno scrittore. Mi dispiace per questa discussione. Non mi pare però di averla aggredita. Almeno non era mia intenzione. Cordiali saluti e buona vita.
Più che parole in libertà lo scritto di Morelli è fatto di aforismi assertivi o di consigli/autoconsigli. Sono frammenti disposti in una sequenza elastica ( o per libera associazione) che batte su alcuni tasti fissi: inutilità della memoria del passato (e della storia), incomunicabilità, ricerca dell’illuminazione, distacco più o meno religioso/mistico dalle brutture del mondo.
Quanto alla trattazione *in proprio* del tema della salvezza fatte da Aguzzi velocemente osserverei :
1. Salvarsi è soprattutto un desiderio, come egli pur dice (« si desidera una sopravvivenza individuale, si desidera una forma di immortalità che non sia un’immortalità priva di coscienza individuale e immersa nel tutto, ma un’immortalità in cui permanga la nostra coscienza individuale»).
2. Tale desiderio di per sé vuol dire «avere senso, avere e dare senso a se stessi e al mondo in cui viviamo»? Non è detto. Nulla garantisce che il desiderio assuma le forme filosofiche da lui enunciate. Né che ci sia relazione certa tra desiderio di salvezza ( ripeto: formulato nei termini della tradizione filosofica evocati da Luciano) e compimento di questa salvezza.
3. La nostra vita (individuale e sociale) può avere un senso (e noi lo cerchiamo o lo costruiamo, spesso al buio e per tentativi ed errori. Non è detto, però, che ci si “salvi” per questo nostro cercare. ( E perché poi bisognerebbe per forza “salvarsi”?). Per me resta, comunque, una bella differenza tra condurre una vita cercandone il senso e gestirsela convinti che «il mondo (l’universo, il tutto, comunque inteso) non abbia senso e che anche cercarne uno sia vano».
4. Mi pare che Aguzzi nel suo pur utile riepilogo filosofico sul tema della salvezza a partire dalla constatazione (più o meno verificata o verificabile) di «una realtà senza senso», dia gran peso a Schopenauer (« siamo un elemento utile e necessario ai fini del mondo, ma non ai fini nostri individuali, o siamo utili e necessari anche in senso individuale?»). E segua (ma anche approvi, mi pare) le tappe fissate da una tradizionale visione ascendente e finalistica («Dall’incoscienza del nulla emerge la coscienza dell’io»). Per cui passa dalla ricerca di fondamenta metafisiche («questo presuppone l’esistenza di una “base” su cui fondare questo tipo di immortalità, di un’anima immortale dotata di una sua realtà, di un suo essere») alla assimilazione «coscienza del tutto» – Dio (« Ma questa coscienza del tutto è Dio (o una qualche forma di concezione di Dio), per cui la nostra coscienza proviene da Dio, è creazione di Dio, oppure noi stessi siamo una particella, una manifestazione parziale di Dio»). Fino ad attribuire un primato a qualcosa che a me pare ancora una volta tipico di un preciso filone della filosofia occidentale: «il problema del senso e della salvezza [è] il problema principale che l’uomo si trova ad affrontare, [è] il nucleo, la pietra angolare del suo destino, e la qualità della sua vita dipende da come l’affronta e da come tenta di risolverlo».
5. Mi chiedo – ma posso sbagliare – quanto questo tipo di interrogazione filosofica abbia in sé qualcosa di psicotico o folle, perché discorso troppo staccato dalle pratiche e dalle esistenze concrete.
6. Davvero non mi riesce di capire questa affermazione: «E poiché il nulla non può esistere tutto è in qualche modo eterno».
@ Ennio
Concordo su gran parte delle osservazioni. Io non ho riferito il mio pensiero, ma ho fatto un riassunto della tradizione di pensiero che possiamo riscontrare nelle storie delle religioni e della filosofia.
Più in dettaglio sulle tue osservazioni.
