di Roberto Bugliani
Questo è il terzo racconto della raccolta “Un’occhiata fuori” di Roberto Bugliani [E. A]
Non ricordo più la ragione che m’aveva spinto in mezzo a quel corteo a unire la mia voce impulcinata ai timbri possenti e tosti delle altre che sgolavano “Vietnam rosso” facendo infuriare a bella posta i militanti del Pci – che a “rosso” preferivano il liberale “libero”, come il mercato provvide in seguito a dimostrare. E ancora “Operai, studenti, uniti nella lotta”, che sanciva l’ideale di classe d’un binomio invero senza tanto costrutto, che la storia non ci mise molto a rottamare, o il must “Fascisti, borghesi, ancora pochi mesi”, che di mesi invece ne passarono un fottio tanto che si dovette aspettare l’esaurimento naturale del ciclo storico che originò il connubio prima di dire “quattro!” e con le pive nel sacco. Ma a tutt’oggi rammento
benissimo le facce incarognite dei questurini a dar giù di manganello su quel selciato di teste chine e schiene ricurve con le chiappe incollate all’asfalto, e noi a ripararci i crani con le mani fragili come foglie, il cui “trascurabile risultato” – come i giornali padronali dicevano – verrà di lì a poco confermato dal medico del pronto soccorso. E in quel frangente ecco che sento due artigli arpionarmi il colletto del giubbotto mentre urla e grida e rabbia e paura scompigliano le fila degli estremisti figli-di-papà che fanno il gioco della destra seminando disordine e zizzania nelle città laboriose, come le colonne di piombo dell’Unità sostennero il giorno successivo sobillando i fedeli-alla-linea che a maniche rimboccate si guardavano attorno con occhi pieni di fiele alla ricerca dei novelli untori, mentre un odio secco crepitava nelle loro bocche macerate dal disprezzo: Ma cosa vogliono ‘sti quattro stronzi di studenti, che vadano a lavorare, piuttosto! E intanto: no-more-land westmoreland, che era all’epoca il nome del comandante in capo dei macellai, il più gettonato nel dispregio e nei calembour del movimento, a echeggiarmi nelle orecchie proprio nel momento in cui dieci dita mi s’incuneano come lame sotto le ascelle e una mano guantata di nero m’impugna i capelli per trascinarmi via, e restate al vostro posto compagni complementato da un porchidddio di dolore lancinante uscito dalla stessa, anonima bocca, sono le ultime parole che riesco a udire prima di venir sbattuto dentro al furgone parcheggiato sul lato opposto della strada: Eccovene un altro da tenere in caldo! annuncia ridente il pulotto che mi ha strattonato fin lì richiudendo la portiera, e nella poca luce che filtra dai vetri sudici protetti da griglie metalliche facendomela sotto scorgo le facce congelate in una smorfia feroce di due angeli custodi, e uno, un mingherlino dall’espressione neandertaliana, mi guarda maligno mentre me ne sto accucciato sul bordo di quell’abisso di sconforto: Ti consiglio di fare il bravo, altrimenti… sollevando la clava d’ordinanza e chissà da quale bugigattolo della mente associativa m’aggalla la domanda idiota del profe di francese che nell’aula magna della Normale s’era messo in testa di sbertucciare il conferenziere giunto d’oltralpe a recare la buona novella strutturalista, e nella pomposità della sua mise accademica aveva dato fiato al suo intento provocatorio: Ma l’espressione un coup de matraque fa davvero male? al Todorov basito per cotanta coglionaggine, e un singulto corto e lieve come per non disturbare m’avverte che non sono solo nel furgone delle espiazioni, e accasciato sul sedile alla mia sinistra nella penombra vedo un giovane dalla barbetta rada e riccia e gli occhialini con montatura metallica da studioso della Torah, vedo il rivolo di sangue che gli cola dall’orecchio sinistro e il fazzoletto di lino a tamponare la ferita, vedo una lente degli occhialini divisa da una venatura, e non voglio vedere altro, non il maglione smollato, non l’attaccatura della manica sinistra della giacca di velluto strappata, non le ecchimosi rosso-blu sulle gambe sotto la stoffa jeans dei calzoni, e un gemito fioco come un sospiro mi saluta, e il compare del troglodita, uno scimmione che gli fa da pendant: Bisogna fargliela capire a ‘sti caghetta che devono mettere la testa a posto, e il troglodita di rimando: La testa a posto gliela rimetteranno all’ospedale a son di punti, e io sobbalzando perché la portiera del furgone s’è aperta di colpo, e buttata dentro come un sacco appare una biondina slavata e implorante, Lasciatemi andare, lasciatemi andare, ve ne prego, e lo scimmione e il troglodita scambiandosi un sorriso sornione, fingendo di continuare a chiacchierare fra loro, e la biondina slavata ancora in piedi, i capelli a sfiorare il tetto rialzato del furgone, il capo chino in una postura di contrizione, la voce sottile incrinata dall’angoscia: Lasciatemi andare, vi scongiuro, non ho fatto niente, e il cavernicolo lisciando ispirato il manganello come la coscia d’una donna: Conosco un modo per farti star buona, magari poi mi ringrazierai