di Arnaldo Éderle
Non so che mi succede
cosa dovrei fare, come dovrei
comportarmi in questi tristi
sentieri, forse non dovrei fare
proprio niente, forse
dovrei stare silente e fermo
nella mia positura,
forse dovrei cancellare ogni idea
ogni proposito ogni scatto ogni
stranezza e riposare con gli occhi
chiusi, forse dormire e sognare.
Quanti e quanti si troveranno nella mia
orribile situazione, quanti!
Io davvero non ne posso quasi più.
Ma no! forse non è così, forse
non è proprio così, forse è una
situazione di mero transito di mera
confusione di transito da un
buco stretto, ci passerò a stento,
per questo non riesco a transitare
e ciò mi angustia.
Ahi, come farò a passare dall’altra parte,
mi proverò a passare di spalla,
gli altri passano a quattro zampe,
passerò anch’io.
Ecco la mia angusta situazione!
Chi chiamerò a soccorrermi? Non chiamerò
nessuno. Ecco proprio nessuno. Me ne starò
lì, accovacciato e impotente finché la fata,
la mia fata, non mi prenderà sotto un’ascella
e mi tirerà su finché non starò in piedi
e girerò la testa di qua e di la
e non troverò il mio magnifico equilibrio.
Sì, proprio così, non spenderò un grammo
delle mie possibilità fisiche non un’oncia
della mia volontà per raddrizzare le mie gambe
in fastidiosa posizione e rimetterle diritte
per riguadagnare la mia statura.
Ahimè ahimè, le mie povere ginocchia
si flettono, non reggono
ahimè, non sto più dritto, non più.
Come faranno gli altri?
Non so. Mi prenderò una vacanza?
Chissà, starò così e basta.
Ma no, che dico? Non sarò più me stesso?
No. Non voglio!
A sgambettare sgambettare, mi trovo
in un grande prato con diffuso cielo,
in cima a un colle di svariata natura,
con filiformi alberi verdi e arancione
spiccanti dalla terra e ondeggianti
le loro corone come innumerevoli ventagli
che navigano in svariate acque e aranci,
vivi e grandi svolazzanti papaveri.
Rosseggiano le loro mobili teste
nell’aria colorata e gridano la loro gioia
solcati dai miei passi allegri e svelti
come festuche inebriate e gaie come
svelte testoline nell’aria tenue
primaverile. Nubi bianche le sovrastano
e quasi stridule s’accoppiano a bulbi
di vento leggero e caldo.
Che sarà questo paradiso? E questo battere
di tamburi e pastosi corni come in una
sinfonia? Cosa diranno ai tronchi
di molli alberi che in concerto si fanno
accarezzare da questa musica?
Chi avrà occupato gli strumenti terrestri
in quest’aria mai udita?
Che cosa avrà utilizzato la terra per svegliare
questo diapason?
Non lo sappiamo. Ma è vero che la sinfonia
esiste e si sprigiona dalla terra
dalla magica terra e che gli uomini
devono udirla.
Si smorzerà piano piano e l’aria la coprirà,
tornerà l’illustre silenzio e i miei piedi
rimbalzeranno sul sentiero
in cerca d’un altro paese.
Non lo conosco quest’altro paese,
ma vi andrò ugualmente, chissà cosa
mi apparirà alla vista, certo
non ranocchi saltellanti, non viscide serpi
non tremendi tori pronti a caricarmi,
tutto sarà pacifico
come in un’arena di piacere e conforto.
Sì, sarò del tutto vuoto, senza un briciolo
d’ansia o di buia tristezza.
Penso che sarà un paese virtuoso,
un paese sereno e acquietante,
un paese senza grani di cattiveria.
O di bizzarre realtà.
Che accadrà nell’altro emisfero
nel frattempo?
Bocche aperte nei soliti gridi nelle
solite imprecazioni spinte alle massime offese
sguaiate e sporche e piene d’odio
piene della solita acredine delle solite
imprecazioni delle solite bestemmie!
Ma io me ne starò quieto e ancora
invocante la mia buona fata che mi ha salvato
e mi salverà. Ne sono sicuro.
Sono molto fiducioso e molto deferente,
grato del suo interessamento
della sua bontà verso la mia bontà
che risiede sotto la mia pelle paurosa
e tremante, sotto i miei poveri fori
incisi dalla mala fortuna, aperti sotto
la pelle, piaghe irriducibili
dove il cuore e altri organi piangono
la loro salute.
