di Giorgio Mannacio
1. Esiste da sempre un rapporto tra religioni e strutture statuali. Quanto alle prime mi riferisco a quelle che abbiano ambizioni universalistiche. Queste impongono che le confessioni di tale tipo – dopo il momento delle origini (ammesso che tale momento sia storicamente verificabile) – affrontino il “secolo“ con una certa struttura e dunque è naturale che entrino in rapporto con le formazioni politiche esistenti nel territorio nel quale operano o vogliono operare.
I dati storici non fanno che confermare tale conclusione logicamente ineccepibile.
Si tratta di rapporti che – presto o tardi – assumono aspetti problematici e conflittuali.
Basta pensare alla storia di quelli che sono stati i rapporti della religione prevalentemente praticata in Europa e i vari Stati nazionali in essa presenti. Non intendo in questa sede discutere sul Cristianesimo e il versante di esso che ha assunto la fisionomia di Cattolicesimo. Mi interessa osservare che già “poco a valle delle origini“ si rilevavano situazioni di distribuzione di campi di intervento tra Cristianesimo e Impero Romano. Cosa vuol dire la famosa frase “Date a Cesare quel che è di Cesare e date a Dio quel che è di Dio“ contenuta in Matteo 22,21 e ripetuta dagli altri Evangelisti? Se non analizzata, questa massima rischia di diventare una formula priva di reale significato. Parrebbe presupporre che determinati “oggetti“ appartengano solo a Dio ovvero solo a Cesare. Non è così. Anche un precetto che consideriamo universale come quello del V Comandamento (“ Non uccidere “) si presta a collocazioni concorrenti. Ipotizziamo (ipotesi tutt’altro che arbitraria di fronte alle realtà storiche) che uno Stato inizi una guerra totalmente ingiusta (ad esempio: guerra di pura aggressione) contro altro Stato. Come deve comportarsi un devoto religioso, cittadino dello Stato aggressore? Che non vi sia guerra priva di vittime è affermazione che non esige alcuna dimostrazione. Il devoto deve astenersi dall’uccidere e incorrere nella sanzione certamente prevista per il suo caso dalla Città degli uomini o disattendere i precetti della Città di Dio? E’ singolare ed altamente precisa la distinzione che facciamo tra questi due tipi di città. Tipi che designano anche semanticamente la qualità pervasiva delle due “cittadinanze “.
La questione si pone ovviamente anche all’interno delle due religioni che oggi maggiormente interessano il “versante politico della Storia“ (Cristianesimo / Islam ). Può essere solo diversa la coincidenza o l’opposizione tra precetti religiosi e precetti statuali. Anche l’aderenza ad una visione eticamente altissima della vita non mette al riparo dalla lacerazione tra l’al di qua e l’al di là che sembra propria della nostra struttura umana.
2.
Nell’attuale momento storico – intendendo tale espressione come comprensiva delle scelte politiche in senso stretto dei diversi Stati del mondo – la Chiesa cattolica attraversa una esperienza molto interessante. Che deve interessarci. Ho letto il saggio di Benedetto Croce (filosofo che non riscuote le mie simpatie ) dal titolo : «Perché non possiamo non dirci cristiani». Il senso di esso è complesso e si presta a diverse interpretazioni. Vi è una direzione che mette in risalto suggestivamente l’intreccio tra Cattolicesimo, le arti e la cultura italiana in generale, ma non è questo il filone che – per il momento – mi interessa. Al titolo è rimasto “appeso“ nella mia lettura quanto basta a sottolineare una precisa influenza politica del Cattolicesimo e della sua struttura politica (Vaticano) nella storia politico-sociale del nostro paese e dei suoi costumi.
