Alla fine del Novecento

Riordinadiario 1994

di Ennio Abate

Cosa ci aspettiamo oggi dalla storia o dagli storici? 
Qualcosa in questo mio vecchio appunto del 1994 potrebbe servire (forse) ad avvicinarsi più *criticamente* al tema del libro “Neofascismi”, che Claudio Vercelli presenterà a Cologno il 5 aprile prossimo. [E.A.]

ALLA FINE DEL NOVECENTO. RENDICONTI PROVVISORI DI FRONTE ALLA STORIA 
(27 agosto 1994)

Il tema della memoria storica riaffiora e viene presto consumato. Alcuni vorrebbero la storia in generale ancora come maestra di vita; e alla trascurata storia contemporanea, effettivamente assente nella pratica scolastica e strumentalizzata dai padroni massmediali di turno, attribuiscono volentieri funzioni taumaturgiche. Basterebbe informare (illuminare) le nuove generazioni su quanto accaduto nel corso del morente secolo e i Valori risusciterebbero, le mode si ridimensionerebbero, i giovani si risveglierebbero. Come se il sonno della ragione avesse colpito solo loro. O solo di sonno della ragione o di difficoltà di sognare si trattasse.

Eppure la storia del ‘900 un po’ la stiamo già insegnando (magari non tutti e dappertutto). E, certo, con intenzioni divergenti. Per dimostrare la fine della storia, del comunismo, del moderno, del progresso, dello sviluppo, delle ideologie, ecc.). Oppure per ribadire una continuità oltre le apparenze delle fratture più o meno epocali. O per consigliare un buon uso delle rovine. O per rifondare. O per promuovere un esodo.
E in modi e con risultati non neutri e mai a sufficienza discussi e verificati, che vanno dal serio al disinvolto, dall’approssimativo al menzognero.

Si potrebbe sicuramente insegnarla meglio e darle più spazio nella comunicazione sociale. Ma per ottenere questo risultato non si può attendere una sorta di “mani pulite” anche fra gli storici e gli insegnanti.
Perché ci sia non solo più coscienza storica (augurio generico) ma la nuova coscienza storica che servirebbe oggi, deve esser chiaro che la questione non è solo didattica o educativa o divulgativa.
Non basta, cioè, integrare o aggiornare i programmi fino alla seconda guerra mondiale o alla caduta di Gorbaciov (facile soluzione adottata da tutta la manualistica scolastica). Né denunciare i sempre vegeti censori ministeriali o i ciarlatani.

Il problema non riguarda, esclusivamente o in primo luogo, gli storici di professione, che pure hanno grosse responsabilità in certe operazioni restauratrici o revisioniste (Si veda tutto il dibattito sul nazismo in Germania e sul fascismo in Italia).
Perché nella storia reale – accaduta o che accade – di fatto siamo tutti implicati: insegnanti, storici, politici, studenti, pubblico televisivo. E di fronte agli eventi tutti reagiamo in modi diversi o contrastanti, sia quando ne percepiamo lo spessore sia quando li consumiamo voracemente nei fast-food stampati o televisivi. E tutti urtiamo però contro un limite oscuro, che fa sorgere dubbi e chiedere giustamente: ma serve studiare la storia in generale o quella del ‘900?

Ci si accorge, infatti, che sapere in un certo modo la storia non basta. Perché è venuta meno la fiducia di poterla guidare ad un fine (umanesimo, progresso, comunismo). Raggiunte – o per rozzo intuito o grazie ad anni di studio – queste vere e proprie colonne d’Ercole, si deve prendere atto che proprio per la storia del ‘900 non bastano le risposte rassicuranti in altre epoche: storia = magistra vitae; storia=progresso dialettico; storia=rivoluzione, realizzazione del regno della libertà, della pace e dell’uguaglianza.
Tutte le bussole – e non solo gli attrezzi artigianali disponibili al pubblico di massa ma anche le macchine teoriche raffinate – sono in avaria….

