NARRATORIO/PROF SAMIZDAT (AGOSTO 1982)
di Ennio Abate
Sto lavorando al mio “narratorio” in prosa. Ho chiare in mente le sue suddivisioni principali, che in qualche occasione ho già indicato (Salernitudine, Immigratorio, Samizdat, ecc.). Mi è difficile, però, riordinare e sintetizzare i troppo numerosi e spesso ripetitivi appunti che – non so se obbedendo a qualche strategia da “narratore interruptus” o in preda a certe nevrosi da scrittori clandestini e isolati – ho seminato, spesso dimenticandomene, qua e là in molti anni (almeno dagli Ottanta). In quaderni, taccuini e foglietti volanti scritti a mano. In dattiloscritti di decenni fa (fino a metà dei Novanta) mai più riletti. E più di recente in file sul PC più facilmente consultabili. Ogni tanto trovo e rielaboro qualche testo come questo. Che appare a me stesso di non facile interpretazione e collocazione nello schema-progetto che mi sono fatto. [E. A.]
Di quel pranzo l’ospite ora ricordava poche cose. Che Prof Samizdat s’era alzato in anticipo da tavola per pagare lui il conto e che tutti erano stati sorpresi dalla notizia che egli dipingesse. In segreto. E poi – ma confusamente – che in quel ristorante c’era molta gente, una grande animazione. E che, prima di arrivare al tavolo prenotato dalla loro comitiva, avevano attraversato varie porte vetrate e molte stanze, anch’esse affollate.
Usciti dal ristorante, l’ospite aveva raggiunto da solo, con la propria auto la casa di Prof Samizdat. Doveva aspettarlo lì. Così gli aveva detto Prof Samizdat. Lui sarebbe arrivato più tardi. Per un impegno. L’ospite non voleva approfittare della benevolenza di Prof Samizdat, ma il desiderio di conoscere com’era fatta quella casa e chi, oltre a Prof Samizdat, vi abitava lo incuriosiva forte e lo metteva in agitazione.
Al ristorante era rimasto affascinato da Prof Samizdat. Gli era apparso modesto, tollerante verso gli altri commensali e ben disposto verso di lui, che era dopotutto uno sconosciuto. Non aveva forse sorvolato sulla sua attività di pittore, che per l’ospite era invece, comunque venisse svolta, di grande prestigio? Non era corso di sua iniziativa a pagare il conto per tutti? E con naturalezza, e solo perché l’ospite l’aveva inseguito e aveva insistito, non aveva alla fine accettato che lui pagasse metà del conto, equiparandolo a sé in fondo? Eppure si erano appena conosciuti. L’ospite pensò persino che l’impegno a cui aveva accennato Prof Samizdat fosse una scusa, un accorgimento per spingerlo ad entrare nella sua casa da solo. Per fargli conoscere – direttamente e senza le sue presentazioni – sua moglie, la sua famiglia. Non era geloso Prof Samizdat?
L’interno dell’abitazione era quieto. Penombra. Silenzio. Nel grande salone in cui l’ospite venne fatto entrare dalla moglie di Prof Samizdat c’erano grandi e luminose finestre. Su due lati, che non erano ad angolo retto. Ebbe l’impressione che la base della costruzione fosse pentagonale e non quadrata. Alcune finestre avevano le tendine. Altre no. I vetri erano puliti e, avvicinandosi alle finestre, si scorgeva in basso un paesaggio di montagna. Oltre la roccia solida, rugosa e macchiettata, che faceva da basamento alla casa, si scorgeva il letto, vasto ma ora quasi in secca, di un fiume. E un cielo azzurro e terso. La casa pareva costruita sullo spuntone roccioso non molto alto. E non si capiva bene se ci si trovasse su un isolotto o sull’estremità di un promontorio.
Ma d’inverno? L’ospite chiese alla moglie di Prof Samizdat come se la passavano d’inverno. Non c’erano pericoli quando il fiume in piena si gonfiava? Non diventava una minaccia per la loro casa? La donna che, dopo avergli aperto la porta senza mostrare sorpresa, come già sapesse della sua venuta, era subito ritornata nell’angolo dello stanzone in penombra a rammendare dei calzini. Rispose che lì non avevano mai corso un vero pericolo. Non era per nulla turbata dalla sua domanda. Semmai stizzita. Cosa saltava in mente a quell’ospite? Non abitavano lì da qualche mese ma da molti anni.
