di Giulio Toffoli ed Ennio Abate
Oggi le idee che circolano sul che fare in politica sono dappertutto confuse. Sia in basso che in alto. Sia tra il popolo che tra le élites. E mi riferisco a quanto è successo ieri nel governo e nel parlamento inglese e a quello che potrà succedere nelle prossime settimane alle europee. Chiariamo che in questo botta e risposta tra me e Toffoli non si confrontano un simpatizzante del PD e uno del governo. Ma due scontentezze, purtroppo. I loro punti di attrito (sui” neofascismi” o i “populismi” o il ritardo nell’uso delle «buone rovine» di Marx, ad es.) sono drammatici, ma abbiamo concordato di renderle pubbliche nella speranza di poter trovare in un dibattito più ampio qualche punto fermo su cui collaborare con più convinzione. [E.A.]
IL RITORNO DEL TONTO
di Giulio Toffoli
Il 31 dicembre di ogni anno, quasi come un rito, mi capita di far quattro passi in centro e mi fermo al Bar Storico, un nome che mi si addice sempre di più, a cercare di ricapitolare quello che mi ha donato l’anno che va finendo, pur sapendo che non è cosa possibile da sunteggiare in qualche minuto. Mi passano per la mente piccole e grandi miserie, qualche fallimento, pochi successi, per fortuna nulla di grave dal punto di vista della salute e altre facezie del genere. Questo dicembre del 2018 mi ha offerto una giornata che, quando sono arrivato in piazza, risultava riscaldata da un solicello abbastanza dolce capace di smorzare le folate del vento gelido del nord. Vista la situazione mi sono seduto a un tavolino all’aperto a guardare con occhio distratto la maestosa facciata del duomo, simbolo di un potere che ha perso parte della sua atavica forza ma rimane pur sempre solido baluardo di una tradizione difficile da scalzare.
Il cameriere che mi conosce, si avvicina e dice: “Il solito pirlo …o visto il giorno …”.
Chissà perché, ma queste domande mi mettono sempre a disagio e non so mai rispondere con quella autorevolezza che vorrei poter sfoderare. Lo vedo attendere e alla fine mi esce dalla chiostra dei denti:
“Ma no … Oggi un Berlucchi cuvée imperiale, ovviamente brut. Grazie”.
Dopo pochi minuti mi arriva un bel flûte ben colmo di un liquido ambrato che rilascia un corteo di bollicine.
Lo guardo soddisfatto e penso fra me: “Almeno non è il solito prosecco … ormai i prosecchi sono tutti uguali senza sapore”.
Son lì preso in questo alto pensare e vedo un’ombra sedersi sulla sedia vicino alla mia … alzo gli occhi e sento il solito e ben noto tono imperioso:
“Solo un bicchiere … vabbè vuol dire che ti ringrazio, me lo prendo e tu ne farai a meno …”.
Alzo gli occhi e me lo trovo davanti il Tonto, dopo più di sei mesi, avvolto nel suo classico loden verde, dimagrito in volto e pronto a sfoderare il suo solito cipiglio.
Superato un attimo di stupore sono ben deciso a non lasciarmi schiacciare da uno che ci risultava latitante da mesi ed anzi si diceva ormai fra gli amici fosse scomparso; e allora lo aggredisco: “Santo dio eccoti qui, risorto … Giù le mani dal mio Berlucchi … e poi come diavolo sei qui quando tutti gli amici ti davano per dileguato e qualcuno aveva pensato a esiti anche peggiori. – poi aggiungo – Invece che appropriarti in modo indebito del mio bicchiere motiva questa tua scelta che, detto fra noi, ci ha non poco offeso …”.
Lo vedo tenere ben stretto fra le mani il flûte, mi guarda negli occhi e sorride: “Morto … ma no! Ho semplicemente scelto di abbandonare per un po’ il mio palco. Ero stufo di assistere a una trista messinscena all’italiana, con crescenti segni di perdita delle misure. Certo ricordi che nel 1851 Marx scrisse a Engels: «mi piace molto l’autentico isolamento pubblico in cui ci troviamo ora noi due …». La sconfitta delle speranze del ‘48 li aveva chiaramente segnati e avevano scelto di mettersi al di sopra dalla mischia. Io sono stato più radicale e mi sono isolato con una scelta quasi anacoretica e a dirti il vero non so se il rientro sia stata una mossa ragionevole”.
“Ma come mi spieghi – ripeto per nulla soddisfatto da una giustificazione che mi sembra almeno debole – la tua scelta di non far sapere più nulla di te; almeno offrimi qualche motivazione solida e convincente”.
Il Tonto mi guarda e aggiunge: “Le mie sono proprio le motivazioni di Marx. Quando il disordine cresce fino a diventare sistemico e si dimostra fallace l’affermazione del Presidente, «grande è il disordine sotto il cielo, la situazione è eccellente», allora è necessario ripensare non solo alla propria collocazione ma al senso stesso del proprio essere. Ed è quello che ho cercato di fare e che mi riprometto di continuare a fare.
Quello che ho visto crescere intorno a noi è un livello di intolleranza, una logica da tifoseria che tende a rendere difficile se non frustrante cercare di dialogare con la gente, anche con quella che fino a tempi recenti era un referente abbastanza sicuro. Ho avuto l’impressione di vivere una vera e propria chiusura dell’universo del discorso, quella di cui si parlava fra noi mezzo secolo fa. Una realtà davvero tragica. Come scriveva allora un nostro maestro ci si trova a vivere in un contesto in cui «i criteri per giudicare una data situazione di fatto sono quelli offerti da quella stessa situazione di fatto. L’analisi è bloccata; il giudizio è costretto a muoversi entro un contesto di fatti che escludono un giudizio sul contesto in cui i fatti si producono».
Per dirla in modo forse un poco più chiaro, da quando nel dicembre del 2017 è stato sconfitto il disegno tecnocratico di smantellare la Costituzione e poi i risultati delle elezioni del marzo scorso hanno creato un clima politico del tutto inedito, ho fatto sempre più fatica ad affrontare la realtà in cui ero aduso a vivere, ed allora ecco la scelta dell’isolamento”.
“Non ti capisco – gli rispondo – non è che la scena politica italiana sia granché mutata in questi mesi o sbaglio …”.
Mi fissa con il suo sguardo indagatore e, dopo aver ingurgitato un bel sorso del Berlucchi, aggiunge: “Buono. E’ questo che devi d’ora in poi offrirmi, non quei vinelli che bevevamo prima … Vedi, la mia memoria mi porta indietro fino alla costituzione dei primi governi di centro-sinistra oltre mezzo secolo fa e onestamente nessuno mi leva la sensazione che in questi mesi si sia sviluppato un tasso di livore, condito con acredine e astio, come mai prima. Come giudicare altrimenti certi epiteti che, da una platea che si definisce in qualche modo di sinistra, vengono costantemente usati conto coloro che il voto popolare ha messo alla direzione della cosa pubblica? Quello con cui ci confrontiamo è un certo modello di giudizio che viene esplicitato come un verdetto incontrovertibile e nei confronti del quale non c’è possibilità di critica di sorta. La scelta è fra identità e rifiuto radicale. Come giudicare altrimenti l’affermazione che molti dei membri del nuovo parlamento, per il solo fatto che sono giovani, sono necessariamente inesperti, immaturi, inadeguati e insomma non all’altezza del ruolo che il voto popolare ha loro assegnato.
Sono emerse nel contesto del discorso pubblico categorie di giudizio che fino a qualche anno fa sarebbero state impensabili, ancor più se usate da sinistra. Cosa vuol dire «analfabetismo funzionale» se non l’affermazione di una presunta superiorità nei confronti dell’avversario, condita con un insopportabile tasso di arroganza. Come interpretare quelle voci che da una presunta sinistra sono giunte a contestare il diritto universale al voto in nome di una qualche forma di superbia e di boria secondo la quale alcuni sono più adeguati a gestire la cosa pubblica di altri. Di qui come inevitabile conseguenza la rinascita del mito tecnocratico, del tecnico come esperto superiore a ogni concezione del mondo e solo capace di rispondere alle necessità della gestione del sociale in nome di una sua presunta competenza oggettiva. Non di meno la ripresa del mito della meritocrazia come strumento per regolare la dinamica sociale, una modalità neppure granché nascosta per riaffermare nella sostanza il primato di una fascia borghese che si sente evidentemente attaccata da una realtà socio-economica che tende a livellare tutto verso il basso.
Infine, come strumento ideologico che tutto risolve l’accusa, non dissimile dall’anatema che veniva lanciato nel medioevo contro i dissenzienti, di fascismo e/o di neofascismo”.
“Beh … – faccio notare – non vorrai negarmi che vi sono gruppi di facinorosi che si richiamano a ideologie reazionarie, brutta gente che non avremmo più voluto vedere …”.
“Ok … – aggiunge il Tonto stoppandomi – siamo chiari. Il problema si pone a due livelli. Il primo è concretamente umano. Nostalgici e reazionari ci sono sempre stati e ci saranno sempre. Codini di ogni tipo e colore, energumeni che usano la violenza al posto del cervello, sono presenti nella società come forme di dissidenza quasi naturali. Che farne. I nostri antifascisti di professione cosa vorrebbero fare, forse togliergli il diritto di esprimere le loro idee, per quanto possano apparire aberranti, o avviarli nei capi di rieducazione o proprio toglierli di mezzo? Che lo si dica una buona volta con franchezza …
Però c’è un secondo livello ed è su questo che voglio fermare la tua attenzione. Tu come me hai alle spalle una lunga esperienza politica ed allora ti chiedo quante volte il fantasma del fascismo è stato utilizzato per demonizzare i nostri avversari politici? Non ti parlo di Tambroni, ma ricordi Fanfani e il fanfascismo, ricordi Rumor o Andreotti e la schiera dei democristiani tutti accomunati nell’accusa di fascismo o almeno criptofascismo. E poi Craxi, con il facile gioco fra craxismo e fascismo, poi Berlusconi e oggi ultimo della schiera il Salvini. Evidentemente nessuno di questi signori, per quanto potessero essere conservatori e se si vuole perfino reazionari, aveva nulla a che fare con il fascismo, ma l’accusa serviva per imbonire le plebi e inventare un facile avversario per tenere sveglie i militanti di sinistra.
Pensa poi al paradosso che abbiamo vissuto negli ultimi trent’anni: i signori Ciampi, Dini, Prodi, Letta, ci sono stati tutti presentati come esponenti di un centro-sinistra sinistra moderato e responsabile. Se vai anche solo un poco a scavare scopri che hanno fatto il loro «apprendistato» alla Morgan Stanley o alla Goldman Sachs o in istituzioni «filantropiche» similari. Mi astengo dall’esprime un giudizio su Monti, il «tecnico» per antonomasia … E non ti parlo degli ultimi due Renzi e del conte Gentiloni …
No, carissimo amico, credo davvero che sia necessario un profondo momento di autocritica. La strada che abbiamo percorso dagli anni sessanta ad oggi è definitivamente interrotta. Solo con una revisione radicale dei nostri modelli mentali sarà possibile riuscire ad uscire dall’incredibile situazione di confusione in cui ci troviamo”.
“Questo vuol dire forse che tu ti schieri senza se e senza ma con il nuovo governo M5S – Lega …” aggiungo cercando di capire meglio l’evoluzione del mio amico. “No. Troppo tardi. Non mi schiero con nessuno, sono un puro osservatore, ben cosciente delle ambiguità della situazione che stiamo vivendo. Solo che nei miei giorni di romitaggio mi sono spesso fatto una domanda, una interrogazione che pone un se alla storia e come tale non è priva di ambiguità, ma che in qualche misura non smette di ronzarmi nella testa. Mi permetto di parlartene.
