di Anna Ridley [trad. Paolo Carnevali]
Hanif Kureishi è un drammaturgo, sceneggiatore e scrittore, nato nel 1954 a Londra da padre pakistano e madre inglese. Il suo romanzo Il Budda delle periferie” (1990), è stato tradotto in più di 20 lingue e reso serie televisiva drammatica dalla BBC. Colpisce la figura di Karim, un ragazzino di origini anglo-pakistane desideroso di fuggire dalla periferia sud londinese per poter vivere nuove esperienze nel centro della capitale. Lui si sente inglese, ma molti vedono in lui un misto di culture e lo trattano da emarginato. Il padre raggiungerà la notorietà organizzando distrazioni esotiche: corsi di religione buddista per l’alta società inglese, tanto da essere definito il “Budda delle periferie”. In questo modo nella famiglia incomincia un vero distacco dalle radici culturali originarie pakistane e un processo di identificazione con la cultura inglese, così che a poco a poco tutta la famiglia uscirà dall’emarginazione sociale.
Le interviste di Valentina Agostinis (che ho citato nel mio primo intervento sulla pagina di Poliscritture commentando La dissoluzione dei luoghi. Iain Sinclair di Paolo Carnevali) fatte a otto scrittori, londinesi di fatto, dimostrano che sta nascendo una letteratura capace di esplorare in modi nuovi gli orizzonti sociali di una grande metropoli come Londra. Il lettore si trova di fronte ad un ritratto vivissimo di una città-mondo multietnica e multiculturale. Tale è diventata, infatti, Londra, città che nel 2005 ha conosciuto anche gli attentati del terrorismo islamico e che, da allora, è uno dei luoghi più sorvegliati della terra. Londra, che ha visto la City finire in ginocchio dopo la crisi finanziaria, assiste ad una rivoluzione urbana
in continua trasformazione che dovrebbe toccare il punto più alto con le Olimpiadi del 2012 . E così prendono forma i Peter Pan della Middle Class, la nuova classe media progressista di cui parla lo scrittore e sceneggiatore Nick Hornby; e la Brick Lane, celebre strada dell’East End Londinese, lunga circa un kilometro nel quartiere Tower Hamlets, descritta da Monica Ali, scrittrice inglese di origini bengalesi. Questo è il suo romanzo di esordio: una giovane è costretta ad emigrare in U.K. per sposare un uomo con il doppio dei suoi anni, il suo nome è Nazneen, nata nel fango di un villaggio in Bangladesh, trascorre le sue giornate chiusa in un piccolo appartamento di Brick Lane, nel cuore dell’East End London insieme ad un marito che insegue un futuro che non si realizza mai. Conosce un giovane attivista musulmano impegnato nella difesa delle comunità minoritarie e da questo momento la sua vita cambierà radicalmente.
Un altro romanzo interessante è quello di Will Self, London. Appunti da una metropoli, dove l’autore, giornalista e scrittore nato nel 1961 a Londra, racconta la sua Londra degli anni ’90 attraverso una raccolta di articoli pubblicati in riviste e giornali usciti in quel decennio. I temi che propone sono vari e la sua scrittura fa riferimento alla cultura moderna. Il suo romanzo più conosciuto Umbrella, un prodigio di immaginazione, è articolato in forma di flusso di coscienza che afferra il modernismo del XXI secolo. (Il titolo è preso da una citazione di Joyce: “un fratello, come un ombrello, lo si dimentica facilmente”). Self analizza l’eredità sociale della prima Guerra Mondiale, l’anti-psichiatria, la relatività della follia e l’impatto della tecnologia sul corpo umano. Le storie che si intrecciano sono tre e ne emerge il ritratto di un’epoca, ma anche della città. Will Self è un grande camminatore e le sue sono esplorazioni psico-geografiche di una Londra di cui osserva attentamente i cambiamenti sociali. Ha scritto pure Grey Area, non tradotto in Italia: una bella raccolta di racconti brevi, dove si analizzano alcuni aspetti surreali e folli della società odierna; mentre nel The book of dave parla di una vicenda divertente e particolare: un taxista, seppellisce un libro in cui ha raccolto le sue osservazioni giornaliere della vita londinese che, rinvenuto dopo 500 anni, diventerà un libro sacro per gli abitanti dell’Isola di Harn, l’unico territorio rimasto di una Gran Bretagna inghiottita dalle acque. Self ha dichiarato: “Penso che Londra sia un immenso fungo allucinogeno che stordisce le persone in un modo misterioso, producendo fantasie. A livello personale e filosofico la mia è una reazione contro la globalizzazione della borghesia-occidentale. Ormai le persone arrivano nel centro delle grandi città che sono tutte uguali, conservano i ricordi in macchine digitali, ma non percepiscono le realtà geografiche e fisiche della città. La realtà virtuale in cui sono immersi gli abitanti delle metropoli è ormai così invadente che il loro sguardo non è più in grado di fare esperienza dei luoghi reali, quelli della vita quotidiana della gente che ci vive”.
