Ad Anastasia Andreev con la mia riconoscenza
(Ecco cosa voglio fare: scrivere una cosa intitolata: “A quattro zampe”.)
Stava appoggiata sulle mani e sui ginocchi
e così camminava un po’ diritto e un po’ di sbieco
poi si girava a guardare il percorso e sorrideva.
Non so dire chi fosse, ma mi interessava molto,
aveva una capigliatura rasata e delle basette
lunghissime quasi fin sotto il mento,
si voltava indietro ogni tanto forse
per misurare il percorso.
Che ne so, ad ogni modo mi interessava.
A casa provai a farlo anch’io, mi riusciva
ma ero un po’ sbilanciato.
In fondo potrei anche farlo, le sue
caratteristiche
le ho tutte, sono quasi infermo, ma cammino
piano, ma cammino nonostante
mi facciano male i talloni. Sembra un racconto
quasi surreale, non ne ho mai scritti, cosa ne verrà
fuori? Staremo a vedere.
Era una giornata di sole, un sole forte
che crogiolava le membra e i capi scoperti,
sembrava piena estate ma non lo era,
s’era in settembre e le foglie cominciavano
a ingiallire. Quella povera donna
continuava il suo cammino, faticoso
ma molto corretto sul marciapiedi
sberciando i passanti e ogni tanto
grugnendo per la fatica.
La seguivo senza alcuna volontà, la toccavo
quasi due passi indietro con una vaga
volontà di contattarla.
Come avrei potuto incominciare la mia
intervista? Cosa avrei potuto chiederle,
con che forza poteva controllare le sue
povere mani? E come organizzare quei suoi
quattro arti scombinati e freddi
con quel suo utilizzarli in quella strana
e maniera? Sì, si spostava
nella strada ma molto lentamente intralciando
il comune cammino delle persone e richiamando
gli sguardi della folla continuamente.
Povera donna! Si trascinava dietro
quel po’ po’ di peso con grande dignità, ma
priva di ogni realtà e di ogni verità.
Come pensava di ottenere credulità così
priva di umanità?
Chi la incrociava poi, le lasciava poco
spazio di manovra, poco spazio di vita
in quell’angusto corridoio che le era
concesso.
Povera poverissima donna. Aveva bei
capelli neri che le scendevano sulle
spalle curve, le mani martoriate,
infilate in due guanti di legno,
la sostenevano miseramente.
Sembrava uno strano animale con la faccia
rivolta in su e due occhi miseri e quasi
assenti, attenti solo al suo percorso
e ai pochi ostacoli che trovava per via.
I cenci che la ricoprivano potevano sembrare
strascichi di regina pronti per le nozze,
non regali ma di grande dignità.
Li strisciava sulle pietre del marciapiedi
e ogni tanto se li guardava
perché non intralciassero i piedi degli
altri passanti.
Povera povera femmina della sfortuna,
quali misfatti avevano
percosso la tua figura,
il tuo faticosissimo cammino, il tuo
pietoso guardare la realtà dal basso come
un animale attento alla preda.
Chi la sorpassava si voltava indietro
e la fissava con una curiosità un po’ afflitta,
ma continuava la sua marcia inflessibile
senza curarsene di più. Una terribile
situazione con in più una serena inflessibilità
mostrata nello sguardo e nella pacifica
allusione all’inevitabilità e al destino,
a una soluzione impossibile e sicura.
Come poteva risolvere una simile situazione
la povera donna? Ogni tanto sfilava
le mani dai suoi guanti di legno
e sgranchiva le dita una alla volta
alzandole dal pugno e richiudendole poi
con uno sforzo quasi lancinante
in un pugnetto misero e minuscolo
come il guscio di una noce.
Elemosina ne riceveva poca, qualche
monetina buttatale sull’asfalto
che lei raccattava con mano tremolante
e poi infilava nel suo misero
guanto di legno.
Mi domandavo com’era possibile quella
situazione, da dove le veniva quell’orrendo
giudizio, quella pena inflitta senza
nessun giudice, nessuna giuria,
ma non avevo risposte.
E intanto mi si torceva il cuore
come un altro pugno nello stomaco
e le mie gambe tremavano un passo dietro
l’altro, un’occhiata dietro l’altra
e continuavo il mio percorso come dietro
una pietosa processione senza alcuna possibilità
d’intervenire, nulla che potesse aiutarla.
Era una via crucis senza speranza.
Ah Cristo, come permetti un simile plagio
senza una lacrima di misericordia!
Come ammetti una pena così grande, tu che sei
beato, così dicono, a fianco del padre
lassù oltre le nubi nel paradiso dei giusti? Verrà
mai il giorno della verità? Anche qui,
sulla terra dove c’è chi soffre e basta
senza riscatto, senza un giudizio preventivo?
Ah Cristo! Fra le tue parabole c’è un morto
resuscitato un cieco che vede uno zoppo
che cammina. Dio! Come sono strane
queste strane parabole come incredibili
di fronte a queste realtà. Non ci sono
giustificazioni, non comprensioni, non
stimoli per praticare i tuoi insegnamenti
le tue prediche, solo fede, ma è poco
per crederti. Certo, tu sei lassù e forse
la tua logica è molto diversa dalla nostra,
ma ci sarà bene una logica universale
che agganci la tua alla nostra.