A mio vedere nella storia della Repubblica dal ‘45 ad oggi ci sono stati due momenti di vera crisi politica foriera di mutamenti radicali, l’uno negli anni ’70 l’altro oggi. Le loro differenze sono tanto palesi da non richiedere di palarne, ma nel contempo vi è una assonanza nel similare distacco fra popolo e ceto politico. In queste due fasi sono emersi movimenti di base, popolari o se si vuole possiamo usare pure la formuletta antisistemici o populisti, che hanno inciso con forza sul corpo della società mettendo in discussione l’assetto politico e ideologico nato alla fine del XIX secolo con la dialettica fra una destra liberal-cattolica e una sinistra diversamente-socialista. Allora mi sono chiesto cosa sarebbe successo se Democrazia Proletaria, l’esito politico meno immaturo del ’68, nel ’76, quando si presentò alle elezioni politiche, invece che un misero 1,5%, avesse ottenuto un risultato a due cifre. Non dico un 25,5 come il M5S nel 2013, ma qualche cosa di similare: come avrebbero reagito l’establishment, i giornali borghesi, i partiti tradizionali… Mi permetti di credere che sugli eletti sarebbero piovute le accuse di diciannovismo, infantilismo, incompetenza, inesperienza. Contumelie del tutto simili a quelle che vengono ora riversate, incredibile dictu, sul governo in carica dalla stampa borghese, da quel che resta dei partiti di regime, dagli organismi internazionali e chi più ne ha più ne metta.
Ecco, sentir dire che un Di Maio, sia chiaro lo prendo come un esempio fra tanti, solo perché è giovane e non ha lavorato è inadeguato a rivestire il ruolo che il popolo gli ha conferito mi indigna e mi offende. Esattamente come mi offendeva quando eravamo giovani sentir dire che non potevano esprimere una nostra opinione perché quelli più maturi, quelli più esperti … come se vi fosse una maggior età per ragionare.
L’ipocrisia borghese mi disgusta e non ha limiti, non li aveva nel ’68 e non li ha oggi”. “Allora, accettando per buone le tue affermazioni – gli dico cercando di vedere se una volta tanto ha una proposta che esca dal solito cianciare – cosa dovremmo fare. Partendo da un banale dato di fatto che noi ormai non abbiamo grandi possibilità di azione e accettando i presupposti che hai ora espresso ti chiedo: messi alle spalle tutti i nostri fallimenti che fare?”.
“Già la tua formulazione mi trova in forte disaccordo. «Messi alle spalle…». Non possiamo mettere nulla alle spalle. Non ti ripeto l’adagio di Benjamin, ma senza avere negli occhi una chiara memoria delle rovine che sono alle nostre spalle non possiamo che ricadere di errore in errore in tristi riti, schiacciati della potente logica del capitale.
Vedi, ci siamo trovati in questi due anni in una strana congiuntura. Sono caduti l’uno dopo l’altro il centenario della Rivoluzione d’Ottobre e il cinquantenario del ’68. Sia chiaro, io ti parlo dal mio osservatorio che è molto limitato, ma ho avuto l’impressione che non vi sia stata una seria rimeditazione sulla portata storica questi due avvenimenti e sui loro esiti. Nulla di veramente importante è uscito … qualche rievocazione di rito e poco più. D’un lato è divenuto chiaro che ambo gli eventi sono tanto lontani da noi da essere demandati ormai quasi esclusivamente all’interesse degli storici e dall’altro si è avviata la loro definitiva sterilizzazione all’interno di una cultura scientifica sempre più asettica e disincantata.
Anche a livello del sapere il capitale sembra aver vinto …”. Avrà pur vinto una partita – aggiungo cercando di dare alle mie parole un tono reciso – ma la partita è ancora aperta … non mi dirai che hai deciso di gettare la spugna. Che da ora in poi dovremo incontrarci e parlare di farfalle …”.
Vedo il Tonto che si mette a ridere di gusto: “Bella l’immagine: parlare di farfalle … Visto che anche loro sembrano essere in via di estinzione, come la sinistra, il paragone non mi sembra così azzardato. Cercherò di chiarirti cosa penso della sinistra oggi. Basta andare a una manifestazione e si ha chiaro il polso della situazione. La sinistra non esiste più. Quelli che manifestano sono per la più parte addetti ai lavori, uomini di partito, sindacalisti di regime, portaborse di professione, che spesso trovano nello stato la loro greppia, ed infine un po’ di reduci irriducibili, veri nostalgici di una religione esausta. Non capisco come nessuno abbia mai posto l’attenzione sul fatto che il sindacato più numeroso è un sindacato che sostanzialmente non dovrebbe neppure esistere, quello dei pensionati, e proprio i pensionati sono la falange più nutrita di questo esercito in rotta della sinistra.
Certo, mi dirai, ma c’è anche altro: qualche giovane. Sì, ma quelli sono per la più parte nei cespugli all’estrema, i militanti duri e puri del No generalizzato, rumorosi e instancabili ma incapaci di raccogliere una significativa rappresentanza popolare. Professionisti nel dividersi in miriadi di gruppi e gruppetti per poi lanciarsi contumelie, nell’infinito esercizio dell’anatema di sinistra estrema.
L’immagine che mi si è confermata in questi anni della sinistra è davvero di un infinito disordine che non è solo nelle cose, quali la perdita di contatto con gli operai e con gran parte del ceto medio, ma soprattutto nelle idee. Forse sbaglierò, ma sono convinto che il maggior successo del thatcherismo sia stato l’essere riuscito a imporre alla sinistra, alla sinistra profonda, l’idea che «there is no alternative».
Di qui discende l’impossibilità di discutere di alcunché al di là dei confini stabiliti dalla logica della realtà di fatto. Non è possibile parlare delle migrazioni, piuttosto che delle ONG o delle Onlus o delle cooperative, se si esce da un ben preciso tracciato che è quello indicato dal pensiero dominante. Chi la pensa diversamente viene subito messo alla gogna.
Nello stesso tempo, accanto alla deificazione del mercato, non meno forte è il riconoscimento della indiscutibile verità di ogni affermazione che venga fatta con l’imprimatur della scienza e della tecnologia. Avere dei dubbi sulla loro efficacia e sui loro esiti mette in cattiva luce chi li esprime, subito tacciato di oscurantismo e di irrazionalismo ascientifico da parte di una platea vociante che ha il suo perno nei social ma che poi raggiunge senza difficoltà i media tradizionali e trova subito paladini fra politicanti in cerca di facili consensi.
E che dire dell’Europa? Le istituzioni europee sono diventate un dogma. Basta che venga usata la formula «Ce lo chiede l’Europa» perché un ceto politico di venduti, un universo di giornalisti da strapazzo e poi di conseguenza una bella fetta dell’opinione pubblica si pieghi come dovesse deferenza al Bue d’oro di mosaica memoria”.
“Ma Mosè, almeno così è scritto, ruppe le Tavole …” aggiungo. “Sì ma lui, ove sia mai esistito, ma anche se è un mito vale lo stesso, aveva le palle … credeva nella sua missione, aveva un disegno politico e per questo era disposto anche a morire …Li vedi i signori di cui abbiamo parlato prima avere un progetto politico autonomo, una qualche idealità?
Ma attenzione; come abbiamo detto il limite non è solo nella miseria degli uomini, sta nella mancanza di uno straccio di pensiero all’altezza delle ultime performance del capitale. Messo in soffitta Marx, abbandonati perfino i pur moderati Proudhon e soci, rigettato pure Keynes, cosa è rimasto?
Te lo dico in forma sommaria, poi se vuoi ci ragioneremo in modo più dettagliato. Nulla, se non una serie di modelli di pensiero del tutto astratti e buoni per tutte le stagioni.
Partiamo dal più evidente. In sintonia con la globalizzazione del capitale è riemerso nella sinistra, se cosi può dire, una specie di rivalutazione del cosmopolitismo che si esprime con formule del tipo “siamo accoglienti” et similia. Sia chiaro, nulla a che fare con l’antico internazionalismo operaio di cui si è persa memoria. Ciò che è rimato è un generico riconoscersi tutti parte dell’umanità. Solo che nessuno sembra essersi accorto che il cosmopolitismo ha alle spalle una lunga e onorevole carriera di almeno 2300 anni e tutti coloro che se ne sono fatti portavoce non hanno mai per un singolo elemento contribuito a mutare la condizione di sfruttamento e subordinazione al potere a cui erano sottoposte le più larghe masse. Dallo stoicismo fino a oggi il cosmopolitismo è sempre stato una specie di pannicello caldo con cui alleggerirsi la coscienza, rifuggendo dal prendere atto della violenza della storia e dall’indagarne le vere cause. In sintonia con il cosmopolitismo si è affermata l’idea della obsolescenza del concetto di sovranità e di nazione. E’ tema certamente degno della massima attenzione, ma qui mi basta ricordare che quanto più il potere si allontana, anche fisicamente, dai cittadini, tanto più genera oligarchie che si strutturano in cittadelle inattaccabili. Un minimo di conoscenza storia dovrebbe facilmente insegnarci queste facili e palesi verità. Ma come è ben noto la storia non solo non insegna nulla, ma spesso viene vissuta come uno sgradevole fardello di cui liberarsi …
Un ulteriore elemento di questa ideologia che la sinistra sembra aver fatta propria è il solidarismo nella forma più astratta, quella del solidarismo compassionevole delle charity anglosassoni che negli ultimi decenni sono cresciute di numero fino a diventare legioni e un potere economico e politico impressionante. Sembra davvero triste dover ripetere ancora una volta che per quanta carità il capitale sappia offrire ai suoi «miserabili», che sopravvivono ai margini delle metropoli, essi tali rimangono, legioni infinite e sempre rinnovantesi, senza nessuna capacità di trasformare la propria condizione di umiliati in una azione che li porti a uscire da quel girone infernale cui la logica del capitale li destina.
Facendosi forte di questa moda una giovane neodeputata al congresso USA, di quelle à la page, si è presentata ai suoi elettori come esponente di un «socialismo compassionevole». E’ questo il socialismo in cui possiamo e vogliamo credere?
Sia chiaro; in questo contesto, tanto sfumato da diventare evanescente, assumono una loro legittimazione le ONG, che trovano una giustificazione semplicemente nell’essere «non governative», quasi questo fosse un particolare merito. In questo modo giustificano ogni loro attività, visto che si fanno paladine della difesa di ogni possibile sorta di diritti «umani e civili». Anche questa pagina andrebbe indagata a fondo e questo non è il momento. Quel che ti posso dire qui è semplicemente ciò che a ogni mente non obnubilata dall’ideologia dovrebbe risultare evidente, ovvero che in questo modo viene enfatizzata al massimo la dimensione dell’individuo, del singolo o forse meglio dell’Unico a detrimento di ogni diritto sociale collettivo. La forza diluente dei cosiddetti diritti civili si sta dimostrando tale da infrangere ogni rapporto sociale con una potenza del tutto inedita. La società del melting pot, diciamolo una volta per tutte, è sostanzialmente la società dell’individuo solo, isolato, abbandonato a se stesso. Quello che rimane dopo tanto sfacelo come trama sottostante è null’altro che la forza del denaro, della violenza, sia essa legale che illegale, del potere di pochi”.
“Quello che mi presenti – aggiungo con un qualche senso di tristezza – è un quadro ben fosco …”. “D’altronde – il Tonto ribadisce con enfasi – se ciò che conta è il diritto individuale, di ogni singolo individuo a realizzare pienamente se stesso senza vincoli o limiti, che si esprime nella formula che va di moda a sinistra dell’«individuo desiderante» mi domando: come negare il naturale e ben palpabile desiderio di arricchirsi, senza se, senza ma, senza limite e subito, a differenza di quello che dicono a sproposito tanti teorici pseudo-sinistri che vaneggiano di un oscuro desiderio di comunismo?”.
Vedo che il mio amico ha finito di sorseggiare il suo flûte e mi sembra scalpitante. Allora gli dico: “Ok, ma giunti a questo punto mi lasci con un pugno di mosche, se si esclude il conto da pagare …”. “E no, caro mio – mi dice mentre si alza dalla sedia – ti lascio con un bel compito.
In fondo quest’anno è stato anche il bicentenario della nascita di Marx, benché quasi nessuno se ne sia accorto … Perché non ripartire da lui?
Ecco, torniamo a parlare di critica dell’economia politica. Non facciamoci sviare dalle stupide polemiche di sindaci che cercano notorietà, rifiutiamo di seguire le mode di «eroi» fasulli di cui la sinistra sembra aver costantemente bisogno per cercare di dare una qualche parvenza di vitalità al suo corpo esangue. Abbandoniamo le polemiche inutili che vengono strumentalmente messe in campo contro questo governo quando, pur essendo per infiniti aspetti fragile e manchevole, cerca di realizzare misure come l’aumento delle pensioni minime o sussidi a favore di chi non trova lavoro che avrebbero dovuto essere da sempre i nostri cavalli di battaglia.
