di Lidia Are Caverni
Mauro, cinque anni compiuti da poco, stava seduto sulle ginocchia del padre e insieme guardavano un libro di animali della savana, regalo della nonna proprio per il suo compleanno.
Era un ricciolino bruno e vivace.
Non sapeva ancora leggere e ascoltava il papà che invece leggeva le didascalie sotto le illustrazioni degli animali. A Mauro piacevano immensamente e poneva centomila domande:
“Ma si trovano da noi? Li possiamo vedere in montagna?” Chiedeva.
“No, si trovano in Africa” rispondeva il padre.
Leoni, elefanti, gazzelle, coccodrilli, giraffe. Ecco! Le giraffe gli piacevano più di tutti, in un’illustrazione che ne mostrava una a busto, il muso umido e dolce, gli occhi grandi cigliati.
“E non si possono vedere?” Continuava a chiedere.
“Puoi vederle alla televisione, in qualche documentario” rispose il padre.
“Lo so, ma io vorrei vederle vere” insisteva il bambino
Il padre si grattò la testa:
“Bisognerebbe andare in uno zoo, ce n’è uno sui Colli Euganei”
Immediatamente Mauro saltò su:
“Mi ci porti papà?” Supplicando.
Il padre, ecologista convinto odiava zoo, circhi, gabbie e tutto ciò che può strappare un animale dal suo habitat e farlo prigioniero.
Per cui rispose distratto:
“Quando cantano i merli.”
Mauro conosceva i merli, li vedeva nel cortile di casa che dava su un vasto parco a prato dove si ergevano alberi alti e cespugli e bacchettavano i merli.
Era gennaio e i merli avevano le piume gonfie per il freddo che li facevano apparire più grassi e tondi.
Incominciò ad ascoltare per sentirli cantare, ma sentiva il verso del pettirosso sceso dalla montagna, col suo tintinnio come di vetro spezzato. Dicevano il gelo, ma i merli no, non cantavano.
“Quando canteranno i merli, papà?” Chiedeva quasi tutti i giorni il bambino che non stava più nella pelle per l’attesa.
“Presto, presto canteranno” rispondeva il padre che si era già pentito della promessa.
Sperava che il figlio se ne dimenticasse.
Per accontentarlo almeno in parte comprò un filmino sugli animali della savana e glielo fece vedere una sera, prima di andare a letto.
Mauro lo guardò, ma non era soddisfatto e continuò con la solita tiritera.
“Cos’è questa storia del merlo e dello zoo?” Mauro ne parla persino con i suoi compagni all’asilo” intervenne la mamma che aveva colto spezzoni di frasi.
“Niente, niente. È che mi toccherà portarlo allo zoo dei Colli Euganei” disse il marito.
“E tu non ne hai nessuna voglia” rise la moglie che non sapeva chi fra marito e figlio fosse più bambino.
L’uomo si strinse nelle spalle contrito, oltre tutto gli dispiaceva che il figlio andasse in giro a dirlo ai compagni che chiedevano:
“Quando ci vai allo zoo?”
“Quando canta il merlo” rispondeva Mauro e gli altri lo prendevano in giro trattandolo da allocco.
Per distrarlo lo portarono qualche giorno in montagna a sciare.
Mauro si muoveva bene sulle tavole nei brevi tratti a pendio sin da quando era più piccolo. Si divertiva con il papà e con la mamma.
Dopo aver sciato, nel pomeriggio, prima di buio facevano passeggiate nel bosco.
Un giorno in un prato fresco di neve fecero un pupazzo.
Ci lavorarono tutti e tre: chi faceva il corpo, chi la testa, chi cercava le pigne piccole e tonde per gli occhi. Più brava di tutti fu la mamma che il giorno seguente portò un vecchio berretto rosso di lana e glielo posero sulla testa.
Fecero foto a non finire e insieme danzarono intorno all’omino tenendosi per mano.
Sembrava fatta, invece, una volta tornati a casa, Mauro si ricordò tutto. Solo non chiedeva più e non ne parlava.
La mamma si era raccomandata di non dire più niente a scuola per paura che lo prendessero in giro.
Ma Mauro anche se stava zitto ci pensava finché un giorno non ne poté più e chiese al papà:
“Ma quando cantano i merli?”