L’attuale politica del Vaticano presenta certi aspetti di progresso rispetto ai Pontificati passati e in generale sembra voler rispondere alle istanze sociali ed anche di costume e di cultura della società odierna e non solo d’Italia. Quanto al versante sociale appare più rilevante di prima l’interesse per le classi economicamente e socialmente più disagiate; accentuate la affermazioni di condanna per lo sfruttamento e la violenza; maggior rispetto sembra riservato per certe scoperte scientifiche. Si intravvede, nel primo campo, un progetto di rinnovamento e, nel
secondo, un’apertura culturale di una certa ampiezza. Sarebbe un po’ miope e tutto sommato improduttivo non tenerne conto. Nello stesso tempo è necessario formulare alcune osservazioni che svelano importanti difficoltà ad una percorso che appare deciso nelle formulazioni ma non decisivo nei suoi esiti.
3.
Il Cristianesimo non è mai stato – nonostante le apparenze – così debole come ora. Manca ad esso – nella sua struttura più schiettamente politica – ogni “potere di interdizione immediato“ (la scomunica di storica memoria) sia mediato (l’alleanza politico/militare con qualche Città umana). Esso – nell’Occidente – si rivolge ad una società “scristiannizzata“ in duplice senso. In senso metafisico in quanto ai potentissimi miti dell’esistenza oggettiva di un mondo ultraterreno e alla resurrezione dei corpi sembra non vi creda alcuno. Quanto all’anima tale termine – come ha osservato Galimberti nel suo «Gli equivoci dell’anima» – ondeggia tra la psicologia e la poesia. Anche il messaggio etico è scolorito dai lavaggi continui del capitalismo sfrenato e resta confinato in gruppi isolati che possono prescindere da ogni riferimento dottrinario teologico.
Un esercito di riserva (per parlare in termini marxiani) viene scorto nei paesi cosiddetti emergenti che sono i più poveri e diseredati ed in questa direzione – pour cause, direbbe uno scettico – si rivolge l’attenzione della Chiesa. Si tratta però di un indirizzo – data la razionalizzazione a volte solo tecnologica che ci contraddistingue – che può incidere solo sul versante etico, come ho già detto. Di tale limitazione del campo di azione si colgono segni inequivoci anche negli interventi papali allorquando si affrontano problemi “a cavallo“ tra etica umana e dottrina ecclesiastica .
Mi riferisco, per esempio, ai temi della vita/morte (Dio è padrone delle vita e della morte) e a quelli dei rapporti interpersonali nell’attuale struttura della società (unione tra persone dello stesso sesso, omosessualità, etc.). Rispetto a tali situazioni dirompenti per l’ortodossia l‘atteggiamento cattolico più evoluto si limita a ricordare la “comprensione di Dio“ e dunque ritorna all’ortodossia.
4.
Quale che sia l’atteggiamento critico verso la figura di Cristo (figura mitica, uomo in senso proprio, figlio di Dio) tale figura è centrale nel Cristianesimo. Nella piccola ma ricchissima biblioteca paterna ho trovato – tra gli altri – e rilegato con cura per memoria filiale – un libro estremamente suggestivo intitolato «Il mistero di Gesù». Fu scritto nel 1923 da P.L. Couchoud (filosofo francese nonché medico e studioso della cultura giapponese e delle religioni). Tale libro, tradotto in italiano da Angelo Treves, fu stampato nel 1926 dall’allora esistente Casa Editrice Monanni (viale Monza 77, Milano). L’Autore tende a vedervi un “nome“, un punto di aggregazione di fedeli. Come è noto, intorno alla figura del Cristo e al Cristianesimo si sono affollate figure eminenti delle più svariate esperienze umane (Storia, Filosofia, Teologia, Politica, Economia ) segno indiscutibile della centralità del “problema cristianesimo nel mondo occidentale“. Ben 88 pagine del fondamentale testo di Löwith («Da Hegel a Nietzsche. La frattura rivoluzionaria nel pensiero del secolo XiX» – PBE 1949 ) sono dedicate al “problema del Cristianesimo“.
Rispetto ad esso cosa mi incuriosisce del quasi centenario testo di Couchoud? Confesso che mi interessano fino ad un certo punto le conclusione alle quali tale autore arriva rispetto alla figura del Cristo. Sono invece attratto dal rilievo che in tale libro hanno tre citazioni di altrettanti testi di autori classici non cristiani. Esse sembrano riferirsi ad una sorta di ”struttura originaria“ della figura di Cristo e del movimento cristiano, struttura – a mio avviso – di notevole interesse.