Basta con questa canea. Torniamo a studiare e a parlare dei rapporti di lavoro!”.
IL DISSENSO DI SAMIZDAT
di Ennio Abate
Caro Giulio,
te lo dico senza giri di parole: dissento. Malgrado la volontà dichiarata di stare al di sopra o fuori della mischia o della «logica di tifoseria» e di non volerti schierare con nessuno[1] o del «romitaggio», il tuo scritto a me appare una difesa mascherata dell’attuale governo. Vedo in esso una critica unilaterale soprattutto ai modi arroganti e a certe accuse propagandistiche e in gran parte pretestuose, a cui ricorrono i suoi avversari ormai caduti di sella e per ora perdenti. Non uno sforzo di analisi politica rigorosa.
Riesamino i punti trattati dalla voce narrante e dal Tonto. Gli avversari dell’attuale governo vengono tempestati di accuse:
1. di un uso strumentale del «fantasma del fascismo»[2] utile soltanto a «imbonire le plebi e inventare un facile avversario per tenere svegli i militanti di sinistra». (E qui ti premuri di sottolineare: « Evidentemente nessuno di questi signori, per quanto potessero essere conservatori e se si vuole perfino reazionari, aveva nulla a che fare con il fascismo», escludendo di fatto, perché non ne parli, ogni valutazione sui rischi reali (se non nell’immediato, in futuro) di un possibile “riuso” di quella tradizione di simboli politici, i quali in Italia furono prodotti e in Italia più che altrove hanno mantenuto una lunga, e sia pur sotterranea ma non secondaria, continuità;[3]
2. di essere legati ai banchieri d’Oltreoceano;[4]
3. di prendersela con « un Di Maio […]
solo perché è giovane e non ha lavorato»;
4. di sostenersi su un sindacato « che
sostanzialmente non dovrebbe neppure esistere, quello dei pensionati[5], o su dei “parassiti”[6] o dei « reduci irriducibili, veri nostalgici di una religione
esausta»;
5.
di censurare ogni discorso veritiero sulla questione dei migranti o
dell’Europa[7];
6. di professare un cosmopolitismo da secoli dannoso[8] e che avrebbe abbandonato il positivo ( si presume…) « concetto
di sovranità e di nazione»;
7. di essere capaci solo del «solidarismo compassionevole delle charity
anglosassone» o di un «socialismo
compassionevole»;
8. di essere i
paladini dell’individualismo.[9]
Ora, al di là della loro precisione, queste accuse a me paiono poco o nulla soppesate e non argomentate.
Posso capire che il testo vuol essere letterario, ma il linguaggio spesso fin troppo sprezzante ed
“espressionistico” smentisce – credo – la
fecondità del tuo «romitaggio» o
la sincerità del tuo voler restare
esterno e più saggio della “tifoseria” che sta nella mischia.
La cosa più sconcertante è stata l’ accostamento – infondato sul piano storico e dei programmi perseguiti – tra movimenti “antisistemici” degli anni ’68-‘69 e Settanta, che al governo mai andarono (e non per caso!), e questi d’oggi, che al governo ci stanno e per me non fanno affatto cose buone (come quelli di prima…). E, se proprio vogliamo parlare di movimenti, dovremmo riferirci – e con molti distinguo che ancor più li renderebbero distanti da quelli passati – al solo M5S , visto che la Lega è stata quasi da subito partito. Altrettanto fantapolitica mi pare l’ipotesi di una DP quasi governativa da accostare al (perseguitato?) M5S.[10]
Devo dirti – ancora fraternamente per quel che posso ma sempre più marcando le distanze politiche tra noi ( altra cosa è l’amicizia e la stima) – che, se la situazione è ambigua, tu un po’ resti nell’ambiguità e un altro po’, più probabilmente, parteggi almeno emotivamente per questo governo, magari perché i loro avversari ti sembrano più “stronzi” di questi homines novi. Siamo alla classica scelta del “meno peggio”. Non più nell’ambito della fu Sinistra, ma in quello dei vari tipi di “populismo” (Cfr. il post che ho pubblicato stamattina (qui).
Il tuo appello a una revisione radicale perché la strada percorsa finora è interrotta[11] o il tuo « dobbiamo ripartire da Marx» non mi convince. Da quanti anni lo dici/lo dicevamo? (Per curiosità vado a controllare e mi accorgo che è dal 2009! (Vedi qui e qui). Perché questa ripartenza in tutti questi anni non s’è vista? Perché ti sei opposto e frontalmente al mio tentativo di ripartire dal Marx di Fortini? ( Cfr. qui)? Perché non hai voluto intervenire o ti sei tenuto sul vago sulla questione dei migranti, che per me è un test fondamentale per discriminare politicamente amici e nemici (Cfr. qui) e per valutare quanto Marx e quale Marx ancora ci rimane in testa? O continui ad attaccare così frontalmente e sprezzantemente i «tanti teorici pseudo-sinistri che vaneggiano di un oscuro desiderio di comunismo»? E perché nel frattempo persisti solo a prendertela con “i sinistri” o con i « sindaci che cercano notorietà» e sembri davvero credere che «questo governo […], pur essendo per infiniti aspetti fragile e manchevole, cerca di realizzare misure come l’aumento delle pensioni minime o sussidi a favore di chi non trova lavoro che avrebbero dovuto essere da sempre i nostri cavalli di battaglia? Ma, secondo te , un Marx, venendo fuori dalla soffitta, parlerebbe così? Insisterebbe a parlare delle Ong da indagare e non dei migranti da salvare o lasciare crepare?
Per me resta fondamentale l’obiezione che già ti feci al momento dell’ascesa di Trump (qui). Se si deve stare in «eremitaggio», facciamolo bene: teniamoci distanziati da entrambe le fazioni in lotta, da entrambe le tifoserie. Diffido istintivamente di fronte a richiami a Marx che potrebbero coprire pulsioni di risentimento e rancori verso i sinistri e di (velato o dichiarato) credito al governo. (Nel suo insieme, poi, perché, sempre a proposito di unilateralità, tu manco consideri i tentativi di distinguere Salvini e Di Maio, mentre sei pronto a indicare le contraddizioni interne tra “la sinistra dei pensionati” e i suoi “cespugli”).
Capisco che un «eremitaggio» coerente possa risultare pesante, impolitico, da pensionati. E che tutti risentiamo dell’impoverimento e delle oscillazioni del “ceto medio”, al quale in qualche misura ancora sociologicamente apparteniamo. Ma io non voglio farmi stritolare tra le due posizioni oggi egemoni, che recitano uno scontro falso o accodarmi ad una delle due nella logica del “meno peggio”.
Una terza posizione – marxista o abbastanza marxista o che non cancelli la lezione di Marx e non la deturpi con le varie “bave marxisteggianti” – è comunque assente o minoritaria o catacombale o certosinamente in costruzione (Vedi il libro di Musto: qui ). Ma ripeto: preferisco lavorare coerentemente e nei limiti delle mie forze per questo obiettivo. Non mi piace nel frattempo finire per usare il linguaggio “buonista” o “cattivista”. Un abbraccio un po’ sconsolato
[1] «Non mi schiero con nessuno, sono un puro osservatore, ben cosciente delle ambiguità della situazione che stiamo vivendo»
[2] «quante volte il fantasma del fascismo è stato utilizzato per demonizzare i nostri avversari politici? Non ti parlo di Tambroni, ma ricordi Fanfani e il fanfascismo, ricordi Rumor o Andreotti e la schiera dei democristiani tutti accomunati nell’accusa di fascismo o almeno criptofascismo. E poi Craxi, con il facile gioco fra craxismo e fascismo, poi Berlusconi e oggi ultimo della schiera il Salvini»
[3] E ti rimanderei a Claudio Pavone, ma anche all’agile libretto di Claudio Vercelli, «Neofascismi» che ho da poco letto.
[4] «i signori Ciampi, Dini, Prodi, Letta, ci sono stati tutti presentati come esponenti di un centro-sinistra sinistra moderato e responsabile. Se vai anche solo un poco a scavare scopri che hanno fatto il loro «apprendistato» alla Morgan Stanley o alla Goldman Sachs o in istituzioni «filantropiche» similari. Mi astengo dall’esprime un giudizio su Monti, il «tecnico» per antonomasia … E non ti parlo degli ultimi due Renzi e del conte Gentiloni»
[5] «i pensionati sono la falange più nutrita di questo esercito in rotta della sinistra»
[6] « addetti ai lavori, uomini di partito, sindacalisti di regime, portaborse di professione, che spesso trovano nello stato la loro greppia»
[7] «Non è possibile parlare delle migrazioni, piuttosto che delle ONG o delle Onlus o delle cooperative, se si esce da un ben preciso tracciato che è quello indicato dal pensiero dominante. Chi la pensa diversamente viene subito messo alla gogna».
[8] [che] «ha alle spalle una lunga e onorevole carriera di almeno 2300 anni e tutti coloro che se ne sono fatti portavoce non hanno mai per un singolo elemento contribuito a mutare la condizione di sfruttamento e subordinazione al potere a cui erano sottoposte le più larghe masse»
[9] « viene enfatizzata al massimo la dimensione dell’individuo, del singolo o forse meglio dell’Unico a detrimento di ogni diritto sociale collettivo. La forza diluente dei cosiddetti diritti civili si sta dimostrando tale da infrangere ogni rapporto sociale con una potenza del tutto inedita. La società del melting pot, diciamolo una volta per tutte, è sostanzialmente la società dell’individuo solo, isolato, abbandonato a se stesso».
[10] «Allora mi sono chiesto cosa sarebbe successo se Democrazia Proletaria, l’esito politico meno immaturo del ’68, nel ’76, quando si presentò alle elezioni politiche, invece che un misero 1,5%, avesse ottenuto un risultato a due cifre. Non dico un 25,5 come il M5S nel 2013, ma qualche cosa di similare: come avrebbero reagito l’establishment, i giornali borghesi, i partiti tradizionali… Mi permetti di credere che sugli eletti sarebbero piovute le accuse di diciannovismo, infantilismo, incompetenza, inesperienza. Contumelie del tutto simili a quelle che vengono ora riversate, incredibile dictu, sul governo in carica dalla stampa borghese, da quel che resta dei partiti di regime, dagli organismi internazionali e chi più ne ha più ne metta».
[11] « La strada che abbiamo percorso dagli anni sessanta ad oggi è definitivamente interrotta. Solo con una revisione radicale dei nostri modelli mentali sarà possibile riuscire ad uscire dall’incredibile situazione di confusione in cui ci troviamo”».
Io penso invece che sia ancora possibile, volta per volta, fare una scelta di sinistra, la “giusta scelta”.
Molta, troppa, carne sul fuoco. Fare un commento puntuale richiederebbe almeno un giorno di lavoro. All’ingrosso, le ragioni di Toffoli mi sembrano più convincenti di quelle di Abate, ma entrambi perdono ogni capacità di convinzione quando richiamano il fantasma del ritorno a Marx. Dal 1883 ad oggi ci sono stati diversi ritorni a Marx, e tutti con esito catastrofico. Per riuscire a pensare a qualcosa di più attuale e capace di rispondere alla domanda eterna: “che fare?”, è necessario un salto di paradigma. Marx, il vecchio liberalismo, il vecchio socialismo, il fascismo ecc. sono tutti, pur nella loro diversità, all’interno del paradigma statalista, all’interno dei diecimila anni di storia criminale di cui hanno parlato Elsa Morante e tanti altri, all’interno della storia della discendenza di Caino che uccide di nuovo Abele, ogni volta che Abele si ripresenta nella scena storica.
È necessario abbandonare l’aforismo politico «non si fa la frittata senza rompere le uova», comune a Bismarck, a Lenin, a Mussolini. Perché poi, in pratica, le uova non sono mai uova di gallina ma sempre teste e corpi umani.
I valori fondanti di un nuovo paradigma possono e devono essere il principio di non aggressione, il valore della libertà individuale e delle libere associazioni fra individui. Quindi meno Stato, molto molto meno Stato. E meno mafia e criminalità statale e statalista.
Il difetto principale del governo M5S-Lega non sta in questo o quel comportamento o provvedimento discutibile, ma nella solita pretesa di sostituire le decisioni prese da chi ha in mano il potere a quelle che potrebbero prendere in modo autonomo chi il potere non l’ha, la pretesa di imporre le proprie decisioni a tutta la platea del “popolo” italiano.