3 pensieri su “Alla fine del Novecento

  1. La “storia” è tutta una riflessione sulla “storia”. Sembra ovvio, ma non è così. Partiamo da una affermazione che sembrerebbe scontata, ma a cui tanti non hanno mai pensato: LA STORIA NON ESISTE. Esiste il presente, non il passato, al quale si riferisce la storia.

    1) Al presente, nel momento in cui gli storici lavorano, non esiste più la storia su cui lavorano.
    Esiste ciò che quella storia non più esistente ci ha lasciato in eredità. Esistono dunque le sue tracce disperse, secondo il periodo passato a cui ci riferiamo, in varie forme: fossili, manufatti, configurazioni del paesaggio, testimonianze scritte, documenti manoscritti, a stampa, precedente bibliografia, testimonianze orali, ricordi personali ecc.
    Di conseguenza non si riflette sulla storia ma sulle testimonianze lasciate dalla storia, compresa la storiografia precedente.
    È attraverso la documentazione esistente (intesa in senso largo, in tutte le sue forme) che gli storici cercano di “ricostruire” il passato e “raccontarlo” in modo comprensibile, coerente, logico.
    Così è che fra quel passato non più esistente e per noi inattingibile e l’idea che ce ne facciamo, oggi, ci sono di mezzo diverse mediazioni: quelle casuali e quelle volontarie che permettono a certi documenti di conservarsi e ad altri no; quelle casuali e quelle volontarie degli storici che ricercano e studiano i documenti per trarne il racconto storico; infine, quelle casuali e quelle volontarie dei lettori degli articoli, saggi e libri prodotti dagli storici che selezionano e interpretano le letture secondo criteri personali. Quando poi questi lettori si fanno non storici in proprio, ma utilizzatori della produzione storiografica in vista di fini più o meno personali, a sostegno della propria visione del mondo, abbiamo l’ultima mediazione e l’ultima immagine di quel passato scomparso.

    2) Ennio scrive: «Tutte le bussole – e non solo gli attrezzi artigianali disponibili al pubblico di massa ma anche le macchine teoriche raffinate – sono in avaria». Ma ciò è normale e salutare, perché le «macchine teoriche raffinate» riguardano gli aspetti tecnici del lavoro storiografico, e allora, come in ogni sapere tecnico, le novità più avanzate sostituiscono quelle precedenti ormai obsolete. Ad esempio, la paleontologia è oggi in grado di ricavare informazioni ampie e precise anche da pochi frammenti di ossa di qualche milione di anni fa. Ciò era impensabile anche solo dieci anni or sono. Quindi le “macchine” sono cambiate e si sono perfezionate. E continueranno a perfezionarsi.
    Si potrebbero fare esempi meno ovvi anche per la storia contemporanea (si pensi, ad esempio, all’utilizzazione della documentazione fotografica, cinematografica e informatica e a tutti i problemi tecnici della verifica di autenticità).

    3) Se invece per «macchine teoriche raffinate» si intendono dei modelli interpretativi della storia, cioè costruzioni che appartengono alla filosofia della storia e non alla storiografia, allora è bene che siano in avaria, anzi è bene che scompaiano del tutto. Questi modelli, che non nascono dalle esigenze “scientifiche” del lavoro storiografico, ma dalle esigenze di altro tipo (filosofico, ideologico, politico ecc.) di trovare nella storia la giustificazione del proprio modo di vedere il mondo, portano inevitabilmente alla manipolazione del lavoro storiografico e a un racconto del passato non veritiero, nel senso tecnico che non corrisponde a ciò che risulta dalla documentazione, ma strumentale ai fini extra-storiografici che si vogliono raggiungere o difendere.