Di Gautam Malkami ho letto Londonstani, il suo romanzo di debutto (2006). Questo autore scrive per i ragazzi asiatici di Londra e per i giovani coinvolti nella cultura urbana ma che solitamente non sono interessati alla lettura. Egli intende rendere visibile la diversità culturale che si va creando nei quartieri periferici e studiare le loro sub-culture, che dagli ’90 del Novecento sono diventate più importanti delle culture etniche e uniscono persone provenienti da tutti i paesi del mondo che hanno però gusti e interessi simili. Nel suo romanzo, ad esempio, due ragazze musulmane conoscono due ragazzi inglesi in un ristorante libanese e decidono di andare a ballare con loro. Gli interessi e i gusti che questi coetanei condividono, riescono ad unire le loro diversità.
Infine uno scrittore che amo molto è Hari Kunzru, autore di bestseller e giornalista di testate inglesi e internazionali. Nato a Londra nel 1968 da un padre chirurgo ortopedico e induista originario di Agra e da una madre londinese e di forte tradizione anglicana. Trascorre la sua infanzia nell’Essex e prosegue gli studi ad Oxford. L’Imitatore è un romanzo storico in cui lo scrittore Kunzru affronta alcuni degli stereotipi inglesi sul romanzo indiano. Mantiene la fede nella possibilità di una società armonica, che da una parte non annulli le differenze ma che dall’altra non le isoli e le faccia, invece, convivere integrandole. Egli cerca di superare anche la visione del mondo che avevano gli scrittori delle generazioni precedenti, proponendo una narrativa britannica che affronta le questioni dell’ibridismo britannico, una mescolanza non omogenea. E’ una storia completamente diversa da quella degli scrittori nati e cresciuti in India. Ci sono stati, infatti, dei cambiamenti veloci. All’inizio si scriveva da immigrati e le storie erano quasi sempre le stesse. Poi è arrivata una generazione più giovane come quella della scrittrice Zadie Smith. la quale con il romanzo Denti bianchi esprime la piena consapevolezza che i figli degli immigrati nati a Londra fanno parte come tutti di questa città e ne condividono gli spazi. Il protagonista, Pran Nath Razdan, nato nel 1903 da un’unione occasionale tra un selvicoltore inglese e una ragazza indiana, è costretto fino dalla nascita a condurre una vita da reietto. Il suo lungo percorso di formazione passa tra eventi che lo trascinano da Mumbai all’Inghilterra e poi in Africa. In queste tappe è costretto ogni volta a cambiare identità. Il protagonista arriva alla fine del libro, ormai alla soglia degli anni’20, addirittura senza avere più un suo nome. Ed è, però, proprio in questo vuoto d’identità che Pran ritrova finalmente se stesso, muovendosi ormai liberamente dentro un mondo troppo ossessionato dalle classificazioni. Kunzru dimostra un interesse particolare per le dinamiche della discriminazione razziale di cui la cronaca londinese dà numerosi e continui esempi, ma nonostante tutto va ricordato che Londra rimane una metropoli multiculturale.
Anna Ridley è giornalista pubblicista presso le edizioni Penguin books di Londra e responsabile delle comunicazioni e rapporti con la sede di New York.