Non ti sembra, Cristo?
Ma non c’è, strano ma vero.
La logica è una scienza esatta,
nessuno può smentirlo, nessuno può
contraddirla, almeno qui da noi, ma tu
non te ne sei avvalso. Come potremo
noi crederti
senza la tua santa intelligenza?
Non sono un miscredente ma neanche
un credente, credo fermamente solo
nell’evidenza. E’ forse una specie di
miscredenza? Non credo. Sono un uomo
senza capacità filosofiche o concettuali,
ma sono un uomo e come tale giudico
le cose che mi vengono sott’occhio,
pure e semplici come l’acqua.
Sono forse un miscredente? O una semplice
zucca che non sa dove sbattere la testa?
Credo che la seconda di queste due ipotesi
sia la più appropriata e tale la ritengo.
Non so che fare, non riesco a trovare
una risposta.
Il poeta parla a se stesso che scrive, lo scrivente diventa uno (un individuo, una persona, il poeta?) scritto (o una scrittura) scritto da un altro, dal poeta-regista. O è lo scritto “di” un altro? Capita a chi scrive, che difficilmente si assorba nell’ispirazione che lo fa scrivere, e tuttavia conosca e indaghi (scrivendo!) lo sdoppiamento che coglie, mentre ancora più vicino all’oggetto della scrittura, e all’atto di scrivere, si trova.
Vicino all’oggetto (un’occasione, un tema): “la seguivo, la toccavo … quasi due passi indietro”, “provai a farlo anch’io … In fondo potrei anche farlo, le sue/caratteristiche/le ho tutte, sono quasi infermo, ma cammino/piano, ma cammino”); e subito anche vicino alla meditazione, ben più lancinante (lancinante come è per sé e per noi che *dobbiamo* vederla se esiste, e non dobbiamo fare a meno di scriverla, la vita della donna coi guanti di legno e i bei capelli neri): meditazione sulla ingiustizia, così la chiamiamo invece che caso. O meglio, si chiama in tutti e due i modi, caso (ovvio, ti cade sulla testa!) che colpisce alcuni più disgraziati di altri, ingiustizia rispetto alle nostre esigenze morali e mentali.
Nessun accenno nella poesia all’infelicità della donna, che anzi si cura che i suoi abiti “strascichi di regina pronti per le nozze,/non regali ma di grande dignità” non intralcino il percorso degli altri sul marciapiede: la donna vive, è quella la sua vita. Ma la richiesta di giustizia pretende di fissare, per superare, le divisioni tra vita beata e vita infelice.
Anche il poeta dà per scontata la infelicità profonda della vita reale di quella donna che cammina sui ginocchi e i guanti di legno chiedendo la carità. Quell’abisso di differenza non lo lascia tranquillo, interroga i nostri strumenti culturali antichi, le antiche fonti di legittimazione (quelle religiose) delle costrizioni, delle angustie, delle strettoie in cui tuttavia viviamo.
E non sa, il poeta, come nessuno, neanche i grandi profeti che interrogavano dio in un tribunale terreno, perchè tanta miseria e tanto dolore, tanta “ingiustizia”, così la appelliamo, ma la giustizia è idea nostra non di dio.
Non sono un miscredente ma neanche
un credente, credo fermamente solo
nell’evidenza. E’ forse una specie di
miscredenza? Non credo. Sono un uomo
senza capacità filosofiche o concettuali,
ma sono un uomo e come tale giudico
le cose che mi vengono sott’occhio,
pure e semplici come l’acqua.
Sono forse un miscredente? O una semplice
zucca che non sa dove sbattere la testa?
Credo che la seconda di queste due ipotesi
sia la più appropriata e tale la ritengo.
Non so che fare, non riesco a trovare
una risposta.
Cara Cristiana, ti ringrazio molto del tuo elaborato e bel commento. Spero lo leggano anche tutti gli altri. Intanto che aspetto cosa diranno, ti ringrazio di cuore e ti mando i miei più affettuosi auguri. Tuo Arnaldo
…Arnaldo Ederle per introdurre la sua coinvolgente poesia scrive: “Ecco cosa voglio fare…”, come per dire la sua volontà di “fare poesia” non in relazione ad una particolare ispirazione, ma semplicemente poichè “…sono un uomo e come tale giudico/ le cose che mi vengono sott’occhio,/ pure e semplici come l’acqua”. Cosi’ mi è parso, leggendo la poesia, di partecipare al respiro ansimante del poeta, che a sua volta segue quello di una donna che faticosamente trascina i suoi giorni in una condizione di disagio fisico terribile, ma anche di grande dignità…Il procedere di quella donna mi ha in qualche modo richiamato l’immagine dell’umanità stenta di oggi che pero’ non è ancora riuscita, diversamente dalla donna descritta, a vedersi nella sua realtà limitatissima e tanto meno a realizzare mezzi di sussistenza, seppur grami, faticosi e richiedenti un elemosina di aiuto. Le mode ci esaltano perfetti e scintillanti, ma noi chi siamo?
Cara Annamaria, “ma noi chi siamo?” E’ una domanda che mi faccio anch’io. Ma non so
che rispondere. Ti ringrazio. Un caro saluto. Arnaldo Ederle