Il primo autore citato è Plinio il Giovane. Mandato nella regione della Bitinia e del Ponto, così scrive a Traiano del cristiani: “Coloro che negavano di essere cristiani e al mio cospetto avevano invocato gli Dei e adorata la tua immagine e maledetto il Messia io credetti bene di lasciarli liberi…….”.
Il secondo è Tacito, che scrive: “Nerone suppose dei colpevoli (scilicet: dell’incendio di Roma) che condannò a supplizi raffinati. Furono coloro che, odiati per le loro infamie, erano chiamati dal volgo Chrestiani. L’autore di questo nome il Messia (Christus) era stato condannato al supplizio sotto il regno di Tiberio dal procuratore Ponzio Pilato“.
Il terzo autore è Svetonio, nel quale – a detta di Couchoud – si legge “I Giudei che a istigazione di Christo facevano incessanti tumulti furono da lui (sc. : l’imperatore Claudio) cacciati
da Roma“.
Se da un lato non ho motivo di dubitare dell’onestà culturale del nostro autore, dall’altro non posseggo la preparazione filologica per pronunciarmi sull’autenticità e veridicità delle tre fonti citate. Tuttavia esistono argomenti per accoglierle come testimonianze di certi eventi storici e per trarre da questo punto alcune conseguenze.
I tre testi, tanto per cominciare, non inventano nulla sull’esistenza – in un momento della storia – di una comunità di persone definite Cristiani. E’ certo che costoro vennero perseguitati più o meno aspramente. Dunque le tre citazioni non possono essere inserite in un quadro di pura fantasia. E’ dato di comune esperienza che i movimenti di massa presuppongono una o più persone che rispetto al gruppo assumono ruoli di conduzione più o meno egemone. Questa conclusione è del tutto plausibile, quale che siano le caratteristiche e il nome della persona egemone. I testi citati si aprono, dunque, su un quadro che sinteticamente si può definire come quello di uno stato di agitazione popolare. Se rileviamo – alla luce del testo di essi – che tale agitazione era malvista dalle autorità “politiche“, cui erano attribuite addirittura delle nefandezze, e che una certa struttura politica ebbe a rifiutarli violentemente, la scena diventa sempre più chiara e sempre meno equivocabile nei suoi contenuti. Ci troviamo di fonte alla memoria di una sollevazione popolare invisa all’autorità pubblica. Ma non ci possiamo fermare qui. Anche i testi di provenienza cristiana, esaminati al di fuori di ogni funzione agiografica o teologica, testimoniano la presenza nei cristiani e nel suo messia (ora scritto in minuscolo pour cause) di un atteggiamento di contestazione di valori ritenuti contrari ad altri valori (quelli cristiani ) e che hanno spesso la struttura di un rovesciamento di quelli praticati dalla classe dominante.
Anche rispetto a tale ultimo punto si ha una indiscutibile memoria storica. Un impero sempre più potente e dominatore; un solco netto tra classe dominante e popolo, solco che arriva a creare negli schiavi una sorta di subumanità; una instabilità di relazioni con altre strutture politiche (continue guerre) . Credo che sia estremamente plausibile l’interpretazione della nascita del cristianesimo delle origini come di un fenomeno con connotazione politica cioè di contestazione delle classi dominanti.
5.
E siamo al nodo cruciale dell’esito di tale stato di cose, che è poi una riflessione sul tempo che viviamo.
Il mondo non si lasciò convincere che dio ama gli uomini. Questa dura sentenza è di un singolare e importante teologo tedesco del secolo scorso (e riportata da Löwith: op.cit. pag. 564). Si tratta di Franz Overbeck, amico di Nietzsche e suo compagno di stanza per cinque anni a Basilea. Di lui sono state pubblicate in Italia, salvo errore, due opere. La più importante è un testo dal titolo «Cristianesimo e cultura» (Edizioni Trauben – Centro studi filosofico-religiosi L. Pareyson – Biblioteca filosofica- Torino, 2002). La seconda è uno smilzo libretto, «Ricordi di Nietzsche»
( Il Melangolo,Genova, 2000).