    4) Per chi concepisce il lavoro storiografico in maniera scientifica (certamente non scienza esatta, ma tuttavia un controllo metodologico severo finalizzato alla conoscenza e alla comprensione e non alla difesa di un particolare punto di vista) risulta anche evidente che non può esistere una «fiducia di poterla guidare ad un fine (umanesimo, progresso, comunismo)» (Ennio), perché guidare il lavoro storiografico a un fine porta a errori, manipolazioni, falsificazioni, più o meno consapevoli, in buona e in malafede. È quanto è avvenuto nel passato, ogni volta che la storiografia si è posta degli obiettivi a lei estranei: obiettivi educativi, ideologici, filosofici, religiosi (Ennio scrive: «le risposte rassicuranti in altre epoche: storia = magistra vitae; storia=progresso dialettico; storia=rivoluzione, realizzazione del regno della libertà, della pace e dell’uguaglianza»).

    5) Si può arrivare ad una memoria condivisa solo se ci si basa su una storiografia attenta ai suoi propri compiti, che sono quelli dello studio della documentazione e del racconto del passato a puri fini conoscitivi. Per conoscere di più e meglio, non per avere armi a difesa, a conferma, o a smentita di qualche idea particolare.
    Si pensi al conflitto fra fascismo e antifascismo nel periodo del fascismo di regime e poi in quello della Repubblica sociale italiana. Ancora oggi, per incrostazioni ideologiche, per fanatismi politici, per falsificazioni storiografiche siamo lontani da una memoria condivisa degli anni 1943-1945 (per esempio; ma siamo anche lontani da una memoria condivisa degli anni 1796-1814 e del ruolo dei giacobini nella storia d’Italia, tanto per fare un altro esempio). Siamo ancora, per riprendere un’immagine di Zygmunt Bauman, prigionieri – vittime e testimoni – delle gabbie che in quegli anni gli opposti schieramenti hanno costruito.
    Si pensi – per citare un caso storiografico recente – al lungo dibattito sulla concezione della Resistenza anche – non solo, ma anche – come «guerra civile». L’espressione è comunemente usata dai protagonisti degli anni 1943-1945, poi viene rifiutata dalla storiografia di sinistra (e si giunge a sostituire l’espressione «guerra civile» con quella di «guerra di popolo» o altre analoghe anche nella riedizione di scritti di leader politici di quegli anni, compiendo un falso evidente). Non è qui il luogo per discutere il perché di quel rifiuto, e perché invece la “storiografia” di destra (Pisanò, Romualdi ecc.) insiste nell’uso dell’espressione «guerra civile». Ci volle un dibattito durato sette anni (1985-1991) perché le tesi sostenute da Claudio Pavone venissero accettate, e con lui via via diventasse “normale” e accettata da tutti gli storici, anche di sinistra, la nozione di “guerra civile” applicata alla Resistenza.

    6) Ma tutto questo riguarda la storia della storiografia, non il lavoro storiografico in senso scientifico, rispetto al quale rappresenta una deviazione. Infatti, in senso scientifico, la storiografia avrebbe potuto facilmente arrivare a una visione condivisa, se si fosse limitata allo studio e all’interpretazione dei documenti. Il dissidio nasce infatti solo quando lo studio dei documenti è finalizzato a scopi politici o di altro tipo estranei alla migliore e più ampia conoscenza del passato.
    Ma che il dissidio possa riguardare l’interpretazione dello studio dei documenti, quindi l’interpretazione storiografica del passato, è possibile e anzi facile e piuttosto comune. Ma va posta l’attenzione su un fatto: il dissidio può riguardare l’interpretazione sulla base di una ricostruzione condivisa; o riguardare l’interpretazione che nasce da ricostruzioni diverse e contrapposte.

    7) In sostanza, fa molta differenza dire, ad esempio: ci sono stati 500mila fascisti che hanno combattuto contro 500mila partigiani, oppure dire che ci sono stati circa 30mila fascisti che hanno combattuto contro circa 70mila partigiani. Questo è un elemento fattuale, un’informazione sulla quale la ricerca può giungere a una conclusione unanime (se c’è buona fede e si vuole arrivare alla conoscenza della verità). Arrivati alla conclusione unanime sui fatti, è poi legittimo dare interpretazioni e definizioni diverse.
    La storiografia non assolve i suoi compiti, ma “bara”, quando invece si celano i fatti o comunque si trascura di arrivare a una verità condivisa sui fatti proprio per poter meglio sostenere tesi extra-storiografiche. Questa è una cattiva storiografia; una storiografia che ha paura della verità preferendo sostituirla con “verità di comodo” costruite sulla base di un tornaconto ideologico.