L’ospite insisteva, però, ad esprimere altre sue preoccupazioni. I giornali negli ultimi mesi avevano pubblicato numerosi articoli sui rischi della siccità. E lui, colpito da un titolo allarmistico comparso il giorno prima: «Anche i fenicotteri emigrano», leggendo l’articolo, s’era convinto che anche nel posto abitato da Prof Samizdat la situazione era grave. Se persino quelle bestiole erano costrette ad andarsene. Ma c’erano i fenicotteri lì fuori?
L’ospite s’avvicinò ad una delle finestre senza tende e guardò fuori. La riva opposta del fiume, che da lì vedeva, appariva vicinissima, ma desolata e arida. L’ acqua del fiume era poi ridotta al minimo, quasi a un rigagnolo. Alcuni fenicotteri vi si muovevano dentro ma lentamente. Gli sembrarono malati o impacciati e perplessi. E con stupore s’accorse poi che il loro piumaggio, invece dei delicati toni rosei che aveva visto nei fenicotteri in altre località da lui visitate, era di un grigio sporco. Diceva bene il giornalista, dunque. La siccità era imminente. E avrebbe colpito anche quegli animali. Eppure, proprio mentre stava per rivolgersi ancora alla moglie di Prof Samizdat per insinuare in lei altri dubbi, i suoi occhi furono attirati da un fenicottero isolato. Zampettava nella poca acqua che scorreva e ogni tanto scrutava in basso piegando il lungo collo. Ed ecco, d’improvviso un’ondata spumeggiante, scaturita chissà da dove, lo investì. Siccità? La moglie di Prof Samizdat sorrise. Quella per lei era la prova dell’energia intatta e benefica del fiume. E l’ospite s’azzittì.
Oltre alla moglie di Prof Samizdat in casa c’era anche un bambino. Se n’era stato in silenzio e aveva osservato ogni mossa dell’ospite, che capì subito di essere per lui un antipatico intruso. Ma il bambino non parlò. Né l’ospite gli rivolse delle domande. Nemmeno s’informò con la moglie di Prof Samizdat per accertarsi se fosse o no loro figlio.
Anche perché, subito dopo i suoi discorsi sui rischi che potevano venire dal fiume in piena o dalla siccità. l’ospito fu assalito da un altro pensiero. L’auto, la sua auto, con la quale era arrivato a casa di Prof Samizdat, non partiva. Fu preso da una angoscia improvvisa. Doveva forse ripartire subito? Non era da poco arrivato? E non doveva attendere Prof Samizdat? E voleva poi davvero ripartire? E per dove? E non fingeva, per caso, un falso guasto per attirare l’attenzione su di sé della moglie di Prof Samizdat e di quel bambino? O per avere il pretesto per compiere altre esplorazioni in quella casa?
L’ospite ora sembrò completamente preso dall’ansia di riparare il guasto – reale o presunto o inventato? – della sua auto. E coinvolse nella faccenda anche il bambino. Che, a sua volta, sembrò accettare il compito di assisterlo in quella strana riparazione. Lo assecondò, infatti, cercando (o fingendo di cercare?) gli strumenti che l’ospite gli chiedeva. E così, accompagnato dal bambino, ebbe modo di esplorare anche la soffitta della casa di Prof Samizdat, rovistando con lui in alcuni vecchi cassettoni pieni di cianfrusaglie o di tenaglie, martelli, pinze. Quasi tutto era coperto dalla ruggine.