Inviato da Outlook
…trovo molto interessante il panorama di scrittori anglofoni che Anna Ridley ci presenta in quanto testimoni, attraverso i personaggi dei loro romanzi, del percorso travagliato che -passando giocoforza da una selezione naturale e culturale di passato e di presente, di lingue e di consuetudini da diverse latitudini geografiche e culturali, ecc.- sfocia in una città multietnica come Londra, nell’ibridismo del vivere, del pensare, del fare…Penso che sia il nostro presente e il nostro futuro
Questa rapida rassegna di Anna Ridley sugli scrittori metropolitani di Londra, sulla quale tornerò, mi ha fatto venire in mente un articolo di Claudio Giunta, pubblicato da “Le parole e le cose” su Vidiadhar Surajprasad Naipaul, che può forse essere considerato il nonno di questi scrittori più giovani. Sarebbe interessante cogliere analogie e differenze tra loro- Ne stralcio un passo:
“Libro dopo libro, i grandi scrittori articolano la loro idea dell’esistenza, di come bisogna o non bisogna viverla: e noi li leggiamo perché vorremmo che un po’ della loro intelligenza e della loro saggezza ci aiuti a mettere in sesto la nostra, di esistenza; e anche per vedere come se la sono cavata gli altri. Di solito questi scrittori prendono uno spicchio di mondo – Parigi, Newark, la Sicilia, le borgate romane – e lo adoperano come sineddoche: gli esseri umani che vanno in scena in quei libri appartengono a un luogo e a un tempo determinati, ma sono figure dell’umanità. Anche V. S. Naipaul aveva la sua piccola patria: era nato nell’isola di Trinidad, al largo delle coste del Venezuela, ed è lì che sono ambientati i suoi primi romanzi (a cominciare dal più celebre, Una casa per Mr Biswas). Ma Naipaul non li scrisse a Trinidad. Nel 1950, diciottenne, si trasferì a Oxford con una borsa di studio, e non tornò più indietro. La cultura anglosassone si sovrappose così in lui a quella caraibica nella quale era nato, e a quella indiana dei suoi antenati, che dall’India erano emigrati a Trinidad alla fine dell’Ottocento.
Venire da una minuscola regione del mondo nella quale non aveva radici particolarmente profonde, e che non gli era particolarmente cara, gli permise di sviluppare, per usare le sue parole, «un senso del mondo», e gli fece desiderare di approfondirlo, questo senso del mondo, viaggiando.”
E indico il link: http://www.leparoleelecose.it/?p=33596
@ Anna Ridley e Paolo Carnevali
Voi sapete che le nuove immigrazioni intercontinentali in Europa stanno suscitando in quasi tutti i paesi, Italia in primis, atteggiamenti di ostilità fino a veri e propri atti di razzismo. La Gran Bretagna, che per la sua storia, ha un’esperienza secolare di rapporti con popoli di altre civiltà – all’inizio (nell’Ottocento) duramente colonialisti e poi, con la perdita dell’Impero, ambiguamente postcolonialisti -, ha affrontato prima (e forse meglio) di altri Paesi processi complessi di tolleranza e intolleranza, integrazione ed esclusione. E Londra, come ci state raccontando, ha tanti giovani scrittori che stanno osservando e descrivendo, dal vivo -in luoghi precisi e in individui o gruppi sociali precisi – come stanno avvenendo questi processi caotici . Perché è sicuramente uno dei “laboratori” più importanti tra le grandi metropoli studiate dalla sociologa ed economista Saskia Sassen.
Ora, poiché non credo che questi scrittori della Londra metropolitana siano delle semplici macchine fotografiche dell’«ibridismo britannico» o delle «dinamiche della discriminazione razziale», vorrei sapere da voi:
– quali idee (religiosi, politiche, estetiche) guidano o influenzano il loro lavoro di scrittori;
– se, accanto al loro lavoro di scrittori di romanzi, hanno anche un’attività di saggisti; e cioè di riflessione più “filosofica” sulle questioni che si trovano ad osservare;
– come vengono giudicati dal mondo accademico (tradizionale e non) o dai grandi opinionisti delle TV e dei grandi giornali.
Grazie della vostra collaborazione.