Fin che si continuerà così, Di Maio, Salvini, Renzi, Zingaretti, Maurizio Martina ecc. ecc. saranno sempre troppo simili e davvero l’unica scelta non potrebbe essere che “il meno peggio”, difficile davvero da individuare.
Il mio è un discorso astratto, utopistico? No, se si prende come principio regolatore di tutti i diversi casi concreti. Ad esempio la pensione, problema tanto dibattuto e oggetto di molteplici provvedimenti legislativi nel corso degli ultimi trent’anni. Ma la pensione non è forse salario differito? Cioè salario che lo Stato preleva di forza dalla busta paga e gestisce come vuole, restituendone una parte inferiore al dovuto ad alcune categorie e una parte superiore al dovuto ad altre categorie, con criteri clientelari e corruttivi (legali e illegali)? In sostanza il sistema pensionistico italiano è una colossale truffa ai danni di chi paga più contributi. Truffa non giustificata dai suoi aspetti di mera assistenza nei confronti di chi contributi non ne ha pagati, perché l’assistenza dovrebbe essere – se mai – a carico della fiscalità generale e non dei fondi pensionistici. Fornero o non Fornero, anche con Di Maio e Salvini il sistema truffa rimane. Perché invece non restituire il salario differito in busta paga e permettere ai lavoratori di farsi da soli la propria pensione, gestendo in forma associata e autonoma i fondi pensione? Liberi di fissare da soli le proprie regole e liberi di andare in pensione a 50 o a 100 anni a secondo della rendita che desiderano avere? Perché dev’essere lo Stato (cioè uomini in carne e ossa che hanno il potere in mano) a gestire tutto? E perché tollerare che i costi clientelari della gestione si mangino da soli gran parte di quel salario differito che dovrebbe tornare in tasca ai lavoratori?
Ecco, se il principio di libertà lo applichiamo ai tanti casi concreti si vedrebbe come il paradigma potrebbe cambiare.
Questo è liberismo sfrenato? No, è libertà. Libertà, anche, di vivere e organizzarsi come comunisti, se si vuole essere comunisti. Comunista è chi vive da comunista, non chi predica il comunismo senza vivere da comunista ma pretendendo di imporre agli altri scelte pseudo-comuniste e togliendo loro la libertà di agire di testa propria.
Credo che le nostre posizioni – di noi tre intendo e di qualche altro commentatore – siano ormai prevedibili e scontate. Tuttavia, per quel che mi riguarda, io non ho mai agitato « il fantasma del ritorno a Marx». Semmai considero quel riferimento (accanto a quello di Fortini e di altri) irrinunciabile. Un classico, come si dice. Nel mio percorso intellettuale mi ha fatto capire dimensioni del mondo che prima ignoravo o trascuravo. Ma, indipendentemente dall’avere o no come riferimento Marx ancora oggi, i vari salti di paradigma proposti e che ho tentato di seguire e capire leggendo Preve, La Grassa, Negri, Finelli, P.P. Poggio e altri non hanno prodotto nessun “che fare” convincente (sempre ai miei occhi).
Anche la tua posizione, che liquida tutte le Grandi Narrazioni otto-novecentesche a parte l’anarchismo antistatalista, non mi pare più “buona rovina” delle altri che svaluti.
In me suscita simpatia e scetticismo. Simpatia, perché io pure desidero (e suppongo assieme a milioni di persone) rapporti non aggressivi, libertà individuale e libero associazionismo; e abolirei domani stesso lo Stato, nido di mafie, di criminalità, di burocratismi ottusi. Scetticismo, perché anche il sogno anarchico ha prodotto buoni romanzi, belle poesie e movimenti scomposti e alla fine repressi.
Con tutta la stima che ho verso la tua intelligenza politica, questi tuoi ragionamenti per dimostrare (in astratto, a un ipotetico pubblico che non ci ascolta affatto) quanto sia truffaldino l’attuale sistema pensionistico e quanto conveniente sarebbe « restituire il salario differito in busta paga e permettere ai lavoratori di farsi da soli la propria pensione, gestendo in forma associata e autonoma i fondi pensione» si dimostrano deboli. Sono un prolungamento del sogno da svegli. E non fanno i conti con l’oste, cioè lo Sato/gli Stati. Chiedersi: « Perché dev’essere lo Stato (cioè uomini in carne e ossa che hanno il potere in mano) a gestire tutto?» è domanda che aiuta a chiarire cosa impedisce alle pratiche reali della vita sociale un libero svolgimento, ma non ha permesso finora di togliere di mezzo l’ostacolo.
È vero, la mia domanda e la mia risposta non hanno «permesso finora di togliere di mezzo l’ostacolo». Allora il bivio del che fare è questo:
1) O l’ostacolo non è possibile toglierlo, perché antropologicamente e ontologicamente gli uomini hanno bisogno dei capibranco che dettano le regole, e quindi l’unica scelta di comportamento possibile è il meno peggio, da ciascuno valutato a suo modo.
2) Oppure è possibile rimuovere l’ostacolo, o almeno rimuoverlo a un grado molto avanzato rispetto alla situazione storica passata e attuale, e quindi l’unica scelta possibile è formulare un programma / o più programmi, basati sul principio di non aggressione e di libertà, con drastica riduzione o eliminazione dello Stato, dei suoi apparati, dei suoi poteri.
– Ma, al contrario, continuo a leggere (salvo che nella stampa di piccolissimi gruppi libertari) nei programmi del centro-destra, del centro, della sinistra e della sinistra estrema la richiesta di più Stato. Quindi, in pratica, l’ostacolo non lo si vuole togliere ma rafforzare.
– Da più parti politiche sentiamo dire: «più investimenti pubblici, meno tasse», come se i due obiettivi non fossero in contrasto e contrapposti.
– Da più parti sono sul tappeto proposte di aumentare gli organici di questo o quel settore dell’apparato statale (magistrati, polizia, vigili del fuoco, cancellieri giudiziari, impiegati di vario livello per gli uffici di avviamento al lavoro, insegnanti ecc.), fatto il calcolo, si arriva a quasi un milione in più dei dipendenti che già ci sono. Che libertà può esserci, che capacità economica può esserci, in una nazione / Stato dove oltre il 50% dei lavoratori dipende dallo Stato e dai suoi apparati politici, burocratici e militari. Dove, quindi, i «consumatori di tasse» che non producono ricchezza reale vivono sulle spalle dei «pagatori di tasse» che producono ricchezza reale?
– Questo è uno Stato / nazione dove il clientelismo è regola normale, dove il “furbismo” e la corruzione sostituiscono ogni regola democratica, dove migliorare, almeno finché si riesce a sopravvivere, non conviene alla maggioranza che vive adagiata nelle nicchie strette e larghe delle clientele da cui teme di smuoversi per navigare in mare più aperto, dove è necessario adottare comportamenti più responsabili.
– Questo è uno Stato / nazione dove nessuno sembra capace di tener conto di una distinzione banale, in teoria e in pratica, ma obnubilata dalla propaganda e dalla prassi politica e persino dalle dottrine giuridiche insegnate all’università (dove il codismo è imperante e l’anticonformismo punito). La distinzione fra Stato e governo. Le comunità umane hanno bisogno di governo, ma non di Stato. E far finta che Stato e governo siano due aspetti della stessa cosa, indissolubili, è proprio delle ideologie che non vogliono togliere l’ostacolo / gli ostacoli alla vera e unica emancipazione umana, che può venire solo dalla libertà, dall’autodeterminazione e dall’assunzione delle proprie responsabilità.
– L’aspirazione libertaria non è nuova, è anzi antichissima. Circa 2500 anni fa il filosofo cinese Lao-Tzu (o Laozi) scriveva: “Più ci saranno proibizioni, più il popolo sarà povero; più leggi saranno promulgate, più ladri e banditi saranno in circolazione”. Concetti ripetuti da centinaia di autori di ogni parte del mondo, nel corso dei secoli, eppure mai entrati nei programmi politici, oppure entratici per propaganda ma senza nessuna conseguenza pratica.
– Il comunismo marxista passa dall’abolizione dello Stato allo Stalinismo.
– Il socialismo della seconda metà dell’Ottocento passa dalle società di mutuo soccorso, dalle cooperative e dalle altre iniziative di autodeterminazione e autorganizzazione, al completo inserimento nello Stato e nella mentalità statalista.
– Il movimento cattolico passa dalle posizioni di Romolo Murri e del primo Luigi Sturzo, alla Democrazia Cristiana come partito pigliatutto che occupa ogni spazio del potere statale e lo allarga continuamente.
– I nuovi movimenti della sinistra nati nel periodo 1967-1975 cominciano col rivolgere feroci critiche allo Stato e a tutto ciò che è nello e dello Stato ma poi non fanno altro che chiedere più intervento statale, come se fosse possibile cambiare lo Stato presentato come “organizzazione totalitaria” in “stato libertario”, senza discioglierlo ed eliminarlo.
– Lo Stato è potere, abuso di potere, sistematica sopraffazione delle volontà contrarie; il governo senza Stato è amministrazione e autodeterminazione.
– È un’utopia credere nella possibilità di un governo senza Stato? No, non lo è, ci sono tanti esempi storici, soprattutto in piccole comunità dove la democrazia diretta non è una favola.
– In Europa ne abbiamo un esempio avanzato (non completamente realizzato, ma certo il più avanzato esistente oggi) nel Principato del Liechtenstein, piccola comunità di circa 37mila abitanti. È infatti nei piccoli Stati che si possono meglio realizzare gli istituti della libertà, dell’autodeterminazione e dell’autogoverno. Per questo i libertari sono sempre stati favorevoli ai piccoli Stati e ai movimenti secessionisti. I grandi Stati come Usa e Urss, ma anche Francia e Italia sono sovradimensionati e la pretese di stabilire leggi uguali per tutti fa sì che diventino delle gabbie di comunità diverse, ognuna delle quali non trova il terreno per svilupparsi ma deve sottomettersi, soffrire, perdere qualità ed energie, disgregarsi.
– Sono gli Stati, non le piccole comunità autonome, che fanno le guerre, che promuovono le conquiste imperialistiche, che giustificano i più orrendi massacri in nome della grandezza della patria ecc.
– Ostacoli giganteschi alla libertà dei singoli, alla corretta amministrazione della giustizia, al sano governo dell’economia e dei rapporti sociali. Ma ostacoli che una sinistra – di governo o di lotta che sia – che dice d’essere dalla parte dei più deboli, dovrebbe pur cominciare a smuovere, anziché limitarsi – in forma veniale o in forma arrabbiata da casseur con gilè colorato rosso giallo o verde o blu che sia – a rivendicare più Stato e che sia lo Stato a correggere lo Stato o persino ad eliminare se stesso. In questo modo la politica diventa una forma di sindacalismo: i cittadini chiedono allo Stato padrone di essere trattati meglio. Che lo chiedano con le buone o con le cattive cambia poco. È questo rapporto del cittadino suddito con lo Stato padrone che non funziona.
– Il cittadino dovrebbe chiedere allo Stato solo una cosa: farsi da parte. Magari una volta su un piccolo problema e un’altra su uno più grande. Farsi da parte e lasciare che i cittadini si organizzino da soli per risolvere i loro problemi.
-Se i partiti di sinistra e i sindacati si ponessero su questa ottica di azione, i cento fiori che Mao Tse-tung ha evocato per poi soffocarli in fretta, fiorirebbero davvero.
– Perché non cominciare? magari in tante piccole cose di tutti i giorni nelle quali la legislazione statale, in modo del tutto arbitrario, detta leggi del tutto inutili al benessere comune e dannose alla libertà dei singoli e alla loro personale ricerca di una vita migliore.
“– Perché non cominciare? magari in tante piccole cose di tutti i giorni nelle quali la legislazione statale, in modo del tutto arbitrario, detta leggi del tutto inutili al benessere comune e dannose alla libertà dei singoli e alla loro personale ricerca di una vita migliore.” ( Aguzzi)
Ma è un continuo cominciare in ogni campo. E’ che però se tu costruisci capanne e gli altri dei grattacieli, che spesso vengono fatti proprio dove tu costruisci capanne (distruggendole) prima o poi soccomberai.