Ma il modo con lui l’ospite voleva riparare il guasto della sua auto risultò mano mano sempre più paradossale. E quasi grottesco. Il bambino continuò ad osservarlo con uno sguardo sempre più ironico. L’ospite, infatti, era impacciato e nervoso. Aveva smontato tutta la parte anteriore della sua auto, mezza carrozzeria insomma. Un’operazione inutile se, come pareva o l’ospite stesso insisteva a dire, il guasto riguardava il sistema di accensione del motore. E ora guardava lui stesso con sgomento il blocco costituito dall’asse delle ruote anteriori, dallo sterzo e dal volante, che aveva tanto faticosamente e vanamente scoperchiato. Con l’auto in quello stato insisteva a volerla far ripartire spingendola sull’asfalto della strada leggermente in discesa. E, affaticato e sudato, con la portiera del guidatore aperta, con una mano e il petto faceva pressione sulle gambe e con l’altra mano controllava goffamente il volante.
Nel frattempo era arrivato Prof Samizdat. La moglie gli riferì subito, ma sottovoce e cautamente, degli ambigui tentativi dell’ospite di riparare l’auto (o di allontanarsi).
Chi è l’ospite? Nessuno.
E’ la diffidenza della moglie e l’indifferenza del bambino.
E’ la sua forzuta e inutile, anzi decostruttiva impresa di far partire un’auto che non si sa che problemi di motore abbia.
Samizdat ha condiviso un po’ troppo con l’ospite? (il prezzo della cena? o del pranzo?) Poi torna e trova solo un’impasse generale.
E’ una traduzione nell’immaginario direi di una frattura al passato.
Dove siamo oggi? che immaginario corrisponderebbe?
E perché mai l’ospite sarebbe un “nessuno”? Indaga sull’esterno (il paesaggio, i fenicotteri, la natura) e l’interno (la casa di Prof Samizdat),è una calamita di paure, certo. Ma non è neppure ancora detto che il suo smontare l’auto in modo così scombinato e irrazionale non trovi più avanti un senso.
La moglie non è affatto diffidente ma calma, prudente, sicura del suo mondo.
Il bambino non è indifferente, ma curioso, guardingo, ironico.
Il resto più avanti. Spero.
…trovo molto particolare e bello questo racconto di Ennio, una punta tragicomico: riesce a descrivere, in un processo di conoscenza tra l’ospite ( l’autore, credo) e il prof Samizdat, il passaggio dai toni del “mito” di un incontro “ufficiale” in un ristorante rumoroso alla dimostrazione di reciproca fragilità nel semplice quotidiano: da una parte la famiglia del prof e la casa esposta alle bizzarrie del clima, con i poveri fenicotteri, immagine di un’antica nobiltà decaduta, dall’altra l’imbranataggine quasi ricercata da parte dell’ospite nel “riparare” la sua auto, forse un tentativo di fuga…Succede così quando una persona tiene troppo all’altra? Svelarsi si toglie dal troppo imbarazzo?
L’ospite è nessuno perché non ne fa una giusta. La moglie lo zittisce a proposito della aridità, il figlio è ostile, lo trova antipatico. L’unico fenicottero che appare è grigio. Un senso di rottura, fine, impossibilità pervade il testo. Gli attrezzi necessari sono arrugginiti, l’auto ha forse problemi al motore ma si lavora sulla carrozzeria. Proprio questa impasse generalizzata è l’aspetto più interessante, non c’è modo di tornare alla festa precedente, iniziale. Due termini nelle ultime righe avanzano il problema: “cautamente”, “ambiguo”.
L’ospite e Samizdat sono così un doppio, la parte chiara e quella in ombra, quella sociale e quella minata.
“L’ospite è nessuno perché non ne fa una giusta”.
Un nessuno* non può fare, nemmeno sbagliare. L’ospite, invece, “non ne fa una giusta” (secondo la norma comune).
*nessuno (ant. o pop. tosc. nissuno) agg. e pron. indef. [lat. ne ipse ūnus]. – 1. Neanche uno; è usato solamente al singolare, per escludere in maniera assoluta l’esistenza o la presenza o altra qualità o condizione di una persona, di un animale, di una cosa. (Treccani)
certo, ma è lingua corrente dire di uno che è un nessuno, in uno scritto poi, dirà della volatilità della personalità del personaggio… se, come interpreto, è il doppio in ombra di Samizdat, se è il personaggio su cui appoggiare scacchi e errori… allora si poteva capire anche subito che l’ospite è nessuno (invece di Ulisse)