Si dice che Overbeck abbia fornito a Nietzsche più di un argomento per la radicale critica operata al Cristianesimo dal secondo. Certo è che il primo – attraverso una rigorosa e impietosa analisi del Cristianesimo (distinto nelle due fasi del Cristianesimo delle origini e del Cristianesimo attuale) – è stato uno dei più autorevoli teologhi senza dio. Non si può seguire nello spazio di un modesto contributo come il mio – né io ne sarei capace – lo sviluppo del suo pensiero. Si possono però – con buona approssimazione e aiutati dall’interpretazione di Löwith – riscontrare nell’esito finale del suo pensiero tre punti diversi. Il primo riguarda l’atteggiamento del singolo di fronte alla morte
(atteggiamento di tipo stoico e che si richiama a Spinoza); il secondo riguarda il valore storico e umano del Cristianesimo (la convinzione che la civiltà europea senza il cristianesimo e questo senza la civiltà europea non sarebbero stati quelli che sono stati). Il terzo punto – che più da vicino si connette con questo mio testo – riguarda le sorti del Cristianesimo. Quest’ultimo nel pensiero di Overbeck (pensiero che si snoda senza l’astio nicciano verso il cristianesimo) è destinato a scomparire.
La affermazione del teologo in apparenza paradossale è questa: la durata nei secoli del Cristianesimo non è un argomento a favore della sua durata ma presenta il suo carattere più sospetto (Löwith, pag. 564). Credo voglia dire che, cessata la giovinezza di esso (il Cristianesimo delle origini messianico e astorico), tale movimento entra nella storia e come fenomeno storico non potrà che finire, ancorché molto lentamente. In questa prospettiva le attuali tendenze dalla Chiesa cattolica sembrano essere un tentativo di rinvigorire una fede perduta; e, dunque, possono essere viste come una difesa tattica piuttosto che una strategia di lungo periodo.
L’attuale momento storico ci mostra che la seconda grande religione monoteistica di rilievo
(l’Islamismo) mostra – per così dire – una maggiore “giovinezza“. Personalmente non credo che tale qualità dipenda da una supremazia di valori che lo caratterizzi ma semplicemente dalla collocazione temporale rispetto al Cristianesimo; e cioè da un sviluppo diacronico delle società entro le quali si manifesta. La dura sentenza, secondo cui il mondo ha perso la fiducia nell’intervento salvifico della divinità, appare di portata universale e con essa bisogna fare i conti.
“Il mondo non si lasciò convincere che dio ama gli uomini”: mi pare l’argomento fondante del testo di Giorgio Mannacio. E’ una sentenza (non in forma di citazione) del teologo senza dio Overbeck, e mi pare funzionare da sottotesto per l’intero scritto, argomentativo e privo di coinvolgimento soggettivo.
Anche la conclusione di tipo storico – il cristianesimo è religione matura perciò destinato a esaurirsi, mentre l’islamismo come religione più giovane è presumibilmente destinato a durare più a lungo – evita però di focalizzare ciò che fonda tutte le religioni: l’immaginario risorgente sul destino postmortem.
Le religioni sono culto dei morti, infatti dal ritrovamento di lontane tracce di queste pratiche facciamo cominciare l’umanizzazione della specie.
Del resto ancora oggi stragi omicidi e martìri testimoniano la vita del cristianesimo e dell’islam (così come nella cronaca pratiche crudeli testimoniano la sopravvivenza di sette animiste).
Se la morte è l’ancoraggio del fenomeno religioso, si avranno trasformazioni storiche, intere culture differenziate, ma non la sua fine.
Verrebbe da dire: è vero, le religioni ci sono e hanno il monopolio dell’ “l’immaginario risorgente sul destino postmortem” e riconosciamogli pure il merito di aver avviato “l’umanizzazione della specie”. (Echi de “I sepolcri” in sottofondo…). Ma più che interrogarsi sulla loro probabile o improbabile fine non sarebbe il caso di capire di più perché quell’avvio (d’umanizzazione) non è mai andato oltre una certa misura e se la soluzione non vada cercata ai bordi o fuori o non soltanto nel pensiero religioso.
