di Roberto Bugliani
Ecco il secondo racconto della raccolta “Un’occhiata fuori” di Roberto Bugliani . Parla della ascesa e caduta di un certo Felice Cavaliere. A voi la ricerca di tutte le allegorie che riuscite a ricavarne. [E. A.]
Fin dalla fanciullezza il destino di Felice Cavaliere era inesorabilmente iscritto nel suo nome. Alla scuola elementare i compagni facevano a gara a canzonarlo per ogni sua azione maldestra, da imbranato cronico qual era, gridandogli burleschi: «Ma datti all’ippica!»
Anche i professori delle superiori, quando sbagliava asinescamente il teorema di Pitagora, o confondeva clamorosamente i Borboni con i Savoia, o andava bellamente fuori dal seminato nello svolgimento del compito in classe d’italiano, lo redarguivano stizziti: «Ma datti all’ippica!»
All’università, il giorno di discussione delle sua laurea breve in “Scienze della comunicazione”, dal titolo “Comunicazione e mass-media”, dopo aver caracollato come un ronzino malconcio sugli impervi viottoli di Vance Packard, Marshall MCLuhan e Joshua Meyrowitz, incespicando dolorosamente su Walter Ong e Philippe Breton (delle ripetute scappucciate su Erving Goffman nemmeno a parlarne), il relatore, guardandolo con aria severa e crollando fastidiosamente la testa, gli aveva suggerito: «Guardi, con quel cognome è meglio che si dia all’ippica».
A furia di sentirselo dire, Felice Cavaliere era cresciuto con quegli ectoplasmi cavallini a pascolare nel cervello e, non avendo il fisico da fantino, ma potendo tutt’al più paragonare il suo corpo tozzo e massiccio a quello d’un buttafuori di night, ciò che le anime semplici chiamano destino e che fa da guida al nostro ciondolare nel mondo lo incamminò, al termine d’una serie di lavori precari uno più disastroso dell’altro a causa della sua totale inadeguatezza, sulla strada delle scommesse, le quali non potevano che riguardare le corse dei cavalli. Da scommettitore incallito qual era diventato, ogni domenica che San Varenne mandava sulla terra Felice Cavaliere si presentava nell’ippodromo prescelto con un unico sogno a rodergli l’animo: sbancare la sala corse, e con quei soldi metter su un allevamento di cavalli.
E da Agnano a San Siro, dalle Cascine alle Capannelle, da Stupinigi al Paolo VI, da Sesana alla Favorita, non esisteva ippodromo in cui non avesse lasciato qualche pezzettino della sua sudicia speranza, rimbalzando da uno all’altro con la sua sempre più asmatica fiat 128 coupé e un fascio di banconote nella tasca che s’assottigliava sempre più ogni volta che rientrava a casa con le pive nel sacco. Il denaro proveniva dalla vendita d’un appartamento signorile in pieno centro storico cittadino ricevuto in eredità dalla madre, morta di crepacuore per quel figliolo scriteriato alla mercé di ronzini malconci e di bookmaker senza scrupoli.
Dalla deriva d’una sfiga monumentale Felice Cavaliere credette d’uscire una domenica mattina quando, nell’ippodromo pisano di San Rossore, mise a segno il colpo memorabile della sua vita. Aveva puntato su un certo Rainbow che veniva dato 18 a 1. Quel rapporto voleva dire che per gli allibratori vincere era così facile come rubare le caramelle a un bambino. Forse influenzato dal colore del mantello di Rainbow, un nero tizzone che somigliava al colore del suo cuore bruciato dai falò delle vita, o forse dal numero 7 che il cavallo recava stampigliato sulla gualdrappa celeste, il suo numero preferito, Felice Cavaliere scommise sull’animale tutto quello che aveva in tasca, ossia trecentocinquantamila lire tonde tonde. E Rainbow fu il primo dei tre miracoli che quella domenica d’aprile toscana teneva in serbo per lui.