E’ con grande piacere vedere pubblicato in articolo il mio intervento. Ringrazio Ennio Abate e la redazione di Poliscritture di questa opportunità. Amo molto il vostro Paese e nonostante il mio lavoro mi veda impegnata tra Londra e New York a volte mi concedo il regalo di week-end in Italia, ricchi di cultura e buona cucina. Ringrazio anche Paolo che si è prestato per aiutarmi in questa bella occasione.
Certamente, trovo interessante il “senso del mondo” di Vidiadhar Surajprasad Naipaul che nasce attraverso “il viaggio”. I suoi racconti di viaggio sono racconti di ritorni, sentimento e ragione, la capacità di osservare con disincanto e sofferenza ciò che si è lasciato-abbandonato. E’ una fortuna che abbia ricevuto il Nobel per la letteratura, altrimenti la sua diversità lo avrebbe dimenticato. Non era simpatico. La sua “realtà” era senza filtri e diceva di essere una voce sporca a rappresentanza del mondo. La sua inquietudine e la sua capacità di farsi nemici, riuscendo a raccontare l’umanità senza indugi di storie legate ad osservazioni analitiche. Hai perfettamente ragione nel definirlo un nonno di questi scrittori. Si era fatto inglese, come egli stesso diceva,con uno sradicamento attraverso un itinerario di scoperta intellettuale, rifiuto. delusione e conferme che illuminano la natura e le contraddizioni della scelta di una cultura diversa.
Hai ragione, la Gran Bretagna ha una storia completamente diversa e l’analisi è incontestabile, direi che gli Inglesi, hanno avuto un atteggiamento di superiorità sugli altri popoli che nel tempo si è trasformato in accettazione e necessità. La definizione di “laboratorio” la trovo adeguata. Credo che la differenza consista nelle regole che qui in U.K per tradizione vanno rispettate. In Italia si apre una discussione su tutto ( e se questo è decisamente democratico) rallenta l’andare avanti, il cambiamento. Quando esiste la richiesta di lavoro il processo può affrontare episodi di razzismo legato ad una accettazione del diverso, ma non crea mai destabilizzazione sociale. In Italia, questo lo avete vissuto nel boom economico, quando gran parte del Meridione è emigrato nelle città del Nord. Milano che è la più europea delle città italiane, deve la sua crescita e trasformazione proprio a questa massa di persone. Adesso il mondo si è rimpicciolito e le esigenze sono differenti, dunque se la società non ricorre alle regole, andremo incontro ad un ‘implosione. La ministra May, tanto contestata chiede che l’Unione Europea debba tornare ai suoi principi originari, ossia la libertà di movimento debba essere intesa come la libertà di trasferirsi con un lavoro. Gli studenti abbiano una richiesta di frequenza in scuole del Regno Unito e che al termine degli studi solo i migliori possono rimanere. Certo, si apre il quesito se questo è democratico, ma cosa succederebbe all’incontrario? I grandi esodi vanno regolarizzati per evitare il caos. Troppo semplicistico? No, perché il tempo presenterà un conto. Sull’immigrazione bisogna trovare un punto di equilibrio.
Gli scrittori, non si limitano a fotografare i fenomeni di socializzazione, ogni scrittore si mette in relazione con l’ambiente fisico e sociale in cui vive. Scrive per fare riflettere e alcuni collaborano con saggi, editoriali, certamente. Il mondo letterario non è a priori, ma si costituisce per mezzo dell’interazione, il comportamento, il linguaggio, le religioni ecc. ecc. Alcuni sostengono che la socializzazione non può cancellare tutti gli aspetti fondamentali delle personalità che abbiamo dalla nascita. Non siamo prodotti né dell’eredità né dell’apprendimento, ma della complessità tra questi due temi. E la chiave è proprio la socializzazione. Chiaramente gli scrittori hanno una visione aperta delle realtà contemporanee specialmente quelli che escono dal contesto anglosassone come per es. Zadie Smith. Esiste una visione più tradizionale da parte di un mondo accademico universitario elitario. Un concetto che tende alla comprensione nel teorico-discusso per registrare chiusura nel pratico e spesso si aprono dei dibattiti sui media come in tutti i Paesi del mondo democratici.