P.s.
Coincidenze. Proprio ieri rileggevo questa citazione da Bloch colta al volo nel lontano 1992:
«L’operante e presente MULTIVERSUM delle culture è esso stesso espressione del fatto che l’umano non è stato ancora trovato, ma ovunque viene cercato e sperimentato; così questo umano sempre in divenire, dalle molte vie che ne fanno esperienza per raggiungerlo, rappresenta la sola meta veramente consentita, cioè utopisticamente consentita» ( E. Bloch, Sul progresso, pagg. 42-43).
E sempre su questo blocco del processo di umanizzazione tempo fa (marzo 2012), indirettamente ( e cioè parlando di poesia), la questione era spuntata qui:
http://moltinpoesia.blogspot.com/2012/03/qui-ennio-abate-i-m-oltinpoesia.html
Un altro spunto che mi pare in tema:
Concludo chiedendoti una precisazione. Nel punto in cui parli della chiesa che riconosce le colpe di ieri, chiede perdono a non si sa chi e in fin dei conti si assolve, affermi che essa non ha solo «caratteri umani» e appartiene «per sua precisa dichiarazione…a qualcosa d’altro, e che non è, semplicemente, il campo e il dominio della fede». Alludi forse alla distanza insuperata fra senso religioso e senso mondano, politico del comunismo? Sarebbe come dire che il comunismo rimane una cosa ancora ”troppo umana”?
La cosa che non si ricorda e che fa parte dei principi elementari della dottrina cristiana, di cui tutti fan finta di sapere (parlo del magistero), è la definizione di chiesa. Cambiano i secoli, ma non è stata mai riconosciuta una definizione unica. Definendo una cosa devi dire anche ciò che non è. Però tra le definizioni correnti, che non sono definitive, non autenticate da nulla, c’è quella della chiesa docente e della chiesa discente, c’è quella della chiesa come società perfetta e quella della chiesa come popolo di Dio. E poi c’è la chiesa non visibile, che è l’appartenenza di tutti a un mondo che è qui sulla terra ma che ha anche la sua prosecuzione nel cielo. Non c’è nulla di morto nella chiesa. I morti non esistono, sono risorti. Quindi c’è una presenza di cose non visibili che costituisce l’essere della chiesa anche nella visibilità. Questo fa sì che la sfera della chiesa non è fissabile entro il traguardo terreno, ma va anche oltre. E il potere della chiesa deriva dalla disponibilità di questo oltre sul qui. La sfera politica ha sempre una prosecuzione non visibile che è di competenza della chiesa.
L’aldilà ha sempre la meglio sull’al di qua?…
Ha la meglio perché lo contiene. Perché contiene l’al di qua diventato eterno.
Per Bloch l’al di là deve diventare al di qua, perché è l’altra faccia (sublimata) di quella che diciamo “realtà”.
Sì questo come progetto. Ma la chiesa non ha mai detto che questo è un progetto. Ha detto che è la sua essenza.
( Da una mia intervista a Michele Ranchetti del 4 gennaio 2005 che si legge per intero qui:http://www.backupoli.altervista.org/article.php3?id_article=7&var_recherche=ranchetti)
Parlare di avvio non vuol dire anche aver raggiunto un compimento. Non c’è perciò contraddizione tra il segnare (a posteriori) l’avvio dell’umanizzazione ravvisando un culto dei morti, e una prospettiva di non finito, di ampliamento. Soprattutto se si considera che il processo di umanizzazione non è stato né progressivo né continuo. E che le religioni rifioriscono e non solo deperiscono.
Lo spiega bene Ranchetti: “c’è una presenza di cose non visibili che costituisce l’essere della chiesa anche nella visibilità”. Ritorna la questione del risorgente immaginario sul destino post mortem.