Ma non mi lascerò tormentare da queste paure,
non mi lascerò intimidire da queste
impietose e sibilanti prefiche,
vivrò come vivono gli angeli peccatori
con il capo chino e la preghiera sulle labbra,
evitando che il male mi colpisca troppo
o troppo poco e farò transitare
il suo brutto percorso per altre vie.
Sì, questo farò e tenterò la mia sorte
con le braccia alzate e la bocca
rivolta alla mia cara fata
alla mia angela perché mi redima
e mi lasci in questa terra benedetta
in questo eden puro e pietoso
con i suoi benefici baci e le sue lisce
carezze.
Ecco, volgerò a loro la mia casta volontà,
lontano dai tristissimi giganti
prossimi sempre alle distruzioni delle anime
e all’edificazione dei loro maledetti
palazzi, avidi di anime doloranti
e di tremanti cuori, a loro, intrisi di rancori
e di strisce nere prossime alla morte.
La situazione è di distretta.
Il problema è un transito. Che ha in sé due aspetti: è un mero transito, oppure è la mera confusione intorno al transito.
Questa si può affrontare di spalla -arditamente- o si transita carponi, passivamente trainati.
La fata è il fato (sono anche le Parche), è il fari, il femì, è il dire e pronunciare il destino con le risorse della fantasia e della cultura immaginaria.
Quindi transiterò con la fata, scrive Ederle, in un paradiso arancione, che è un colore carnoso e soffice, con sbuffi aerei “bulbi/di vento” ossimoro di spirituale consistenza.
Oppure in un paradiso più quieto e senza emozioni, serenità senza corpo.
Dall’altra parte resta l’odio dei giganti della Teogonia di Esiodo ossia l’affanno dei corpi.
Ma la bontà della fata individua la bontà interna ai corpi deteriorabili e feriti.
Si vuole dire che il transito è comunque solo pensato e scritto.
Spero, caro Arnaldo, di avere rilevato il tuo radicamento in poesia, della quale qui credo vuoi segnalare anche il registro musicale, la doppia stesura mi appare prima polifonica poi monodica.
Mi scuso. La “doppia stesura”, cui accenna Cristiana Fischer, era dovuta solo ad un errore tecnico che ora ho corretto.
un bell’arrampicarmi sugli specchi…
A proposito di specchi. Filastrocca (quasi surrealista e di difficile interpretazione) che m’insegnarono le mie cugine salernitane:
Nce steve na vota
nu viecche e na vecchia
Stevene e case
‘ncopp’ a nu specchie
e o specchie se ne carette
e a vecchia se ne fuiette.
Su wikipedia trovo solo questa versione (meno tragica, almeno per il vecchio) che un po’ s’avvicina:
Nce steva na vota
‘nu viecchio e na vecchia,
ncopp’â nu monte,
sott’â nu specchio,
sott’â nu specchio
ncopp’â nu monte,
aspettame lloco ca mo’ te lo conto…
e lo specchio cadde? (se ne carette)
Sì lo specchio (una sorta di Titanic d’epoca premoderna?) cadde e soltanto la vecchia riuscì a fuggire. Pare di capire che il vecchio ci sia rimasto sotto. Almeno così interpreto io.
In cima a un monte o in cima a uno specchio (=dentro uno specchio situato più in alto rispetto a loro): la coppia si riflette nel simbolico matrimoniale. Che si rompe nella prima filastrocca, ed è la donna che trova la libertà; oppure si bilancia e si regge nella simmetria opposta della doppia coppia di versi, e dura. Non mi pare difficile da interpretare.
Se il vecchio non conta, ma non si dice che resti sotto, è perché il matrimonio è un matris munus cui corrisponde da sempre il patrimonio. Oplà!
“…transito da un/buco stretto…”: vedi la morte e la vita equiparati, con una fata o angiola, quale presenza soccorritrice femminile…E molti “forse” nell’immaginare, attraverso il fatidico transito, il ritorno ciclico all’età dell’infanzia, che restituisce l’uso degli arti sgambettanti, i colori della della natura e della vita, l’armonia musicale che la terra sprigiona…Come nelle fiabe, di là la vita incorrotta e felice, dall’altra parte, cioè di qua ” … tristissimi giganti/ prossimi sempre alle distruzioni delle anime…”. Questo è ottimismo o pessimismo? D’altra parte i “dialoghi al buio” hanno ogni lasciapassare…