La riflessione filosofica non è più utopica: la costruzione di una nuova società di individui singolari ma pacifici e solidali tra loro sembra non esistere più. La politica moderna della solidarietà è un’idea anarchica e senza controllo della libertà, perché non è accompagnata dall’uguaglianza. Lo scrittore può porre delle domande, sperando che nasca una nuova visione di verità. Riflettere sui fenomeni di socializzazione è anche un modo per ricordare i nostri limiti e dare nome alle aspirazioni, come quella di accettarsi ed eliminare il preconcetto dell’altro.
Non è facile assicurare uguaglianza sociale tra gli individui, in uno scenario che vede crescere le distanze e le difficoltà nello stabilire politiche legate alle regole.
Questa è una capitale globale dell’ultimo ventennio più di qualsiasi altra, è complessa e dunque certamente un “laboratorio sociale”.
Londra è caratterizzata dai Layers, una serie di strutture sovrapposte che includono il sistema culturale, politico, finanziario e amministrativo. Lo studio si basa sulla relazione tra la struttura sociale e quella fisica della città. La sua forza è quella di adattarsi alle trasformazioni continue, affermando il suo codice genetico urbano sperimentale e inclusivo. Io personalmente credo per esempio che il linguaggio debba essere il primo strumento di interazione sociale.
Quando mi capita di scendere alla stazione di Paddington, la statua dell’omonimo orsetto descritto da Michael Bond (Newbury 1926- London 2017), mi fa pensare a questa storia per bimbi: un orsetto che dal Perù arriva a Londra. Costretto ad emigrare quando sua zia Lucy entra in una casa di riposo. Arriva a questa stazione con la sua piccola valigia e un buon inglese. Si prenderà cura di lui la famiglia Brown, appartenente all’alta borghesia che lo tratterà come un figlio, dimostrando che non è impossibile integrare in società un orso che si dichiara “clandestino”. Fa pensare ad una storia di condivisione verso il diverso no?
Se osservo questa città, immagino che tra 50 anni l’Inghilterra Anglosassone potrebbe essere un ricordo. Il collasso potrebbe arrivare prima del tempo….
Oggi Londra, domani il resto dell’Europa: è un effetto boomerang. Ricordo da giovane le parole di padre Balducci a Firenze che parlava di questo reale fenomeno. Il ritorno dei conquistati. Tutto questo di fronte ad interlocutori sordi ed ironici. Nella capitale Inglese i bianchi sono ormai minoranza. Un milione di Africani e Caraibici, un milione e mezzo di Asiatici, 400 mila razze miste e potremmo proseguire….
Questo è il volto dell’attuale Londra. A Buckingham Palace ci sono già guardie reali con il turbante e la barba al posto del tradizionale cappello d’orso. La presenza di un sindaco di origini indiane. Questi sono solo dettagli che attestano la dimensione delle migrazioni e consolidano la diversità di Londra.
Nella zona di Kensington e Chelsea, tra le più facoltose, i banchieri, gli oligarchi, i professionisti sono arabi, russi e cinesi. Una rivoluzione sociale continua. Anche la religione (quella Cristiana) è in declino senza precedenti per lasciare posto all’Islamismo. Dunque gli scrittori adeguandosi alla “Babele” agiscono da osservatori e coscienze, nell’individualismo che il tipo di società offre.
Nel groviglio spaventoso che il mondo in cui viviamo, viene da riflettere per trovare la migliore soluzione per viverci dentro. Al riguardo riporto una frase di Italo Calvino tratta dalle “Città invisibili”:
Le desolazioni descritte alludono a quelle ecologiche e sociali, industriali e metropolitane tipiche della contemporaneità.
@ Paolo Carnevali
« un orsetto che dal Perù arriva a Londra. Costretto ad emigrare quando sua zia Lucy entra in una casa di riposo. Arriva a questa stazione con la sua piccola valigia e un buon inglese. Si prenderà cura di lui la famiglia Brown, appartenente all’alta borghesia che lo tratterà come un figlio, dimostrando che non è impossibile integrare in società un orso che si dichiara “clandestino”.».