    8) Non è la posizione politica e l’impegno politico o ideologico dello storico a costituire un ostacolo a una corretta storiografia, ma è il far prevalere la propria posizione e il proprio impegno anche contro ciò che risulta dalla documentazione. Insomma, la cattiva storiografia nasce sempre,
    a) innanzitutto, dalla falsificazione (consapevole o no che sia) di ciò che i documenti rivelano. La falsificazione può essere di tanti tipi, dagli errori tecnici di lettura e interpretazione, da quelli cognitivi del processo di ricerca e ragionamento, da quelli omissivi (si utilizzano alcuni documenti escludendone altri che porterebbero a diverse conclusioni), alla vera e propria falsificazione consapevole e in malafede.
    b) In secondo luogo la cattiva storiografia dipende anche da interpretazioni e racconti che si ispirano ad ambizioni che esulano dalla storiografia, cioè ambizioni filosofiche, religiose, ideologiche di vario tipo. Anche una corretta lettura dei documenti può portare a racconti storici falsi. Ma in genere, in questi casi, se l’esposizione dei dati fattuali è corretta, il lettore esperto è in grado da solo di correggere gli errori dello storico e, sulla stessa base fattuale, di costruire un diverso racconto.
    c) Infine la cattiva storiografia può derivare semplicemente dalle cattive qualità dello storico nell’esporre il suo lavoro. Quanti libri si pubblicano che, anche quando sono interessanti per la documentazione contenuta e per le tesi sostenute, sono illeggibili e inaffidabili (salvo verifiche) perché organizzati male e scritti peggio e il buono che hanno non riesce ad emergere. Ma questo aspetto è per noi meno interessante.

    9) La storiografia non è e non può essere una scienza esatta, e nemmeno una scienza meno esatta come l’economia o la sociologia, ma può però essere coltivata con animo e metodo scientifico. E lo è solo quando lo storico, nel suo lavoro, qualunque sia la suggestione psicologica o esistenziale o ideologica di partenza, si sforza con rigore e onestà di tenere conto solo dei risultati dedotti dalla documentazione, senza lasciarsi influenzare dai suoi problemi personali, da quelli eventuali di carriera e da quelli di appartenenza ideologica o religiosa o politica o anche solo di «gruppo» di colleghi e amici.
    Difficile. Molto più difficile per uno storico piuttosto che per un matematico o un fisico, perché, mentre nella “falsificazione” del lavoro matematico e fisico spendono qualche energia solo certe corporazioni accademiche, in quello del lavoro storiografico è l’intera società a spendere moltissime energie, perché l’intera società, spesso, desidera dei racconti storici consolanti e non la verità. Nel racconto storico c’è imbrigliata l’intera coscienza di un popolo e ciò rende difficile il lavoro di scavo della verità e di conquista di una memoria comune.

    10) Ma il problema vero e di fondo rimane comunque quello della verità. Che non è mai assoluta, proprio perché il passato non esiste più e sul passato non possiamo fare esperimenti. Ma è una “verità storiografica”, che si revisiona, si amplia, si affina via via nel corso del lavoro di ricerca.
    Ed è una verità che in qualche misura si rassomiglia alla “verità processuale”, che può non coincidere con la verità in assoluto, perché deve coincidere con la verità che emerge nel corso del processo.
    Talvolta – il caso Cesare Battisti ne è una conferma che ci viene dalle cronache delle ultime settimane – la verità processuale e la verità storica si incrociano.

