di Marco Russo
Un albero fa mi strattonasti
forte alla radice del tronco.
Ora sono salice versato
nell’arte dell’arrendersi.
E sverno a terra, frugo
fra gli indumenti di neve
il meno impietoso verso le forme
filiformi delle vene.
Ho fatto il pieno delle assoluzioni
e ora ti confino fra gli inoffensivi,
ti disinnesco da tempesta a solletico.
Non risalirai la bocca dello stomaco
per ritentare la via del torace.
Morirai nella sede dei pugni
dove imperversasti in nugoli di farfalle.
Sotto la luce interdetta dello sterno
ti dibatterai falena e stella cadaverica.
Bisogna chiedersi se è rimasto qualcosa.
Bisogna interrogare le pietre, i calcinacci,
le grondaie, i muri crollati.
E farsi dire se è rimasto o no qualcosa.
Qualcosa come uno schiaffo alle rovine,
una voglia insensata di danza
qui, dove proseguono i cedimenti.
Puoi anche danzare attorno a un suono
e in questo accerchiamento che fa i solchi
vedere il tuo destino, di volta in volta credere
di bruciare interamente e senza appello
girando e rigirando il coltello nella piaga
vorticosa dell’assedio, sperando e disperando
di sfiorarne il centro in questo incidere
circondando.
Mi dispongo a nuova aratura
e te, solo te voglio
a rimpolpare la mia terra.
Non abiuro le gelate inospitali,
le difese di crosta del deluso,
gli spacchi di suolo dell’infranto
dove insabbiavo i sorrisi in solchi.
In tutto quello che ho taciuto
sento riscossa di verde discinto.
Vieni a vendicare siccità e carestie,
salva la sete dei miei pori.
Sei il richiamo silente della terra
e ignori cosa sia vociare di frastuono.
Non conosci arresto del respiro
e fermenti sommessa,
rigeneri materia macerandola.
Io ti assaporo fin nell’intimo
dei tuoi sedimenti. Mi profondo
nell’ascolto, trascrivo il tuo canto.
Pianto in te la mia parola.
La metto a dimora.
E non sapevi che ogni istante
straripa nel disperso
e si incolpa di candore
per non aver capito
che davanti preme un cumulo di cose
inattese, artefici di meraviglia
e di scompiglio
e tutto è sterminato, oh sterminato,
tutto è devastato e vasto.
Da Il dono di avere vene di Marco Russo, Controluna Edizioni 2018
Marco Russo (Sorrento, 1974) insegna Filosofia nei licei. Sue liriche sono apparse sulla rivista “Gradiva” e in antologie di poesia contemporanea. Ha tradotto e curato il romanzo francese del 1605 L’isola degli ermafroditi (2007); e pubblicato la raccolta di versi Qualcosa ha ancora più fame (2013).
Questi versi catturano l’attenzione per la freschezza e la singolarità delle immagini e anche per una verbalità a volte inedita e comunque mai banale. L’occhio del poeta – che osserva indaga registra- oscilla tra due presenze ( “io” e “tu”), ne circoscrive l’azione, ne fissa momenti salienti. Il tutto corredato da richiami fonici (paronomasie, assonanze, allitterazioni, ecc.) e allusivi.
Pasquale Balestriere