Tutto sta a vedere qual è il risultato finale di questa “integrazione”, che è termine un po’ paternalistico anche quand’è improntato ad una visione tollerante e multiculturale; o di questo « ritorno dei conquistati», che padre Balducci pensava con empito universalistico e biblico, ma che altri vedono come “invasione barbarica” o “conflitto di civiltà” (Huntington) da contrastare con spietatezza.
È il rapporto con l’”altro”, su cui c’interroghiamo e che dalla scoperta del Nuovo Mondo, all’illuminismo, alla missione “civilizzatrice” delle prima delle borghesie europee dell’Ottocento e poi degli USA dominatori dopo la Seconda guerra mondiale ha prodotto guerre coloniali e anticoloniali e, più di recente, “guerre umanitarie”. Io ho trovato sempre illuminanti sul piano culturale e antropologico i libri di Todorov e di Said.
Benissimo fanno gli scrittori che nella “Babele” londinese «agiscono da osservatori e coscienze», ma temo che « la migliore soluzione per viverci dentro» (questo “caos”) non verrà solo da loro. Con tutto il rispetto non sopravvaluterei il ruolo della letteratura.
@ Anna Ridley
1. «Credo che la differenza consista nelle regole che qui in U.K per tradizione vanno rispettate. In Italia si apre una discussione su tutto ( e se questo è decisamente democratico) rallenta l’andare avanti, il cambiamento».
Forse i momenti di «discussione su tutto» dipendano da circostanze storiche più che da caratteristiche nazionali. Non vorrei toccare, in un momento così drammatico, un tasto dolente ma quello che sta succedendo ora in Gran Bretagna con la “disfatta” del governo May mi pare una prova di quanto dico.
2.
« Milano che è la più europea delle città italiane, deve la sua crescita e trasformazione proprio a questa massa di persone».
L’epoca, che da noi fu chiamata del «boom economico» , è stata molto mitizzata ed edulcorata. Le masse provenienti dalle campagne povere del Sud e del Veneto e che produssero quella crescita lo fecero con sudore, lacrime e sangue. Io ho in mente «Milano, Corea» di Alasia e Montaldi e anche il film sia pur troppo estetizzante «Rocco e i suoi fratelli» di Visconti.
3. «se la società non ricorre alle regole, andremo incontro ad un ‘implosione. La ministra May, tanto contestata chiede che l’Unione Europea debba tornare ai suoi principi originari, ossia la libertà di movimento debba essere intesa come la libertà di trasferirsi con un lavoro».
Le ipotesi della regolazione o del respingimento o dell’accoglienza dei flussi attuali di migranti intercontinentali sono tutte difettose di fronte a un problema epocale che può essere paragonato ad una “guerra fredda strisciante”. Non credo che in Gran Bretagna se ne discuta in termini fondamentalmente diversi da quelli in uso oggi in Italia. Qui su Poliscritture ne abbiamo parlato spesso e con forti contrasti ( Cfr. https://www.poliscritture.it/2016/12/28/noi-e-loro-nello-specchio-di-facebook-verso-la-fine-del-2016/). Spero che ci si possa confrontare.
Il tema proposto apre discussioni senza fine. Dunque mi sono soffermata ad osservare il problema esclusivamente come analisi di partenza ad un vivere comune, evitando il conflitto di civiltà. Ricordo di avere letto il libro di Samuel P. Huntington: interessante il suo sostenere che la principale fonte di conflitti nel mondo post-guerra fredda saranno le identità culturali e religiose. Allora credo che per per esistere dobbiamo dotarci di regole di convivenza e rispetto. L’atto e l’effetto del vivere insieme, in un medesimo luogo, definiscono il contenuto della parola “convivenza”.
I problemi epocali come quello degli esodi vanno regolamentati, altrimenti sarebbe caos, regnerebbe l’anarchia, la legge della prepotenza. Dunque ecco il ricorso alle leggi.
Si rispetta una persona accettandola per ciò che è e da dove proviene, purché si inserisca con il riconoscimento di questi doveri. Vivere civilmente significa rispettare la cultura di riferimento. Le immigrazioni di massa non regolamentate potrebbero diventare un’arma per scardinare gli Stati nazionali.