1) Tutto è oscuro, possiamo solo affidarci alla soggettività e alla propria coscienza. Per quel che mi riguarda, in base alle mie esperienze soggettive (che comprendono il sentire, l’esperienza sensibile e la meditazione, il ragionamento e le “illuminazioni”), credo di collocarmi oltre il primo livello. Ma non saprei quanto oltre. La stessa “fede” oscilla fra varie alternative, non essendo, per me, ancorata a nessuna rivelazione data ma solo alla ricerca personale. Che è mutevole e non riesce e forse non vuole fissare nulla come dogma.
2) «attribuire un primato a qualcosa che a me pare ancora una volta tipico di un preciso filone della filosofia occidentale». Mi pare che lo sia anche delle filosofie e religioni non occidentali. E anche del pensiero primitivo. Poi il tema è confezionato in mille modi diversi, ma è il tema principale anche delle filosofie e religioni orientali. Del resto, una storia della filosofia un po’ meno scolastica ci rivela che fra Oriente e Occidente ci sono stati molteplici scambi culturali fin dai tempi più antichi. L’itinerario buddista non è forse un itinerario di salvezza? E l’antropologia non ci racconta storie di salvezza interne alle più disparate concezioni religiose di popolazioni antiche e attuali disperse in ogni parte del mondo? Fin dalle più antiche forme di religione naturalistica e di animismo (ammesso che davvero queste siano le forme più antiche) il tema della salvezza è centrale. Ma c’è addirittura chi afferma che, in qualche modo per noi oscuro, sia presente anche in certe specie di animali che ci fanno registrare delle ritualità che, a noi, sembrano riti funebri e preghiere. Che cosa poi questi comportamenti significhino per gli animali che ne sono protagonisti, non lo sappiamo. Infine, molti critici delle credenze religiose (atei, materialisti, antireligiosi al 100%), cercano di giustificare la presenza delle credenze religiose fin dai tempi più antichi con una necessità evolutiva. Le credenze religiose rientrerebbero in una strategia evolutiva che oggi, con lo sviluppo della scienza, avrebbe perso la sua utilità, rimanendo come residuo, come superstizione. Altri ritengono invece che la “forza” delle credenze religiose, nonostante tutte le apparenti smentite, stia propria nella loro necessità
Necessità psicologica, soggettiva, illusoria? O anche necessità oggettiva? Siamo noi i protagonisti di una evoluzione non finalizzata, o c’è un fine che evolve e si realizza anche attraverso noi, di noi come suoi strumenti? Problema che, credo, sia insolubile in termini di analisi e di logica.
3) «Mi pare che Aguzzi […] dia gran peso a Schopenhauer». A lui e a tanti altri, ma non nel senso di condividerne le conclusioni, ma in quello di condividere l’idea dell’utilità della ricerca, la necessità di pensarci, l’utilità di fare delle scelte.
4) «Mi chiedo […] quanto questo tipo di interrogazione filosofica abbia in sé qualcosa di psicotico o folle». Ha molto di psicotico e folle se diventa un’ossessione, una mania, una credenza fanatica, una irragionevole sottomissione a una qualunque delle credenze organizzate. Ma nulla se si mantiene nell’ambito di una meditazione personale, se non intralcia ma anzi aiuta il vivere nel mondo, all’interno delle cose quotidiane; se è una ricerca filosofica (discorsiva e logica, per quanto può esserlo) e interiore (sentita come esigenza viva); se non pretende che altri seguano lo stesso cammino e credano alle stesse cose.