Solo pochi riescono a non interrogarsi nemmeno su ciò che esiste, molti però rinunciano a capirci qualcosa, soprattutto nelle epoche non religiose.
Poi c’è l’altro lato che Mannacio ha affrontato, quello del rapporto tra religioni positive e potere mondano e storico. Ma è in una directory secondaria, quanto alla articolazione logica sul religioso: prima l’aldila’, poi il rapporto con il di qua. Mentre dal punto di vista induttivo, prima il di qua, poi l’immaginario risorgente eccetera.
@ Cristiana
Grazie del riscontro. Sono d’accordo che il tema del post mortem è essenziale nella religione. Anche su questo punto Overbeck nel suo saggio da me citato è profondo e tragicamente umano. Nel mio testo volevo solo sottolineare l’intima contraddizione che nasce inevitabilmente dal confronto tra la Città di dio e la Città degli uomini e che si presenta particolarmente suggestivo nel tempo attuale. Se si crede – come deve fare un cristiano – che il ” giudizio sulla storia ” è giudizio sugli uomini ( salvati o condannati ), l’ago della bilancia si sposta totalmente sul reggitore della prima. In questa direzione e molto modestamente sottolineavo come il Cattolicesimo attuale tenti una mediazione più accentuata tra i due regni ” cedendo ” a istanze più dell’al di qua che dell’al di là. Con esiti solo in parte prevedibili. In sostanza le mie osservazioni sono più politiche che filosofico/religiose. Il tema della morte è uno dei centri dei miei pensieri e merita un particolare interesse ma in che direzione essa segna per ciascuno la fine della storia ? Nessuno sperimenta la propria morte Penso – estremizzando ( e forse il mio pensiero si accosta al tuo ) che forse solo il dominio sulla morte – se avverrà – può portare alla nicciana morte di dio. Ma noi viviamo giorno per giorno sulla terra e su di noi incombono problemi contingenti di portata epocale. Un caro saluto . Giorgio Mannacio.
@ Giorgio
“Penso estremizzando che forse solo il dominio sulla morte… ” Ma noi lo siamo, immortali! In forma di atomi, o di quale altro nome diamo a ciò che costituisce la materia dell’universo. Finito o infinito che sia, è comunque totalità per il pensiero, la cui ragione di essere… ah, questo è il punto. Su cui si appuntano le religioni non del libro, non creazioniste. La scappatoia è l’infinito, ma per il pensiero ( dei matematici, per esempio) non cambia nulla, in sostanza: come si coniuga il finito con l’infinito?
Come diciamo noi dai Greci in poi: Perché l’essere è?
ATOMI
( Democrito che il mondo a caso pone
Inferno,IV, 136 )
E’ un falso paradiso
questa notte di mezz’estate
per le falene assetate di luce.
Fu forse così
nel primo giorno del mondo la deriva
degli atomi felici
d’incontrarsi con te, bambina amata.
Mai come in questo istante
si crede all’eternità o in lei si spera
contro la furia calma che ci avvolge.
Di lui,
della sua tracotanza appassionata
a quanto si nasconde
resta nel gocciolare della pioggia
il suono della sua voce e in queste fiamme
lo splendore del suo pensiero.
Ma a noi non può bastare
in questa notte di mezz’estate.
Cara Cristiana in perplessa risposta al tuo scritto – per il quale ti ringrazio – ti mando questa mia poesia di qualche tempo fa che sarà in un volumetto che spero pubblicato a breve. Conosco lo straordinaria definizione di essenza contenuta nella metafisica di Aristotele secondo cui l’essenza diventa ” che cos’era essere “. Ma il punto è – per alcuni ( quorum ego ) la perdita dell’identità. Un caro saluto. G.M
Eggia’! Fin dove arriva la “materia”? La nostra mente superiore, lo spirito (siamo sempre incarnati!). Non è che non conosca la stringatezza logica (sì, logica) del cristianesimo. Ma… aspetto.
Scusami, ho glissato: è “completa” (perfetta) la poesia.
@ Cristiana
Grazie, cara Cristiana , ma la perfezione – per stare al tema – non è di questo mondo. Giorgio