SEGNALAZIONE
(Trovata gironzolando su FB e che ha qualche riferimento alla questione dello Stato…)
Antonello Zecca
4 gennaio alle ore 20:55 ·
Inoltro questo articolo di Krugman, da cui fondamentalmente dissento, con un commentario di Sandor Kopacsi, con cui invece sono del tutto d’accordo.
C’è una questione fondamentale, che è la concezione della natura dello Stato.
Questo “semplice” elemento è il punto di caduta dirimente, in fondo l’unico, a ben pensarci, che distingue strategicamente riformismo (anche quello più radicale) e rivoluzione:
“articolo piuttosto banalotto e privo di qualunque mordente. Dal 2008 a oggi sono stati usati almeno 30 trilioni di dollari per salvare le banche e ora qualcuno scopre l’economia mista? A quando “qui una volta era tutta campagna”? Il problema è che nel capitalismo l’intervento pubblico serve, one way or another, a garantire le condizioni di riproducibilità del sistema (profitti, condizioni di vita del proletariato, innovazione e ricerca di base, ecc. ecc.). Quanto più il capitalismo procede quanto più ha difficoltà ad accumulare nuovo capitale e dunque marcisce. Di qui l’abnorme panna montata nota come sistema finanziario. Ma al di là di tutte queste ovvietà, la radice del problema del keynesismo, di centro come Krugman, ma anche di sinistra come i post-keynesiani compresi gli MMT, è l’assenza di comprensione della natura di classe dello stato. Parlano dello stato come se fosse un autobus. Basta sedersi alla guida e va dove vuoi. Invece lo stato è un prodotto dei rapporti di produzione e seppure in modo non diretto e meccanico, risponde alla classe che guida questi rapporti. Per questo da Weimar ad Allende, da Mitterand a Tsipras, lo stato “keynesiano” fa prima o poi una fine tristissima. Senza abbattimento e ricostruzione di uno stato diverso, l’economia mista significa, nella felice espressione di Reich, il “socialismo per i ricchi”
Informazioni su questo sito web
ILSOLE24ORE.COM
Economia mista per migliorare il capitalismo
(https://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2019-01-03/economia-mista-migliorare-capitalismo-185448.shtml?uuid=AEFnGB8G)
SEGNALAZIONE
Rileggendo Marx: nuovi testi e nuove prospettive
Pubblicato il 30 Novembre 2018
Michael Heinrich*
Hochschule für Technik und Wirtschaft Berlin
Michael.Heinrich@HTW-Berlin.de
Permettetemi di iniziare con un’osservazione personale sulla mia lettura de Il capitale. Sono circa 43 anni che leggo Il capitale, e devo dire che non mi sono ancora annoiato. Leggerlo è come compiere un avventuroso viaggio intellettuale, ma per godere appieno di quest’esperienza è richiesto un tipo di impegno diverso da quello a cui ci ha ormai abituato il sistema universitario europeo, per il quale «leggere» significa solamente individuare in maniera grossolana alcune delle tesi principali esposte in un’opera.
(http://www.consecutio.org/2018/11/rileggendo-marx-nuovi-testi-e-nuove-prospettive/?fbclid=IwAR3hQF75Ix3mSgQw_1vDaeOEQE513weAzfeOl6-l-54F6ZTHJ8uaBQNPzbU)
AGGIUNTA
(Questo passo mi pare entri in tema nella discussione tra Tonto e Samizdat)
Infine, voglio parlare di un tema, che di solito non è spesso legato a Il capitale: il comunismo, perché Il capitale è anche una fonte per comprendere il significato del comunismo. Penso che questo sia un punto importante, soprattutto considerando la situazione politica contemporanea. Oggi ci troviamo di fronte a una nuova ondata di movimenti populisti di destra in tutta l’Europa occidentale e negli Stati Uniti, come testimoniato dai risultati elettorali. Questi movimenti hanno saputo rivolgersi a molte persone deluse, offrendo una loro sorta di utopia, un’utopia molto arretrata: l’utopia di uno Stato nazionale simpatico, che potrà risolvere tutti i problemi una volta che i rifugiati e le persone secondo loro non appartenenti al nucleo della nazione verranno espulsi. La sinistra è brava a criticare questa utopia. Tuttavia un’utopia non è fatta solo di argomenti ma anche di speranze. Quest’utopia di destra dà speranza a molte persone. Credo che le buone argomentazioni che le si oppongono non siano sufficienti a combatterla, e che anche la sinistra abbia bisogno di una sua utopia. Esistono già, in questa direzione, alcune formulazioni, a dire il vero piuttosto discutibili, ma io preferirei iniziare con una riflessione su quel comunismo di cui Marx fornisce alcuni indizi ne Il capitale. Questo comunismo non è né quello del cosiddetto “socialismo reale”, per come è esistito in Unione sovietica, il quale è stato un esperimento assolutamente fallimentare, né è un comunismo in un senso puramente filosofico. Abbiamo bisogno, credo, di una discussione su un comunismo che si ponga come un concreto progetto sociale. Ne Il capitale di Marx possiamo trovare una serie di suggerimenti per costruire una società che sappia andare al di là della forma di merce, al di là del denaro e del potere statale. Un dibattito su questa utopia comunista ispirata da Il capitale dovrebbe essere incluso in una nuova interpretazione sia di quest’opera, sia del pensiero di Marx, fornendoci la possibilità di trascendere dispute puramente accademiche e di intervenire nel processo politico. Era questo che Marx aveva in mente, quando chiamò Il capitale (in una lettera a Becker del 17 aprile del 1867) il più «terribile ordigno» mai scagliato contro la borghesia, ed è appunto come ordigno che dovremmo utilizzarlo.
…molto interessanti, ma anche scombussolanti, nel senso che possono far smarrire la bussola, questo post di G. T. e i commenti relativi… Anche a me sembra, come a Ennio Abate, che il Tonto si sbilanci troppo nelle sue critiche, un po’ come ponzio pilato che crede di stare al di sopra delle parti, ma il risultato appare diverso: a essere tempestata è solo una delle parti. Poi tutti i dubbi ( e critiche)rimangono aperti, molti fra quelli espressi e moltissimi tra quelli non espressi…
Le idee di Luciano Aguzzi mi sembrano richiamare quelle di Rosa Luxemburg, tra comunismo e anarchia: ” Solo estirpando alla radice la consuetudine all’obbedienza e al servilismo, la classe lavoratrice acquisterà la comprensione di una nuova forma di disciplina, l’autodisciplina, originata dal libero consenso”(R. L.), e sono molto d’accordo, ma, chiedo, le piccole comunità autogestite rispettose dei diritti reciproci, potrebbero degenerare in gruppi chiusi e statici, poco elastici nell’accogliere gente diversa, come i migranti, ammettendo pure che le guerre e la violenza possano un giorno scomparire negli animi e nella realtà? Dovrebbe scomparire anche l’egoismo per intero?…Certo se certi obiettivi li misuriamo sul nostro tempo, dalla preistoria a oggi…Ne verrà un altro?
Trovo curioso il fatto che uno, volendo “ripartire dal Marx di Fortini” faccia notare all’altro di vere scritto un testo letterario.
Anche l’insistenza a voler parlare di sinistra, quando si sa bene che sinistra vuol dire semplicemente Coloro che siedono a sinistra in Parlamento…
Brevemente su una notazione malevola e del tutto secondaria rispetto alle questioni centrali dell’articolo. Ho scritto: “Posso capire che il testo vuol essere letterario”, intendendo che, in letteratura, c’è un margine di libertà soggettiva e di ambivalenza maggiore rispetto ad un discorso che *volesse essere* direttamente e rigorosamente politico. E non vedo in cosa questa mia affermazioni contrasti con la visione critica che aveva Fortini della letteratura e della poesia.
Negli anni recenti gli Stati sono molto aumentati di numero. Vuol dire che i 150 trilioni (miliardi di miliardi), che compiono 4 trilioni di dollari di conversioni giornaliere sul mercato dei cambi, hanno bisogno dei servizi dello Stato.
Negli Stati anche le bombe atomiche si sono moltiplicate, sull’ultimo numero di Limes, Germania, in un articolo si incoraggia il governo a dotare il paese dell’arma nucleare, anche in funzione di leadership europea.
Con le mostruose ricchezze prodotte (e il mostruoso corteo di sfruttamento, guerre e dolori al seguito) gli Stati accelerano tecnologia, scienza, controllo ideologico e psichico (anche in vista di sterilizzare il suffragio universale e la democrazia rappresentativa).
Perciò leggo con stupore di abolizione dello Stato a vantaggio del governo… però in piccole comunità!
Vorrebbe dire comunque che bisognerà riassorbire buona parte dei 150 trilioni che si muovono freneticamente sul mercato per lucrare dividendi condizionando l’agire dei governi; seppellire in profondità gli arsenali atomici; sostituire le élites politiche e culturali a indirizzo strategico di supremazia.
Paradossalmente a una dimensione orizzontale, di comunanza, reciprocità e medietà (è troppo chiamarla uguaglianza) dichiarano di ispirare la loro azione i partiti al governo. Subito qualcuno potrebbe ribattere che la bandiera “prima noi e poi gli altri” nega proprio questa reciprocità e medietà, ma quei partiti vogliono fare intendere che se ognuno dirà “prima noi e poi gli altri” alla fine questo diventerà vero per tutti.
E’ che il diavolo ci mette sempre la coda: se nei sistemi verticali il liberismo fa (quasi) uguali solo i ricchi, nei finti sistemi orizzontali la medietà rimanda invece alla fattoria degli animali.
Una reale società improntata al riconoscimento reciproco, in regolata collaborazione, è un principio regolativo più che un ideale. E’ un valore cui ispirare la realizzazione pratica, ma la scelta presente per me si potrebbe chiamare “socialdemocrazia”: istruzione, salute, economia produttiva, servizi, e soprattutto valorizzazione della politica. Sembrava, la socialdemocrazia, un bene trascurabile, nel glorioso trentennio, e destinata a essere superata in senso rivoluzionario. Invece dopo il neoliberismo la stiamo perdendo in un processo forse irreversibile. Qualcuno però cerca di rimetterla al centro della discussione, per non restare prigionieri del dilemma romitaggio o fascinazione del tremendo presente.
Sono d’accordo con Cristiana, quando scrive: “Una reale società improntata al riconoscimento reciproco, in regolata collaborazione, è un principio regolativo più che un ideale. E’ un valore cui ispirare la realizzazione pratica (…) istruzione, salute, economia produttiva, servizi, e soprattutto valorizzazione della politica”.
Ho tolto di proposito il termine “socialdemocrazia” in quanto,a mio avviso questi obiettivi non andrebbero perseguiti per via schematica o idealistica. Inquadrati e quindi ingessati, perderebbero valore di spinta, se così si può dire.
Mi pare che il dilemma presente nella polemica tra il Tonto e Samizdat ( che fare o almeno dare credito e quanto al “nuovo” governo Salvini-Di Maio, comunque “diverso” o “meno peggio” dei precedenti) sia aggirato e ormai quasi seppellito dall’altra questione (più “intellettuale”) di quali siano nelle nostre cassette degli attrezzi gli strumenti ancora validi.
Ciascuno lucida o olia il suo, quello a cui è più affezionato o che ancora oggi trova sensatamente migliore: l’anarchismo libertario delle piccole comunità autogestite (Aguzzi), la socialdemocrazia (Fischer), Marx scrostato dai “marxismi” (Toffoli, Locatelli e Abate).
Ho già detto ad Aguzzi che, malgrado la mia simpatia, non penso che le piccole comunità autogestite (alias: i costruttori di capanne)
possano crescere senza essere prima o poi subordinate o distrutte dagli Stati (alias: i costruttori di grattacieli).
Ora mi sento di criticare con più forza la soluzione socialdemocratica, caldeggiata qui da Fischer e Mayoor. La socialdemocrazia (da quella tedesca a quella a cui si era adattato il PCI nella fase finale della sua storia novecentesca) ha sempre negato o subordinato la « dimensione orizzontale, di comunanza, reciprocità e medietà». Persino quella minima delle stesse autonomie locali periferiche (i comuni) previste dagli Stati. E ha, appunto, aolo e sempre sbandierato l’ideale della « società improntata al riconoscimento reciproco, in regolata collaborazione» senza mai realizzarlo. Ed è stata proprio la socialdemocrazia residua ( il governo Renzi in particolare) che ha smantellato in Italia quel poco di Stato sociale conquistato con le lotte operaie e i moti del ’68-’69, accettando il neoliberismo (capitalistico) come orizzonte invalicabile.