5) «perché discorso troppo staccato dalle pratiche e dalle esistenze concrete». Anche questo è relativo alle esperienze personali. Per qualcuno è «troppo staccato», per altri no. Le motivazioni che avvicinano questo discorso, sino a renderlo – per qualcuno – obbligatorio, possono essere diverse: sia di tipo culturale, sia di costume e tradizione, sia di tipo inerente all’esperienza empirica soggettiva. Chi ha vissuto fenomeni definiti “paranormali” o fenomeni studiati dalla “parapsicologia” (da non confondere le due categorie), chi ne ha fatto l’esperienza sulla propria pelle, non può ritenere «troppo staccato» cercare di capire che cosa gli è successo e/o gli succede. Questo è solo un esempio (la cui realtà è indiscutibile perché la diffusione di fenomeni simili è comprovata in tanti modi, e io personalmente ne ho la certezza). Capire, cercare una spiegazione a una realtà che si vive non è mai «troppo staccato». E a parte i fenomeni “paranormali”, c’è anche quel fenomeno normalissimo di miliardi di persone che credono in un Dio particolare che si è rivelato. Per tutti questi cercare di approfondire il discorso non è certo «troppo staccato». L’esperienza empirica può fondarsi sul reale o anche solo sull’immaginario e l’illusorio, ma rimane esperienza, e per molti da ciò scaturisce l’esigenza di capire di più, di meditare su che cosa vuol dire questo loro credere. Io, ad esempio, mi sono staccato dal cattolicesimo proprio cercando di approfondire la fede ricevuta da bambino; leggendo libri di teologia cattolica ho concluso che non quadravano e ho cominciato a pensare per mio conto. Ma l’esigenza di pensarci è rimasta.
6) A pensarci bene, chi ritiene che il discorso sia «troppo staccato», è perché crede di averlo già risolto (e in molti casi con una adesione a qualche forma di ateismo e materialismo), o perché crede che non sia comunque risolvibile e quindi sia inutile pensarci (è il caso di molti che si definiscono agnostici o genericamente non credenti), o perché crede che qualunque soluzione sia relativa ed equivalente (caso più raro, ma esistente), o infine perché il problema gli è comunque indifferente, per mancanza di sensibilità o di cultura o perché spinto da altre urgenze ritenute prioritarie. Si tratta però pur sempre di una scelta specifica e di un «troppo staccato» relativo.
7) «Non è detto, però, che ci si “salvi” per questo nostro cercare. (E perché poi bisognerebbe per forza “salvarsi”?)». È verissimo. Nulla è detto. Nulla è certo. Ma la ricerca resta comunque una via, una possibilità, una scelta. Come per tante altre cose, c’è chi ne sente la necessità o l’utilità o il piacere; e chi non se ne occupa affatto.
8) «Davvero non mi riesce di capire questa affermazione: “E poiché il nulla non può esistere tutto è in qualche modo eterno”». Questa affermazione raccoglie implicitamente una lunga tradizione sia occidentale (da Parmenide a Severino) sia orientale. Le teorie sul “divenire” non sono mai riuscite a superare completamente le aporie teoretiche, perché le teorie del divenire presuppongono che il qualcosa che diviene, nel suo divenire, passi dal nulla all’essere, e con la morte ritorni dall’essere al nulla. Ma se il nulla non esiste non può esistere “questo tipo” di divenire e ogni cosa che a noi sembra divenire non è altro che un essere eterno in sé che ci appare in successione di altri esseri eterni. E noi scambiamo la successione per divenire, l’apparenza per realtà. Questa è una delle soluzioni del problema; ne esistono anche altre, e tutte si basano sulla concezione del divenire come mera apparenza, inganno. In proposito è stata concepita la metafora del teatro: l’attore appare sul palcoscenico, ma esiste anche prima e continuerà a esistere anche dopo. Oggi si potrebbe cambiare questa metafora sulla scia dell’informatica: un programma crea immagini che appaiono sul monitor e poi scompaiono, ma nel programma quelle immagini esistevano anche prima di apparire e continueranno a esistere anche dopo e, idealmente, esistevano e continueranno a esistere indipendentemente dall’esistenza del programma stesso e di un hardware su cui farlo girare. Esistevano come possibilità o come realtà nella mente del programmatore. E prima ancora esistevano nelle possibilità del linguaggio informatico e dei suoi fondamenti. Ma, come nella vecchia domanda di Russell: «Chi ha creato il Dio che ha creato l’universo? E chi ha creato il creatore di questo Dio che ha creato l’universo?», dobbiamo fermarci, perché la regressione logica sarebbe infinita.
Infatti, nel mio primo intervento dicevo che al suo limite il problema esce dalla logica e si presenta come paradosso. Però si presenta.