anche, e lei terrorizzata capendo l’antifona s’inginocchia: Per pietà, lasciatemi andare, vi giuro che non ho fatto nulla di male, e lo scimmione al troglodita: Da quant’è che non ti ripassi una bionda? e quello: Chissà se è proprio bionda bionda sotto, bisognerebbe verificare, e lo studente sanguinante scantandosi dal suo mutismo e allungando una mano a carezzarle i lunghi capelli in disordine, come a rimettere ordine nel suo animo sconvolto: Calmati, non aver paura, non ti succederà niente, e il troglodita dando di gomito al compare: Sbaglio, o il bamboccio se la vorrebbe scopare? e l’altro sghignazzando: Chi? il frocetto? e lei, seguitando nella preghiera: Fatemi andare a casa, fatemi andare a casa, e lo scimmione sporgendosi verso di lei e mollandole una sberla: Adesso m’hai proprio rotto il cazzo, troietta, e lei senza scoppiare a piangere, senza reagire, con un soprassalto d’orgoglio che stupisce anche lo scimmione, rialzandosi e andandosi a sedere accanto allo studente sanguinante: Ci lasceranno andare a casa, vero?, e lui, con il coraggio pietoso della condivisione: Sì, sì, stai tranquilla, vedrai, tra poco sarà tutto finito, e lei con un sospiro di rassegnazione appoggia fiduciosa il viso sulla spalla di lui, e all’improvviso la portiera del furgone s’apre di nuovo, e d’istinto, con uno scatto che sorprende me per primo, mi fiondo giù, la testa incassata nelle spalle come un ciclista allo sprint, il busto e le braccia slanciati in avanti come un centometrista a tagliare il traguardo, o come dir si voglia, tanto nessun paragone agonistico può dar conto dei miei movimenti scomposti e frenetici, do uno spintone al poliziotto della Digos che ha appena aperto la portiera, Ehi, ma che cazzo… lui non se l’aspetta proprio la mia mossa disperata, Bastardo! torna qui! nemmeno i due dentro se l’aspettano, e quello traballa disorientato puntellandosi con le gambe per non perdere l’equilibrio, e questi protendono il busto in avanti allungando tardivamente le braccia con le mani ad artigliare l’aria, e io dribblo corpi che avanzano verso di me, e guizzo come un’anguilla tra occhi sgranati e bocche spalancate come fauci, e me la filo il più velocemente possibile scivolando tra la disapprovazione dei bottegai e il tifo dei compagni che assistono alla scena, e dopo un attimo di smarrimento i poliziotti riprendono il controllo della situazione, il terzo spinge dentro lo studente che malgrado lo scompiglio non aveva mai smesso di tenere fermo storzandogli il braccio dietro la schiena, non mi volto a vedere la scena però so che va esattamente così: i due del furgone balzano in piedi e stoppano il tardivo tentativo di fuga dei fermati brinchiandoli per le spalle e immobilizzandoli con una stretta alla gola, la biondina si divincola senza successo, pigola qualcosa, lo studente sanguinante sta zitto, sa che è inutile, che comunque lo porteranno in questura, lo schederanno, lo sbeffeggeranno un po’ per umiliarlo, e per finire gli faranno una solenne lavata di capo, la solita psicologia d’accatto, e il vice-questore spaparazzato sulla poltroncina girevole dietro la scrivania ingombra di scartoffie, in tono conciliante ma minaccioso: Ascoltami bene figliolo, voglio darti un’opportunità, per ora non ti trattengo, e nemmeno avviserò la tua famiglia del fermo, ma sta’ attento, la prossima volta non ti andrà così di lusso, corteo e sit-in non autorizzati, disturbo della quiete pubblica, intralcio al traffico veicolare, ce n’è abbastanza per un mandato di comparizione, perciò all’occhio, stai alla larga da quei sovversivi che vi usano, te e tutti gli ingenui come te, e rispetta le leggi da buon cittadino, ma col poliziotto che lo scaraventa sul sedile, e gli soffia in faccia il suo alito puzzolente: Figlio di puttana, te la volevi svignare, eh? non è più sicuro di nulla, e dinanzi agli occhi gli si spalanca un buco nero che rischia di risucchiarlo a sé, e nel frattempo l’altro richiude la portiera del furgone e si volta verso la ragazza caduta lunga distesa sul pianale, la sovrasta, e lo studente appena fermato si mette a urlare, e anche l’altro urla, e adesso urlano tutti, e io continuo a correre, a correre, a correre, zigzagando per i caruggi della città vecchia sotto la luce giallastra dei lampioni, sottraendo per un attimo gli sguardi dei passanti puntati sulla mia faccia stravolta alla loro meccanica indifferenza, inghiottendo sorsate d’aria fredda che arrivano ai polmoni con effervescenze di libertà, e continuavo a correre come un forsennato, a scappare, a fuggire via dalla nebbia che si addensava fitta e stantia su quella sera di fine autunno, fuggire in un empito di volo dal malessere sordo incistato nell’animo che mi riempiva di cemento le scarpe e mi faceva inciampare sulle mute suppliche di chi non ce l’aveva fatta, fuggire da quella fuga che mi s’è appiccicata addosso come una colpa fino a questa mia sera come tante altre, come troppe altre, ma in cui il presente s’è fermato ad aspettare il passato.