Al «dilemma romitaggio o fascinazione del tremendo presente» si sfugge – insisto – lavorando sulle«buone rovine» di Marx ( non del “marxismo”) ancora utili, come ha scritto Michael Heinrich, che ho sopra segnalato.
Mi limito a considerare l’idealismo, quindi anche l’ideale socialdemocrazia, giustamente contestata da Ennio Abate in quanto mai realizzata. Tuttavia la S. ci riporta alla prassi, che è attività neutra e concreta per la quale conta la politica
– scelta e orientamento. Al rilancio della politica (ma cos’era diventata in questi anni?) può contribuire il pensiero marxista.
Abbiamo tante dottrine sullo Stato come male necessario per evitare il male maggiore della guerra di tutti contro tutti; del capitalismo necessario per evitare il male maggiore della miseria, della fame, della società che non produce nemmeno a livello di sopravvivenza; della democrazia come cattiva forma di governo, ma tuttavia la migliore fra quelle conosciute ed esperimentate; della sua versione socialdemocratica, come forma migliore e unica possibile del “socialismo” realistico. Tuttavia io preferisco sbagliare scegliendo con la mia testa e pagandone le conseguenze, piuttosto che essere costretto a sbagliare da altri che pretendono di scegliere che cosa è meglio per me. Io valuto ognuna delle tante proposte fatte e anche esperimentate nel corso degli ultimi 2.500 anni (lasciando perdere preistoria e protostoria) alla luce di due valori fondamentali: non aggressione e libertà. E torno a ripetere: o l’alternativa è il “meno peggio” fra i tanti “peggio” della storia, e allora può andare bene anche la socialdemocrazia, meglio del socialismo reale sovietico (e imitazioni successive) e può andare bene anche la criminale collaborazione fra Stato e capitale e tecnologia. La prospettiva? La distopia forte di “1984” di Orwell o quella più dolce de “Il mondo nuovo” di Aldous Huxley, alla quale ci stiamo avvicinando.
Annamaria Locatelli teme che «le piccole comunità autogestite rispettose dei diritti reciproci, potrebbero degenerare in gruppi chiusi e statici, poco elastici nell’accogliere gente diversa, come i migranti». Ed io rispondo: perché fare della chiusura o dell’apertura una questione di principio universale e non una decisione da prendere di volta in volta e da autogestire? Sia l’apertura che la chiusura sono scommesse che possono portare dei vantaggi o degli svantaggi, ed è diritto di ognuno scegliere liberamente, nell’ambito della propria comunità, senza subire il diktat di una politica universalistica, cioè ideologica e non pragmatica.
Cristiana Fischer e Lucio Tosi sostengono che “Una reale società improntata al riconoscimento reciproco, in regolata collaborazione, è un principio regolativo più che un ideale. E’ un valore cui ispirare la realizzazione pratica (…) istruzione, salute, economia produttiva, servizi, e soprattutto valorizzazione della politica”. Certo. Ogni teoria è un “principio regolativo”, ciò vale per le dottrine considerate utopistico come per quelle considerate realistiche. Fra il principio regolativo e la sua attuazione c’è sempre una sfasatura, una non corrispondenza. Ma se alcuni principi regolativi portano a realizzazioni proprio opposte, altri portano a realizzazioni approssimate, ma in linea e più o meno vicino. La misura dell’approssimazione ci dà il valore del principio.
E cominciamo dunque a fondare «la realizzazione pratica (…) istruzione, salute, economia produttiva, servizi, e soprattutto valorizzazione della politica» sull’autogoverno e sulla libertà. In un post precedente ho fatto l’esempio del sistema pensionistico. Gli esempi si possono moltiplicare. Ogni volta che lo Stato (o l’Unione Europea) ci impongono un determinato standard, perché non ci chiediamo se sia meglio gestire il problema in modo differenziato e autogestito, anziché in modo uniforme e imposto dall’alto sulla base di dubbie necessità tecniche o utilità comuni?
E perché, anziché chiedere allo Stato di provvedere a questo o a quello, non cominciamo a chiedergli di lasciarci la libertà di provvedere da soli alle proprie esigenze?
In un altro articolo, quello su Davide Lazzaretti (“il Cristo dell’Amiata”), Ennio Abate ribadisce che i grattacieli distruggono le capanne, lo Stato non permette l’esperimento di piccole comunità autogestite. E allora? Chiediamo, e lottiamo, perché le leggi diventino favorevoli alle comunità autogestite. Ciò che nell’Ottocento non è riuscito a Lazzaretti, nel Novecento, dopo varie difficoltà, è riuscito a Zeno Saltini che ha fondato “Nomadelfia”, una comunità comunista evangelica, tuttora viva con i suoi poco più di mille abitanti. Questo che è riuscito a don Zeno Saltini, in base alle leggi odierne (le cui disposizioni si potrebbero allargare), potrebbe riuscire a mille comunisti laici, magari anche atei, che volessero vivere in una comunità comunista secondo principi non fondati sul Vangelo ma su altre fonti regolative. E se le comunità arrivassero a un milione o due o dieci milioni di abitanti, e la qualità di vita assicurata ai propri aderenti fosse competitiva nei confronti della qualità di vita dei non aderenti, il modello potrebbe allargarsi.
Ma, nel passato, le comunità comuniste “atee” non sono riuscite a diventare un modello vincente, in parte per l’ostilità dell’ambiente sociale e degli ordinamenti giuridici statali, in parte per le contraddizioni interne di queste comunità che hanno portato a rotture e scissioni distruttive.
Perché in effetti, riprendendo Montesquieu, ogni forma di governo ha bisogno, e si regge, su una propria “passione”. Diciamo, in termini più attuali, su una propria concezione e organizzazione etica. E indubbiamente una comunità comunista ha bisogno di membri eticamente più evoluti rispetto a un qualsiasi Stato autoritario o democratico o socialdemocratico, dove l’etica finisce per identificarsi con l’imposizione della legge positiva.
Ma se il comunismo non è una libera scelta fondata anche su una concezione etica più evoluta, come lo si può imporre con legge dello Stato senza ricadere nella distopia della “Fattoria degli animali”?
In conclusione: ogni scelta è, in qualche modo, una scommessa, e presenta tutti i rischi delle scommesse: si vince, si perde, si vince o perde a metà…. Forse per questo molte persone, che in certe fasi della storia diventano la grande maggioranza della popolazione, si affidano alla “sicurezza” offerta dai governi autoritari. Per evitare di scommettere e di preoccuparsi delle proprie scelte. Ma quando la “fuga dalla libertà” diventa la scelta comune di massa, non c’è rimedio al male. Perché la fuga dalla libertà è il male e il fondamento di ogni male sociale. Ciò, nel passato, ha reso possibile il nazismo, il fascismo, lo stalinismo ecc. ecc. E nel presente rende possibili tanti Stati e governi autoritari che organizzano l’ordinamento giuridico non in vista del bene comune ma in vista del bene proprio.
Le obiezioni possibili sono migliaia. Ma senza libertà e autogoverno sono ancora di più e peggiori. Salvo che, per propria natura caratteriale, non si preferisca la quiete del gregario al tormento dell’uomo libero. Ma se è così, perché allora occuparsi di politica? Non è meglio occuparsi di cose più divertenti e rilassanti e limitarsi, in politica, ad appoggiare chi offre più sicurezza? chi offre più Stato sociale? chi promette più mari e più monti? Salvo, poi, restare delusi e cambiare velocemente il partito, o il leader, o il gruppo, da appoggiare, in una eterna rincorsa del Padre protettivo e benefico. Rincorsa che diventa anche “spettacolo politico”.
O l’uomo si emancipa davvero, secondo l’abusata citazione kantiana del «sapere aude» (ma l’espressione risale ad Orazio), o tutto diventa inutile, o meglio diventa – nel caso migliore – la scelta del padrone che si crede più confacente alla propria servitù.
Ennio Abate cita Michael Heinrich e la sua ennesima proposta di nuova interpretazione di Marx. Un autore che si può interpretare in tanti modi, anche fra loro opposti, è già di per sé sospetto. Vuol dire che nel suo bagaglio dottrinale esisteva la contraddizione fin dall’origine, o che questa si è rivelata col tempo che ha messo a nudo i diversi e divaricati significati di parti che prima si credevano coerenti e strettamente unite e vincolanti. Nella citazione leggo: «Un dibattito su questa utopia comunista ispirata da “Il capitale” dovrebbe essere incluso in una nuova interpretazione sia di quest’opera, sia del pensiero di Marx, fornendoci la possibilità di trascendere dispute puramente accademiche e di intervenire nel processo politico». Questo lo si è fatto e lo si fa continuamente, senza soluzione. Ma la concretezza dell’utopia comunista ispirata da Marx non si vede ancora, o, se si vede, si dirama in forme e tendenze diverse e le utopie comuniste si moltiplicano senza riuscire a mordere davvero il terreno della realtà, o se ci riescono, si rivelano distopie anziché utopie.
Vorrei portare il mio piccolo contributo con una specie di provocazione. Nel “Manifesto” e in altre opere di Marx-Engels leggiamo un elogio del capitalismo, come modo di produzione più avanzato che la storia abbia prodotto, e un elogio della necessità di superarlo. Sul come superarlo Marx ha dato indicazioni dubbie che in pratica (ma anche in teoria) si sono rivelate fallaci e non hanno mai portato a un modo di produzione più evoluto, che abbia superato il capitalismo. Perché allora non proviamo a leggere in Marx, oltre al critico del capitalismo, anche l’apologeta del capitalismo? Che è poi il Marx storicamente più e meglio “verificato”?
E perché non uniamo questo Marx apologeta del capitalismo col Marx libertario che prevede l’abolizione dello Stato?
E perché non pensiamo a un capitalismo senza Stato, autogovernato? (I maggiori difetti imputati al capitalismo, in effetti, non sono del capitalismo in sé ma sono propri dello Stato capitalistico, più dello Stato che del modo di produzione, più del sistema Stato-economia-dominio che del capitalismo come accumulazione e crescita della ricchezza di cui i popoli possono disporre). Spostando il centro della lotta non contro il capitalismo in sé (io, personalmente, non riesco a concepire una società moderna, non disposta a tornare all’età della pietra, che possa fare a meno del capitalismo come modo di produzione), ma contro lo Stato e contro l’ordinamento giuridico statale che ha incanalato e imprigionato e sistematizzato il capitalismo in un certo modo, contrario alle sue stesse premesse?
Si pensi a quante distorsioni, rispetto alla sua vocazione originaria, il capitalismo subisce forzatamente dallo Stato e dalle sue leggi. Allora, fra un capitalismo libero e selvaggio, non esente da grossi pericoli, e un capitalismo alleato con lo Stato per dominare ogni forza libera e selvaggia, per dirigere in un certo modo la tecnologia, per tenere entro certi recinti le masse popolari, perché non optare per un appoggio al capitalismo libero e selvaggio e alla sua capacità rivoluzionaria descritta da Marx, anziché appoggiare lo Stato e il capitalismo non più libero e selvaggio? Non è forse il potere politico e statale molto più libero e selvaggio e distruttivo del capitalismo in sé? Nella lotta secolare fra capitalismo libero e Stato moderno, l’elemento più retrogrado, nocivo e selvaggio è sempre stato lo Stato. Oggi, si può certamente dire, un capitalismo libero e selvaggio non esiste più, e gli effetti negativi di questo si vedono.
Spostare, dunque, l’attenzione sugli strumenti di autogoverno e di controllo del capitalismo, perché il generico anticapitalismo è privo di senso logico e pratico.
Non credo che sia il capitalismo a costruire lo Stato a propria immagine e somiglianza e a farne uno strumento di dominio. Al contrario, credo che sia lo Stato a fare del capitalismo (e della tecnologia) un proprio strumento di dominio, condizionandone l’organizzazione e la direzione. Fra il libero imprenditore, con la sua etica capitalistica, e lo Stato vi è un conflitto che non termina quando il libero imprenditore conquista lo Stato, ma al contrario quando è lo Stato a conquistare il libero imprenditore e a farne un imprenditore poco libero o addirittura servo. Il libero imprenditore vuole meno Stato; è l’imprenditore asservito allo Stato – spesso imprenditore parassitario e speculativo – che vuole più Stato, d’accordo con i partiti politici e spesso anche con i sindacati. [Si rileggano i libri del radicale Ernesto Rossi].