@ Aguzzi
Io pure concordo con molte delle tue ultime considerazioni e con l’atteggiamento da “inquieto ricercatore”, che non s’accontenta né però si autoesalta ( qui mi riferisco al rischio di “psicoticità” di un certo ruminare non solo dei filosofi…). Ho un atteggiamento di rispetto e di attenzione verso chi «ha vissuto fenomeni definiti “paranormali” etc.». Resta il fatto che quanto riguarda tali esperienze sia un «discorso troppo staccato dalle pratiche e dalle esistenze concrete». Tuttavianon mi pare da sottovalutare la questione della *possibile* relazione tra queste esperienze, che a prima vista paiono differenti e contrastanti. Se, infatti, ci fosse una relazione (tutta da dimostrare) l’eccezionale o l’extra-ordinario sperimentato dal singolo che «ha vissuto fenomeni definiti “paranormali” etc.» dovrebbe influire e forse correggere le pratiche più comuni. Ma rimane aperta la questione anche del processo inverso.
Questa è, dunque, la mia posizione: aperta e dubitativa e non quella di «chi ritiene che il discorso sia «troppo staccato», […] perché […] già risolto» .
Concordo con la tua conclusione. Del resto, proprio perché i temi della parapsicologia e del paranormale (come quelli della metafisica) non hanno o non sembrano avere soluzioni certe e vicine, io me ne interesso come curioso ma dedicandogli solo uno spazio limitato del mio tempo. Nemico dei fanatismi di qualsiasi religione e ideologia, figuriamoci se potrei approvare quelli della parapsicologia, dell’archeologia del mistero, dell’ufologia e via via dicendo fra esoterismi e misteriosofie varie.
Tuttavia, pur guardando in terra per non inciampare, cerco di non dimenticare che lo spazio che ho sopra la testa è vasto quanto quello che ho sotto i piedi. E lo spazio A (il tutto) che “forse” sta fuori dello spazio B (l’universo fisico-matematico) è “forse” ancora più largo.
Detto fra parentesi, le cose più belle scritte sul concetto di “nulla” in relazione alla cosmologia e all’origine del big-bang le ho lette in libri e articoli scritti da matematici e da fisici, anche atei, i quali, quando cercano di approfondire i temi posti al limite delle scienze esatte, sembrano, a volte, imitare gli scrittori mistici, pur adoperando un linguaggio molto diverso.
C’è una costante a collegare esperienze mistiche e extrasensoriali, ed è il fondamento amoroso, un legame tipo entanglement “questo fenomeno coinvolge particelle che abbiano come presupposto il fatto di essere generate da uno stesso processo o che comunque si siano trovate in interazione reciproca per un certo periodo di tempo. Se si verifica una delle due condizioni precedenti, succede, e si è riscontrato sperimentalmente, che le suddette particelle rimangono in qualche modo legate (entangled), nel senso che quello che accade a una di esse si ripercuote immediatamente anche sull’altra, senza la necessità di una interazione, indipendentemente dalla distanza che le separa. Ad esempio se si inverte il moto di rotazione di una, anche la particella (sorella) invertirà il suo moto e questo avviene anche se si trovassero a migliaia di km, è come se tra le due ci fosse un legame che va al di là dello spazio che le separa” https://www.verascienza.com/meccanica-quantistica-il-fenomeno-dellentangl/.
Viene in mente subito il discorso sull’amore del Simposio, in cui le due metà della creatura originaria si cercano nella vita mortale.
E’ giusto non farsi coinvolgere troppo sul piano pratico, della vita lavorativa e quotidiana, da “queste esperienze”, anche perchè spesso sono capricciose, capitano a loro arbitrio, e lanciano avvertimenti anche insondabili.
Tuttavia sarà opportuno prendere atto anche del fatto che le madri conoscono gli in-fanti, e gli infanti conoscono le madri. E che questo legame rimane più o meno forte negli anni degli anni. Insomma l’amore, dal più sublime al carnale, capita quotidianamente come la più comune pratica extrasensoriale, e d’altra parte la mistica è imperniata sull’amore, e non necessariamente per un dio persona.