“Presto” borbottò il padre che sperava di non sentirselo più chiedere e temeva il momento in cui i merli avrebbero cantato sul serio e lui avrebbe dovuto mantenere la promessa.
Venne febbraio, a scuola ci fu un’epidemia di influenza e Mauro si ammalò.
La ebbe forte, con la febbre a quaranta.
La mamma con le cure di medicine gli metteva anche le pezze ghiacciate per far scendere la febbre.
“Passerà presto” diceva al marito che guardava preoccupato il figlioletto.
Invece non passò. Ci furono complicazioni broncopolmonari.
La febbre continuò per giorni e giorni.
Il medico, dopo averlo visitato per l’ennesima volta, disse:
“Se non cala la febbre, bisogno portarlo all’ospedale.”
I genitori erano angosciati.
La mamma non si alzava dal lato del letto e il papà quando tornava dal lavoro andava e veniva fuori e dentro la camera.
Non sopportava di vedere il figlio con il viso arrossato di febbre e gli occhi lucidi e lacrimosi.
Dovettero darsi il turno anche di notte.
Mauro respirava male, con gli occhi chiusi , continuava a dormire.
Poi si svegliò, la febbre era calata, il respiro tornato regolare.
Il papà gli teneva una mano quando il figlio incominciò a parlare:
“Senti, papà, cantano i merli.”
Il padre singhiozzò di gioia, di sollievo:
“Sì, sono i merli che cantano, preparano i nidi. E, aggiunse, andremo allo zoo a vedere le giraffe, tesoro mio.”
IL BRUTTO E IL BELLO
Era nato male, ultimo di otto figli, in una gravidanza fuori luogo e fuori tempo.
Aveva le gambe corte, con le braccia troppo lunghe che spesso teneva penzoloni lungo il corpo tozzo e sgraziato, la fronte bassa con i capelli ispidi e neri, le orecchie grandi che evidenziavano il viso magro col mento aguzzo.
Finché fu piccolo non si rese conto del suo aspetto, giocava con i fratelli e con gli altri bambini del paese che non gli badavano più di tanto, ma quando iniziò ad andare a scuola, i suoi compagni, istruiti da padri e madri, incominciarono a scansarlo deridendolo.
Tonino era sveglio e intelligente, si fece apprezzare dalle maestre e anche questo fu un motivo in più per essere respinto dagli altri bambini: mostro e cocco delle maestre. Era il colmo!
Finché una volta, all’uscita da scuola, avrà avuto otto nove anni, un gruppetto di ragazzetti lo spinse contro il muro picchiandolo a più non posso.
Lo salvò la madre che passava di là per le ultime spese.
Lo raccolse con il naso sanguinante e un labbro spaccato.
“Povero figlio mio “ mormorava la donna quasi piangendo.
Fecero la strada assieme, con la madre che teneva una mano sulla sua spalla, a proteggerlo da ulteriori percosse.
Quando furono a casa lo lavò, lo cambiò e mentre lo accudiva gli diceva:
“Tonino mio, non devi preoccuparti. Tu sei bravo, ti hanno picchiato perché sono invidiosi. Diventerai qualcuno da grande, un dottore, vedrai.”
Il bambino smise di piangere, ma da allora diventò scontroso, quasi non parlava più con i compagni e all’uscita scantonava andando dritto verso casa.
La maestra di Italiano mandò a chiamare la madre. Che cosa si potevano dire? La realtà era quella, potevano entrambe proteggerlo il più possibile e insegnargli a non guardare in faccia nessuno.
Tonino crebbe così, solitario.
Gli studi andavano bene, passò la terza media e in casa si parlò di fargli fare un liceo.
Poi forse l’Università, per diventare davvero dottore, chissà!
Il ragazzo imparò ad accettarsi, si vedeva com’era, inesorabilmente brutto, un rifiuto della natura.
Per fortuna crebbe in altezza e il barbiere del paese faceva miracoli con i suoi capelli, restii ad ogni piega.
Iniziò il Liceo Scientifico.
In famiglia lo amavano, erano modesti, i fratelli e le sorelle più grandi avevano imparato un mestiere, ma erano affettuosi con lui ed erano i suoi veri amici.
Arrivò il febbraio dei suoi quattordici anni.
Il liceo si trovava nella cittadina più vicina ed alcuni compagni lo invitarono a una festicciola.