La seconda ispirazione gli venne al vedere Flor de Oriente, una cavalla di razza garbine che nelle ultime corse si era ostinata a fallire tutti i piazzamenti, e che i bookmakers consideravano oramai buona solo per gli hamburger di qualche grande catena di fast food, dandola 22 a 1. Flor aveva lo stesso nome, lo stesso color caffé appena tostato e lo stesso sguardo da cerbiatta ferita della sua vecchia fiamma, la ragazza colombiana di Pereira conosciuta in un appartamento di Firenze dov’era andato a rilassarsi dopo una stramaledetta domenica di scommesse andate a puttane. Cosicché non gli restò che conformarsi all’imperativo di quella giornata di merda ma, anziché dare la solita botta e via, restò intrappolato negli occhi assassini della ragazza che gli venne ad aprire la porta con un sorriso sincero, avvolta in un asciugamano rosa che le fasciava come un abbraccio le curve morbide e piene del corpo e con i capelli lisci sciolti sulle spalle ancora umidi per la doccia.
La storia con Flor durò un’intera stagione, e sull’altare di quell’estate infuocata egli immolò la sua passione in disordine come il letto perennemente disfatto della donna e incistata nelle sistole e diastole del suo cuore che fino ad allora aveva creduto buono solo a pompare il sangue torpido e apatico che lo teneva in vita, sacrificandovi l’ultimo collier d’oro massiccio e gli ultimi anelli con brillanti e smeraldi del tesoretto materno.
Con l’inizio delle piogge di settembre Flor se ne andò una sera che un’acquata torrenziale lo aveva inzuppato come un pulcino mentre l’aveva attesa invano inchiodato da un’oscura angoscia davanti all’entrata del ristorante dove si erano dati appuntamento. Protetta dalla grigia cortina dell’acqua che lo sguardo smarrito di lui non riuscì a perforare, Flor sparì dalla città e dalla sua vita cancellando accuratamente le tracce, ossia cambiando cellulare e probabilmente accompagnatore, come gli confidò Juana, l’amica venezuelana che si alternava con lei nel monolocale dove, con la morte nel cuore e lampi d’ansia feroce negli occhi, lui s’era recato il giorno successivo per non impazzire.
Assediato da quei ricordi improvvisi che bussavano insistenti al suo animo incartapecorito, Felice Cavaliere decise d’affidare la sua vita alla quotazione che gli ammiccava dalla lavagnetta del bookmaker e uscì dal chiosco con stretta nella mano la sua puntata temeraria e le labbra stirate in un sorrisetto sbarazzino da monello reduce dall’averla fatta grossa, che si trasformò in una pirotecnia di risate selvagge miste a lacrime da furfante non appena il tabellone s’illuminò coi risultati della corsa.
La terza vincita lo lasciò imbambolato ad annaspare in un oceano di felicità. Stavolta il cavallo portava impresso sulla gualdrappa verde il numero 5, lo stesso numero che aveva il brocco della settimana precedente su cui aveva scommesso, e perso, fino all’ultima lira. Fu per questa sorta di scaramanzia al rovescio che Felice Cavaliere puntò l’intera vincita su Xavier, un axworthy di quindici anni senza carriera e senza stagioni. Ma quando vide il grigio dai peli vinosi e dall’aria stranita, come fosse capitato lì per caso, che avrebbe corso nella stessa batteria, avvertì in lui qualcosa dell’arabo, la cui geometrica perfezione era alla base di trottatori e purosangue, e ciò gli fu sufficiente per decidere un nuovo azzardo: giocarsi l’accoppiata, che avrebbe fatto aumentare in misura vertiginosa la sua quota in caso di vincita. «O la va o la spacca!», mormorò resoluto al biondo marcantonio di bookmaker che lo fissò in modo strano prima di accettare la puntata, e anche lui gli destinò un’occhiata incuriosita, perché non l’aveva mai notato nel gruppetto degli allibratori locali.
E vinse Felice Cavaliere, vinse un sacco, una vagonata, un fiume, una montagna di soldi.
All’uscita dall’ippodromo, mentre ali ubriache dalla gioia lo sospendevano su una savana di teste immerse nei loro crucci quotidiani, si imbatté in un cioccolatino dagli occhi eccessivamente bistrati nel tentativo di vanificare l’assedio delle prime zampe di gallina all’angolo della fronte, che non tardò a riconoscere. E con un tuffo al cuore già in caduta libera nell’allegria senza limiti del pomeriggio esclamò: «Flor!» La donna gli sorrise di un sorriso vero, lo stesso identico sorriso con cui gli aveva aperto la porta un secolo fa, e nell’esaltazione di quel giorno stregatonon provò nemmeno a domandarle: «Ma tu che cosa ci fai qui?», perché sapeva che l’incredibile ne costituiva l’ossatura centrale. L’incredibile faceva oramai parte della sua esistenza, e la sua esistenza si proiettava nel fotoromanzo d’una fattoria immersa nel verde di pinete e prati, con stalle e maneggio e, perché no?, circondata dal sorriso sincero di quel viso color caffé in cui brillavano occhi di cerbiatta felice.