La fuga impressionante dalla povertà, violenza e mancanza di lavoro (esempio del Centro America verso gli Stati Uniti) è certamente il prezzo da pagare di politiche di sfruttamento del passato. Non ho certo la bacchetta magica e nemmeno sopravvaluto la letteratura, questa è solo voce di coscienza e critica.
Poi il mondo è di tutti, ma se tutti decidessimo di vivere in un solo posto che succederebbe? Ricordo che una mia professoressa di filosofia affermava con convinzione (sua ) che ogni cento anni il genere umano doveva ricorrere ad una guerra….
La mia reazione era di conflittualità con le sue idee, perché ho sempre sostenuto che attraverso la collaborazione, l’apertura mentale, la solidarietà ecc. il mondo avrebbe vissuto in pace ed armonia. Ma le regole dovevano cementare questa armonia. Tutto qui, anche se posso sembrare semplicistico.
Anna Ridley e Paolo Carnevali.
Devo precisare che ho citato il famoso libro di Huntigton come esempio negativo. Huntigton per me occulta la realtà complessa del periodo storico che stiamo vivendo effettivamente con molta impotenza e sconcerto.
La sua furbizia da propagandista d’alto livello sta proprio nel «sostenere che la principale fonte di conflitti nel mondo post-guerra fredda saranno le identità culturali e religiose». L’apparenza, la superficie degli eventi, sui quali i mass media c’intrattengono di continuo, è questa. E passa per realtà perché non esiste più purtroppo, se non in marginali scuole di pensiero non del tutto dimentiche della lezione di Marx, un punto di vista capace di andare più in profondità; e mostrare che la «fonte di conflitti» ha motivazioni economiche e geopolitiche mescolate intimamente alle credenze religiose.
Queste ultime non sono certo semplici “sovrastrutture” secondarie, come molti seguaci dogmatici di Marx hanno tanto spesso predicato ma, isolate dal resto, sembrano non avere radici e restare del tutto misteriose o insiegabili o immobili nel tempo e nello spazio.
Adottando il punto di vista di Huntigton è più facile credere che, di fronte ai profondi mutamenti in atto a livello mondiale (e le migrazioni intercontinentali ne sono un sintomo drammatico), possano bastare delle astratte «regole di convivenza e rispetto».
Non che le regole non aiuterebbero la cosiddetta “convivenza”, ma bisognerebbe capire che, quanto più sono astratte ( e cioè idealistiche o volte solo a mascherare interessi di parte), tanto più sono inefficaci. Come le famose «gride» manzoniane. Oppure funzionano ma con la sofferenza e la morte di chi sta in condizioni di necessità, come oggi i migranti che tentano di sfuggire da guerre e miseria. (Ed è di ieri la nuova tragedia che dimostra, a mio parere, l’ottusità politica assassina delle “regole” imposte dal ministro Salvini: https://www.corriere.it/cronache/19_gennaio_19/migranti-naufragio-libia-117-morti-loro-anche-donne-bimbi-17db2394-1be5-11e9-8b25-c65404620788.shtml).
«I problemi epocali come quello degli esodi vanno regolamentati», ma con quali regole?
Il «caos» non è detto che derivi dalla assenza di regole ma proprio da regole sbagliate o di parte o imposte con la forza e dunque inaccettabili da chi le deve subire.
Se, ad esempio, la regola dei paesi dominanti è quella di andare a rapinare e a subordinare le economie e la vita sociale, politica e culturale di paesi ritenuti meno civili o arretrati, con la scusa di aiutarli o di estirpare il «terrorismo» a forza di «guerre umanitarie», il «caos» viene aumentato più che ridimensionato.
L’«anarchia» più pericolosa è quasi sempre quella dei potenti piuttosto che dei deboli. La «legge della prepotenza» la diffondono innanzitutto loro. I ben Laden, che si rivoltano e fanno anch’essi i prepotenti, li allevano loro.
Certo, «le immigrazioni di massa non regolamentate potrebbero diventare un’arma per scardinare gli Stati nazionali», ma teniamo presente che essi sono stati già scardinati e molto di più dalla globalizzazione selvaggia e non certo regolamentata dei capitali.