Tonino si rese il più possibile presentabile, pettinò all’indietro il ciuffo, si lavò, si profumò tutto.
La madre, commossa, lo accompagnò alla porta:
“Divertiti, Tonino” e lo baciò con amore.
Era la prima volta che partecipava ad una festa.
Era in casa di una ragazza che non conosceva.
Suonò il campanello, gli aprirono e lo guardarono perplessi.
“Sono Tonino” disse il ragazzo.
Lo fecero entrare, la festa era incominciata, coppie già ballavano allacciate e circolavano vassoi di bibite e di rinfreschi vari.
Tonino mise gli occhi su una ragazza smilza, con i capelli biondi, ondulati sulle spalle.
Vedendola appartata, le si avvicinò:
“Mi chiamo Tonino, vuoi ballare?”
La ragazza lo guardò e scoppiò in una risata.
Tonino non capiva, poi, rosso come un papavero, scappò fuori dalla casa.
Aveva il cuore in tumulto, mai si era sentito così umiliato.
Prese il primo autobus che lo riportava in paese, ma non si diresse verso casa.
Oltrepassò il centro abitato ed entrò nel bosco.
Aveva bisogno di stare da solo.
Aveva voglia di piangere, non voleva vedere nessuno, nemmeno la madre che lo aveva salutato con amore.
Era una giornata chiara, gli alberi avevano le gemme pronte, prossime ad aprirsi.
Si inoltrò dove il bosco era più fitto e il sentiero saliva fin quasi alla montagna.
Camminò a lungo, stordito, con le lacrime che gli bagnavano gli occhi, senza accorgersi se i cespugli lo graffiavano e gli strappavano i vestiti.
Ad un tratto sentì un rumore, sussultò, ma subito trattenne la paura, che altro poteva succedergli?
Tra gli alberi intravide un animale: era un capriolo.
Si avvicinò cauto e fu vicino: era sdraiato su un fianco. Tonino guardò meglio, aveva una zampa ferita, probabilmente dal morso di una volpe a cui era sfuggito.
Era bello, struggente.
Tonino lo prese fra le braccia, si guardò attorno cercando un rifugio.
Poco più in là scorreva un ruscello di acqua limpida. Lo lavò accuratamente pulendo la ferita.
Il capriolo lasciava fare con gli occhi umidi e dolci, ma quando Tonino lo mise sulle zampe, subito si accasciò, non riusciva a camminare.
Tonino, con l’animale in braccio, si inoltrò nel bosco.
A un certo punto vide una baita interamente fatta di legno, disabitata.
Entrò e depose il suo fardello su un giaciglio di paglia.
Gli mormorava accarezzandogli il pelo:
“Tu sei bello e io sono brutto, ma siamo feriti tutti e due. Resterò con te finché non sarai guarito.”
Si strappò una manica e gli fasciò stretta la zampa.
Rimase due giorni nella baita senza mangiare e quasi senza dormire.
Per il capriolo strappò ciuffi d’erba e lo nutrì.
Rinforzato l’animale si resse sulle zampe e finalmente Tonino, stremato dalla mancanza di cibo, si addormentò abbracciato a lui.
Lo trovarono così mentre dormiva, i suoi fratelli.
Lo avevano cercato ovunque fino ad inoltrarsi nel bosco e giungere alla baita.
Ma Tonino non voleva abbandonare il capriolo, aveva ancora bisogno delle sue cure .
Li portarono a casa entrambi e Tonino lo rimise in sesto fino a completa guarigione.
Capitò in quei giorni, il veterinario che veniva a vedere una cavalla prossima a partorire.
“Hai fatto un ottimo lavoro, Tonino, vuoi assistermi con la cavalla?”
Il ragazzo acconsentì e provò una gioia immensa nel vedere il puledrino uscire dal ventre della madre, incerto sulle zampe, subito in cerca delle mammelle.
Il veterinario lo volle per altre assistenze finché Tonino non crebbe e divenne a sua volta un medico degli animali.
Ma quando voleva star solo negli anni a venire, andava nella baita e curava, con quelle degli altri esseri indifesi, anche le sue ferite.
- da “IN VIAGGIO COL TOPO e altri racconti” (2012) che ha vinto il Premio Pirro Schettini di Franco Alimena- Orizzonti Meridionali-Cosenza