Il ristorante più esclusivo della città li accolse con un tripudio di ostriche francesi e di branzini nostrani, con una cascata di Veuve Cliquot millesimati, con un firmamento di squisiti dolci della casa e un torrente impetuoso di ron añejo, mentre lui stringeva con trasporto la mano di Flor, ripetendo al ritmo del vallenato preferito dalla ragazza: «Ho vinto, amor mio, ho vinto! sono ricco!». Terminata la cena, e scambiandosi un digestivo di moine scherzose e baci frementi, si inoltrarono a braccetto in un dedalo di viuzze malamente illuminate dietro la stazione centrale. A passo deciso Flor lo guidò con la sua bussola di risate croccanti e moine sdolcinate fino a un monolocale situato al pianterreno d’una palazzina finto liberty, così angusto che una barbie avrebbe avuto difficoltà nel muoversi e dove un letto a due piazze con la sua mole mastodontica e invitante ne occupava quasi del tutto lo spazio.
Immaginandosi il fantino che non era mai stato, mentre stava cavalcando all’impazzata la sua puledra baia che sbatteva da una parte e dall’altra la faccia sul cuscino come un’ossessa e gli singhiozzava alle orecchie una cantilena di gemiti veri come il suo sorriso, gli sembrò di avvertire alle spalle, in direzione della porta d’ingresso, uno scatto metallico come di serratura che veniva aperta. Ma si trovava oramai lanciato su filo del traguardo, così non diede importanza a quello strano rumore. «Chi mai può entrare a quest’ora in casa della mia Flor?», farfugliò nella mente già resa opaca dalle sinuose avvisaglie del piacere.
Tutto d’un tratto Flor lo disarcionò. Inarcò imbizzita la schiena, buttò potentemente verso l’alto il bacino puntellandosi sui talloni e con un energico movimento del pube lo respinse in avanti ritraendosi prontamente e guizzando libera di lato, mentre l’incredulità di Felice Cavaliere finì a faccia in giù sul cuscino. Non fece a tempo a tirar fuori dalla strozza scombussolata un «perché?» o un «cristosanto!», che un’aspra voce maschile lo sovrastò, intimandogli: «Fuori i soldi, stronzo!». Nel girarsi ancora istupidito per il repentino mutamento di scena, scorse la faccia da tagliagola del marcantonio biondo dell’ippodromo contratta in un ghigno, mentre la mano stringeva un rasoio sulla cui affilatezza non gli sembrò il caso di dubitare. Del resto, come poteva rifiutarsi di obbedire sotto la minaccia del rasoio puntato anziché alla gola verso altre parti, ancor più preziose, del corpo? Tremante dalla rabbia e nudo come una biscia consegnò la borsa dei soldi all’energumeno biondo, quindi, più frastornato di quando aveva riscosso i milioni della vincita e sempre sotto la minaccia del rasoio, si rivestì alla bell’e meglio e si precipitò fuori dall’appartamento inseguito dalla risata beffarda di Flor, che gli parve più vera del suo sorriso vero.
Nei giorni che seguirono alla sua duplice disgrazia Felice Cavaliere meditò di farla finita, progettando di gettarsi dal balcone del suo appartamento al quarto piano, oppure di farsi travolgere dal rapido per Roma delle 8.45, ma fu solo nel momento in cui aprì lo stipetto del bagno alla ricerca di un rotolo di carta igienica che la sua faccia da funerale si trovò a tu per tu con la boccetta dei sonniferi. Allora, d’impulso, decise di ingoiarne l’intero contenuto.
Dapprima un vicino che aveva udito le sue scomposte ma tempestive grida di aiuto, quindi il medico di guardia del pronto soccorso lo tirarono fuori dal tunnel nel quale all’ultimo momento s’era pentito di entrare. Quando venne dimesso dall’ospedale, con la salute recuperata e il portafogli più anoressico d’una adolescente in piena crisi esistenziale, Felice Cavaliere si mise alla ricerca d’un impiego purchessia che gli consentisse di sopravvivere in quel mondo senza coordinate, e dopo nemmeno un mese si ritrovò a fare lo stalliere nella tenuta di un marchese veneto dal nome di Nearco Cavallini.