Se davvero «Ne “Il capitale” di Marx possiamo trovare una serie di suggerimenti per costruire una società che sappia andare al di là della forma di merce, al di là del denaro e del potere statale», è necessario saper leggere fino in fondo e saper separare il destino del capitale in sé come modo di produzione dal capitalismo come forma sociale e dal capitalismo come organizzazione statale e ordinamento giuridico. Non sono la stessa cosa, e mescolare tutto non permette di capire ciò che succede e tanto meno di costruire progetti sociali meno banali dei tanti che sono in circolazione.
Il “capitalismo” (risparmio, accumulazione e reinvestimento del capitale per produrre una ricchezza / capitale / allargato) è insopprimibile, salvo – ripeto – che non si voglia tornare all’età della pietra. Invece sono sopprimibili “la forma di merce” e il “denaro”. Ma bisogna essere coscienti che la forma merce e il denaro sono potentissimi strumenti di organizzazione sociale e giuridica e che se ne può fare a meno solo se si è capaci – innanzitutto eticamente capaci – di realizzare una organizzazione sociale e giuridica superiore. Abolita la merce e il denaro, la produzione e distribuzione della ricchezza non potrebbe che basarsi sull’economia del dono e della condivisione familiare ed egualitaria. Vi pare poco? Com’è possibile un’economia simile? Con quali forme giuridiche? Con quale organizzazione sociale e regolamentazione dei poteri di autogoverno? Ecco, su ciò il marxismo non ha quasi mai riflettuto e non ha prodotto dottrine valide.
Io credo che il problema, nel contesto del potere statale e dei grandi Stati, sia assolutamente irrisolvibile. Ogni tentativo è destinato a produrre il “socialismo reale”, cioè una forma di capitalismo di Stato che soffoca ogni libertà e che è inefficiente anche sul piano della produzione economica. Può invece essere risolto nell’ambito di piccole comunità a organizzazione orizzontale. Piccole comunità del tutto autonome oppure, anche, semiautonome, inserite all’interno di forme di statualità attenuate nelle quali si sia conquistato il diritto all’autorganizzazione.
Il contrasto fra autogoverno ed eterogoverno diventerà nel prossimo futuro sempre più drammatico, perché il crescere della popolazione e il degenerarsi dei sistemi ecologici porteranno anche a guerre per beni fondamentali come l’acqua, il cibo, il controllo del territorio e dell’aria stessa. L’attuale sistema di Stati a diverso livello di potere, dai grandi Stati imperialistici ai piccoli che gestiscono le proprie clientele senza potere a livello globale, aggravano la situazione del pianeta Terra e ne minacciano la sopravvivenza (o meglio, la sopravvivenza dell’organizzazione sociale culturalmente evoluta e forse della stessa specie umana). Portano inoltre all’esasperazione delle scelte considerate tecnologicamente necessarie con l’effetto di sopprimere il peso della libertà e delle decisioni politiche degli stessi uomini di Stato, incapaci di ragionare con ottiche diverse.
L’alternativa, per quanto possa apparire difficile o addirittura impossibile, non può che essere l’abolizione dei poteri statuali e imperiali di ogni tipo e l’assunzione in proprio, nelle forme dell’autogoverno di piccole comunità federate, di ogni decisione.
La situazione presente globale (capitalismo finanziario + multipolarismo) davvero non lascia vedere alternative, se vi si accomodano il romitaggio o la prospettiva di un percorso lungo (dagli anni ’70), mentre la rivoluzione di Mayoor sorvola sulle preoccupazioni che suscitano le idee dei 5* sul suffragio universale, con la finanziaria approvata alla cieca e la proposta di referendum propositivo quota 25%. E chissà quali sono gli interessi privati della ditta Casaleggio, e affiorano continue difficoltà quanto alla democrazia interna.
Comunque basta intendersi sui nomi: Mayoor rifiuta di citare la parola socialdemocrazia, d’altra parte il partito comunista nemmeno ha assunto l’etichetta di socialdemocratico, senz’altro per ragioni storiche, ma soprattutto perchè non ha assunto quelle politiche. Carlo Galli usa solo il termine “sinistra” e Sergio Cesaratto si diverte con l’ambiguità del termine “riformismo”.
Quello che intendo io con il vecchio termine è la gestione dell’esistente, con il meglio per la convivenza sociale della nostra vecchia cultura, in senso critico e consapevole. Senza conciliazioni con gli interessi dei tempi, né voli in antichi cieli utopistici. Il vecchio Marx stava sempre al punto, per questo ha potuto fare anche teoria del capitale. Oggi siamo qui, sappiamo forse tutto quello che è stato, ma il futuro si pensa (in senso critico e consapevole, ripeto) attraverso il presente.
@ Aguzzi
So che stare dietro ai tuoi complessi, ben articolati ma lunghi interventi, che evocano troppi problemi una volta discussi, anche se in modi vulgati e scolastici, in un’ampia fascia della pubblica opinione e oggi del tutto dimenticati, è difficile e rischia di isolarci in una discussione che parrà ad alcuni bizantina, ma stavolta voglio replicare ancora con questi appunti:
1.
Non c’è grossa differenza tra «sbagliare scegliendo con la [propria] testa e pagandone le conseguenze» e «essere costretto a sbagliare da altri che pretendono di scegliere che cosa è meglio per me». In ogni caso sbagli. Il vero problema con cui dovresti fare i conti è che ti ritrovi/ci ritroviamo tra gli sconfitti, tra i bastonati dalla storia. E la superiorità del primo atteggiamento è tutta apparente. Resiste in una tua personale intimità. Se ci rifletti è una sorta di delirio soggettivo, un orgoglio che resta senza fondamento reale. Tanto più che quelli che a te sembrano i « due valori fondamentali: non aggressione e libertà» sono smentiti dalle azioni degli Stati, che continuano indisturbati a fare guerre d’ogni tipo e a reprimere individui e movimenti quando tentano di ribellarsi.
2.
La filosofia del rassegnarsi al “meno peggio” pare quasi inevitabile in una situazione come questa così squilibrata nel rapporto di forza tra dominatori e dominati (L’1 per cento più ricco della popolazione mondiale possiede più ricchezza del restante 99 per cento: https://www.tpi.it/2018/01/22/1-per-cento-ricco-ricchezza-99-per-cento/).
3.
Eppure a me pare giusto rifiutarla. Non però contrapponendole una inesistente libertà dell’individuo. Che sarebbe un autoinganno, visto che la libertà o si afferma nei fatti, nella vita sociale, o non c’è. A voler essere meno drastici, potremmo trovare in giro in singoli individui un sentimento personale di libertà o una capacità intatta di pensare liberamente, ma sta là isolata in un oceano di sottomissione che resiste e resta inattaccabile.
4.
A questa libertà individualistica (e per me illusoria) e alla filosofia del rassegnarsi al “meno peggio” contrapporrei una servitù parziale, una consapevole sottomissione critica, che accetta di obbedire formalmente alle leggi dei dominatori ma tiene però a mente tutte le falle o i vuoti di un dominio, che è comunque anch’esso sottoposto al mutamento reale, al quale non può sfuggire. E, proprio perché non s’è rassegnata e non ha introiettato in sé né la “ragione” dei dominatori né la filosofia del “meno peggio”, a cui essi cercano di convincerci, questa consapevole sottomissione critica rimane vigile. Sa, cioè, cogliere, accumulare e pensare gli spunti di contrasto, sa collegarli tra loro in modo che possano servire in determinate circostanze a fare la scommessa, abbastanza ragionevole e non di puro azzardo o fondata sulla cieca passionalità, già fatta in passato per tentare di realizzare “il meglio” mai dimenticato. (È all’incirca la morale del servo consigliata da Fortini a un suo giovane interlocutore).
5.
Questo “meglio” da non dimenticare (il comunismo per me), non va ridotto a ideale, a puro principio regolativo, a utopia, a teoria. Diventerebbe pigra consolazione, sentimento religioso che si soddisfa di se stesso. Che continuerebbe a trovare conferma per la propria passività nella constatazione, su cui tu pure insisti, che «fra il principio regolativo e la sua attuazione c’è sempre una sfasatura, una non corrispondenza». Questa è la premessa per l’accoglimento rassegnato della filosofia del “meno peggio” o delle (non so quanto accertate) «realizzazioni approssimate» di quell’ideale. Tu fai l’esempio del sistema pensionistico. E finisci per apprezzare ancora una volta il “meno peggio” («gestire il problema in modo differenziato e autogestito») contro il “peggio” (la gestione del sistema pensionistico «in modo uniforme e imposto dall’alto sulla base di dubbie necessità tecniche o utilità comuni»). Scarti, senza neppure più pensarci, il possibile “meglio”. (Che potrebbe essere l’abolizione stessa di un sistema pensionistico o dello stesso Stato, cosa difficilissima ma non impensabile).
6.
Ti faccio poi notare che, per quel che dici in questo commento, la tua lode delle «piccole comunità autogestite» pare non possa fare a meno dello Stato e lo accetta come interlocutore valido. Infatti, vorresti richiedere allo Stato di«lasciarci la libertà di provvedere da soli alle proprie esigenze». (Quindi, gli riconosci in pieno l’autorità e non ne metti più in discussione la funzione complessiva ma solo il modo arbitrario o miope con cui la eserciterebbe). L’esempio stesso dell’esperienza di «Zeno Saltini, che ha fondato “Nomadelfia”, una comunità comunista evangelica, tuttora viva con i suoi poco più di mille abitanti» conferma – mi pare – questa tua disponibilità al “compromesso” (socialdemocratico?) con lo Stato.
7.
In più, come al solito, trascuri la mia obiezione («che i grattacieli distruggono le capanne» se distruggerle appare necessario per raggiungere i loro scopi). Trascuri, cioè, il conflitto tra ogni forma di vero autogoverno e la forma Stato, abbandonandoti alla fantasia:« se le comunità arrivassero a un milione o due o dieci milioni di abitanti, e la qualità di vita assicurata ai propri aderenti fosse competitiva nei confronti della qualità di vita dei non aderenti, il modello potrebbe allargarsi». Ma l’esistenza e la funzione dello Stato non consiste forse proprio nell’ impedire tale eventualità? Lo Stato permetterebbe mai di lasciare il campo ad un avversario che ne metta in discussione il ruolo fondamentale? Salti la questione dello Stato (quella posta da Lenin in “Stato e rivoluzione”). E lo fai spostando il discorso esclusivamente sulle «contraddizioni interne di queste comunità che hanno portato a rotture e scissioni distruttive». Mentrei limiti delle esperienze storiche di “socialismo/comunismo” (o anche di “anarco-comunismo”) dovrebbero essere capiti sempre in rapporto al loro conflitto con lo Stato e ai limiti con cui l’hanno teorizzato o affrontato all’atto pratico.
8.
Mi chiedo poi: come la «comunità comunista» che tu ipotizzi, cresciuta entro i limiti permessi da uno Stato ad essa fondamentalmente ostile e che non è riuscito ad abolire d’un colpo solo (e potrebbe essere il caso dell’esperienza sovietica) potrà mai produrre «membri eticamente più evoluti rispetto a un qualsiasi Stato autoritario o democratico o socialdemocratico»? Li può avere già in partenza, come tu sembri richiedere. E cioè al di fuori di un processo di lotta contro lo Stato? Da dove spunterebbero questi Ercoli o Prometei etici, capaci di mai «identificarsi» con lo Stato o di agire da subito e in ogni istante secondo « una libera scelta fondata anche su una concezione etica più evoluta» e capace di evitare di sicuro «la distopia della “Fattoria degli animali”»?
9.
Se vogliamo parlare coerentemente di scommessa, dobbiamo sapere che in una scommessa non ci sono garanzie. Dobbiamo sapere che anche dei rivoluzionari di professione, che fossero selezionati dal più illuminato di loro o si fossero forgiati in circostanze dure e capaci di esaltare la loro tenacia e il loro coraggio, e avessero tratti «eticamente più evoluti» di altri, possono sgarrare o tradire o cedere o deviare o diventare come «la grande maggioranza della popolazione» e tornare ad affidarsi alla «“sicurezza” offerta dai governi autoritari». Quindi, per me presupporre che prima di tentare una scommessa (rivoluzionaria o a favore del “meglio”) ci debba già essere un’etica coerente, libera e del tutto autogovernata e magari praticata da molti, è una idealizzazione. Solo nei processi reali, in buona parte imprevedibili, potranno emergere e moltiplicarsi ( e non si può dire per quanto tempo dureranno e in quanti saranno) uomini e donne «con tratti «eticamente più evoluti» capaci di guidare altri “eticamente meno evoluti”.
10.
E, dunque, non mi meraviglia che Marx, un punto di riferimento per pensare l’emancipazione non un feticcio da adorare o ossequiare, avesse « nel suo bagaglio dottrinale» o nei comportamenti reali della sua vicenda biografica «la contraddizione» o delle contraddizioni. E però trovo inaccettabile, stramba, di comodo (e dovrei aggiungere ambigua e “rossobrunista” o tipicamente “né di destra né di sinistra”) la “pensata” che ricavi da quella “contraddizione” di Marx: unire o conciliare «questo Marx apologeta del capitalismo col Marx libertario che prevede l’abolizione dello Stato». Il che verrebbe a dire – credo – che bisognerebbe conciliare oppressione e libertà, Stato e rivoluzione (in un senso non certo leninista).
11.
Riconoscere, come ha fatto Marx, che il capitalismo ha eliminato il precedente sistema feudale di produzione non significa automaticamente farne l’apologia. (Non si spiegherebbe perché Marx avrebbe continuato a criticare tutti i teorici che volevano conciliare capitalismo e socialismo).
12.
Infine mi pare che tu dai una visione quali idilliaca o roussoviana del capitalismo. Parli in fondo di un capitalismo ( o di un modo di produzione capitalistico) “ buono” ( proprio come la natura umana buona di Rousseau). Esso sarebbe stato pervertito dallo Stato “cattivo”, « che ha incanalato e imprigionato e sistematizzato il capitalismo in un certo modo, contrario alle sue stesse premesse».
Chiedo allora: ma Marx non aveva intravisto nel capitalismo stesso e nella sua logica di sviluppo le ragioni delle suo crisi ricorrenti? La « sua vocazione originaria» non sta per Marx nella sua “anarchia”, nella sua “distruttività” intrinseca? Come puoi presentare il capitalismo vittima dello Stato? Quando mai ha subìto i vincoli impostigli dallo Stato, se non nei momenti in cui stava per autodistruggersi (oltre che per distruggere completamente la società)? Non ha accettato di “trattenere” i suoi «spiriti animali» solo per salvarsi e, passato il pericolo, continuare ad opprimere subito dopo la società “normalmente”?
13.
« Optare per un appoggio al capitalismo libero e selvaggio»? Ma quanto gli è possibile esserlo senza autodistruggersi? New Deal e nazismo/fascismo non furono due modi di prendere atto di questa possibilità di autodistruzione e non furono tentativi in parte differenti ma riusciti di governarla per farlo sopravvivere e impedire la possibile vittoria del socialismo?
14.
Tu sembri non capire più che la « lotta secolare fra capitalismo libero e Stato moderno», nella quale ti pare che «l’elemento più retrogrado, nocivo e selvaggio [sia] sempre stato lo Stato», era lotta interna a forze dominanti tesa a impedire la “scommessa” fatta dai dominati, i quali erano riusciti ad organizzarsi e a tentare l’abolizione di entrambi! E dispiacersi che « un capitalismo libero e selvaggio non esiste più» facendone l’unico soggetto rivoluzionario positivo mi pare paradossale e – permettimi il termine – subdolo. Perché sostituisci il discorso che facevi sull«autogoverno» o dell’ «autogoverno di piccole comunità federate» con un’altra cosa: una lotta per l’autogoverno del capitalismo (!) contro lo Stato (capitalistico!).
15.
E già, « il generico anticapitalismo è privo di senso logico e pratico»! E già, non è stato « il capitalismo a costruire lo Stato a propria immagine e somiglianza»! Forse sono stati i proletari! E già è un Moloch-Stato a sottomettere a sé lo stesso capitalismo asservendo a sé i poveri imprenditori, spesso anche parassitari e speculativi!
16.
Sarà anche giusto distinguere « il destino del capitale in sé come modo di produzione dal capitalismo come forma sociale e dal capitalismo come organizzazione statale e ordinamento giuridico» ma non vedere più quanto capitalistico sia diventato lo Stato moderno e quanto lo siano ancor più quelli oggi esistenti mi pare una mistificazione.
17.
Considerare «insopprimibile» « il “capitalismo” (risparmio, accumulazione e reinvestimento del capitale per produrre una ricchezza / capitale / allargato» è voler perpetuare l’età dell’oppressione e della distruzione dei legami sociali potenzialmente possibili.
18.
Certo che «la forma merce e il denaro sono potentissimi strumenti di organizzazione» ma oggi sono in mano ai capitalisti e ai loro burocrati operanti nei vari Stati.
19.
Che « il marxismo non ha quasi mai riflettuto e non ha prodotto dottrine valide» sulla “società comunista” o che il “socialismo reale” sia ricaduto in una qualche forma di capitalismo di Stato «che soffoca ogni libertà e che è inefficiente anche sul piano della produzione economica» non giustifica la tua sostituzione del discorso di autogoverno dal basso con un ‘altra cosa: l’accettazione del capitalismo come orizzonte insuperabile. Perché questo dici in modo velato e strumentalizzando la lezione di Marx.
OSSERVAZIONI SUL TONTO E ALTRO.
1.
Intervengo sul lungo e complesso discorso che nasce dall’apologo di Toffoli. Confesso che molti dei riferimenti ( culturalmente interessanti ) contenuti in esso mi trovano impreparato. Troppo per me. Comunque ciascuno di essi esigerebbe una analisi critica approfondita all’esito della quale rimane più insoddisfazione che appagamento ancor che relativo. L’obbiezione di fondo che mi sento in grado di fare è che i vari interventi nati dalla costola del Tonto vengono a costituire una serie di diramazioni , deviazioni, bivi, trivi, quadrivi tali da far perdere ogni orientamento.
Mi viene in mente una massima di Goethe : “ Non si giunge mai tanto oltre come quando non si sa dove andare “
2.
il discorso entro il quale desidero intervenire – con le limitazioni che ho confessato – è all’evidenza un discorso politico in senso proprio e allora per non incorrere nei pericoli segnalati dall’ aforisma sopra ricordato bisogna chiedersi dove vogliamo andare, domanda che dialetticamente è l’individuazione stessa dell’oggetto delle nostre osservazioni.
Politica, polis sono termini che sia semanticamente che nell’esperienza storica rimandano alla CITTA’ e cioè a quella aggregazione di uomini definiti animali politici.
A mio giudizio si tratta di una STRUTTURA ORIGINARIA che ha diverse modalità di manifestazione compatibili anche con modalità “anarchiche “ del suo concreto operare. Ma questo è un altro discorso.
E’ rispetto a tale struttura che si pone la domanda capitale: come vogliamo che sia tale struttura? E’ umanamente inconcepibile che si voglia la peggiore delle CITTA’ possibili e dunque possiamo pensare – e ciò è sempre stato il sogno dell’umanità – che si voglia la migliore delle CITTA’ possibili. Se si vuole essere pessimisti – e la Storia a questo ci porta – possiamo usare una formula diversa: la CITTA’ meno peggiore.
Quale che sia la formula più consona alla condition humaine, è certo che tutti i movimenti utopistici si muovono verso la perfezione. Ad essi si può rimproverare il punto di partenza (cioè la erronea scelta dei valori da proseguire) e il punto di arrivo (la pretesa dell’arrivo alla perfezione) ma non certo l’afflato di una continua ricerca di quest’ultima.
3.
Come si misuri questa qualità è problema astrattamente semplice. Se attribuiamo a noi umani un minimo di razionalità/umanità, possiamo semplicisticamente individuare il programma della CITTA’ nell’assicurare condizioni di vita accettabili per tutti i cittadini. Ho detto “semplicisticamente“ per prevenire accuse fin troppo facili. Le conosco e le do per scontate. Esse hanno due direzioni: una riguarda la nozione di accettabilità e l’altra il rilievo del perenne disinganno che ci presenta in termini reali la Storia.
4.
La prima direzione ci conduce all’interno della dialettica squisitamente politica delle forme di governo e delle aspettative dei cittadini. Sono aspetti che riguardano propriamente altri momenti centrali della Politica cristallizzati – forse – nella trinità laica: Libertà, Eguaglianza e Fraternità.
La seconda direzione ci pone davanti la Storia (Joyce: “ questo incubo dal quale vorrei risvegliarmi “) che ha una struttura tragica. Sia dai libri (antichissimi, antichi, moderni, attuali) sia dall’osservazione empirica essa ci presenta come un susseguirsi di guerre, sopraffazioni, diseguaglianze, distanti dal sogno utopistico dell’età dell’oro.
Abbiamo notizia di CITTA’ TERRENE che presentino la realizzazione completa dei valori il cui raggiungimento è la manifestazione della perseguita perfezione? Direi di no.
5.
La drastica risposta implica due ordini di problemi. Il primo riguarda l’individuazione delle cause, cause che – logicamente – dobbiamo qualificare come permanenti. Siamo di fronte ad un’altra STRUTTURA ORIGINARIA ? E quale è?
Il secondo problema è come comportarci di fronte all’ineliminabile imperfezione del nostro vivere in società.
Tutto sommato è questo secondo problema che interessa davvero. Quale che sia e se esista una causa unica, è certo che dobbiamo vivere in un certo modo.(Primum vivere …,).
Le religioni indicano le via della rassegnazione e delle fede, le quali da un lato ed escatologicamente ci liberano (dovrebbero liberarci) dalla paura della morte e dall’altro ci indicano nell’invincibile volontà degli dei la causa delle sciagure umane.
In questa ricostruzione – presa nella sua formulazione assoluta – si saldano insieme destino individuale e destino della città.
La sentenza attribuita a Marx (La religione oppio dei popoli) vuole essere – associata alla sua dottrina politica – una risposta egualmente totalizzante ancor che dislocata nello spazio/ tempo del secolo.
Marx non si preoccupa – mi pare – della paura della morte come evento distruttivo dell’identità personale e della sua sopravvivenza come anima e nell’anima. Padre e figlio del nostro tempo, da un lato sottolinea idealmente l’indifferenza della divinità verso le sorti della CITTA’ DEGLI UOMINI e dall’altro sottolinea la cogenza di ribaltare l’andamento della società, di fare i proletari ( come gli eterni sottomessi della Storia ) l’elemento portante del rinnovamento di questa secondo i principi dell’eguaglianza. In questo a me appare come l’ultimo se non uno degli ultimi umanisti. Per certi versi può essere catalogato tra i teologi senza dio che hanno affollato il nostro secolo, sottolineando come dio non si sia mai mosso – nonostante le promesse dei profeti – nella duplice funzione di punire i prevaricatori e premiare i giusti. Resta dunque – in questa direzione – il compito dell’uomo quale artefice della Storia. Recenti studi sembrano dare maggior risalto a Marx nello sviluppo del suo pensiero piuttosto che a Marx ingessato nella dottrina del marxismo.
6.
C’è molto sconforto in queste osservazioni, anche se non dobbiamo dimenticare come si sia verificato nel corso dell’ultimo secolo un salutare scossone a favore dei più emarginati nelle condizioni di vita. Penso ai movimenti socialisti che hanno fatto seguito alla c.d rivoluzione industriale e all’innalzamento complessivo del tenore di vita e del raggiungimento di un certo grado di eguaglianza sostanziale seguiti a tale pensiero politico. Dico, pragmaticamente, che se ciò è stato possibile (e chi lo contesta ha l’onere di provare l’esistenza di soluzioni diverse), potrà esserlo anche in futuro.
Paradossalmente gli stessi fenomeni migratori e simili – paventati da molti come l’inizio della fine – potrebbero salutarmente “costringerci“ nella loro ineluttabilità (nella quale credo) a elaborare altri schemi di ragionamento politico e attraverso questi ad ideare altri modelli di aggregazione e di soluzione dei relativi conflitti. Vi è – penso – una continua interazione tra attività umana produttive di fenomeni storici e tali fenomeni come produttori di nuovi schemi di ragionamento politico. In questo senso può l’utopia riconquista il suo valore di ricerca costante di un vivibile orizzonte umano.