  2. Temo che queste buone riflessioni di Luciano [Aguzzi] nascano, almeno in parte, da un equivoco. La mia affermazione o constatazione («Tutte le bussole – e non solo gli attrezzi artigianali disponibili al pubblico di massa ma anche le macchine teoriche raffinate – sono in avaria». ), io la riferivo alla teoria o al pensiero contemporaneo in generale, come egli pur ha pensato («Se invece per «macchine teoriche raffinate» si intendono dei modelli interpretativi della storia, cioè costruzioni che appartengono alla filosofia della storia e non alla storiografia») e non soltanto agli storici e al loro lavoro.

    Quindi trovo in buona parte condivisibile la sua difesa della storiografia seria e onesta, ma voglio aggiungere alcune precisazioni e qualche obiezione alle sue posizioni:

    1.
    « La “storia” è tutta una riflessione sulla “storia”.».
    Io correggerei così: la storia, intesa come storiografia o lavoro degli storici, è tutta una riflessione sulla storia. Che “esiste”. Certo in maniera meno ponderabile e accertabile della “scienza”. “Esiste”, ad esempio, come la psicanalisi o, perché no, le religioni. Cioè in modi più controversi e spesso più incerti e anche problematici. ( Ma, del resto, questo vale anche per la “scienza” o le scienze). E a me non pare che la storiografia non si riferisca – a modo suo, diverso ad esempio dal giornalismi legato all’”attualità” – al «presente». (Tra l’altro la rubrica di Poliscritture la intitolammo «Storia adesso», proprio per indicare questo stretto legame tra storia/storiografia e tempo presente). Il «passato», certo, non esiste (più), ma – si potrebbe dire – è “incorporato” nel presente, vi ha lasciato tracce – o testimonianze, come Luciano dice – più o meno marcate, che in varia misura lo condizionano. E, quindi, sempre in certi modi e in una certa misura (da verificare e precisare), *esiste*. (Mi pare che fu Rusconi a parlare di un “passato che non passa” riferendosi alla Germania, ma credo che quanto sta avvenendo nel nostro “presente” dia una conferma a questa formula sicuramente non progressista e poco tranquillizzante).

    Se poi dovessimo prendere sul serio la tesi (kantiana, mi pare) sostenuto dal fisico Carlo Rovelli nel suo recente «L’ordine del tempo», semplificata nello slogan pubblicitario “Il tempo non esiste”, e vedere quali implicazioni potrebbe avrebbe in campo storiografico, il discorso si complica. E qui non è il caso di affrontarlo. Né io sono in grado di promuoverne uno svolgimento utile.

    2.
    « Così è che fra quel passato non più esistente e per noi inattingibile e l’idea che ce ne facciamo, oggi, ci sono di mezzo diverse mediazioni».

    Anche qui correggerei quel «e per noi inattingibile». Direi: solo in parte o, se si vuole, in minima parte attingibile. Come del resto, succede in tutti i campi e non solo nella storiografia, poiché quella che chiamiamo “realtà” è qualcosa di sfuggente e l’idea che ce ne facciamo non corrisponde mai completamente e sicuramente ad essa.

    [Proprio ieri leggevo una riflessione su Caproni in «L’immaginazione» n. 310, che metteva bene a fuoco questa inafferrabilità (non assoluta, se no non staremmo neppure a parlarne) della realtà da parte del linguaggio (poetico nel caso):

    « Secondo Caproni infatti, il poeta è colui che, imbracciato il fucile del linguaggio, “impallina” e afferra una realtà che non potrà mai essere davvero riprodotta nella sua sostanziale consistenza, né tantomeno essere conservata “vivente” dentro la parola. La parola – e di conseguenza ogni pensiero fondato sulle leggi logiche del linguaggio – resta un’illusione di mondo, una simulazione che non mantiene nulla della vita di ciò che nomina. È dunque proprio la realtà, o se vogliamo la vita vissuta, quell’imprendibile Bestia «che – catturata – resta / in perpetuo distante». L’unica cosa che si potrà fare, allora, è rimanere davanti al mondo nella sua muta presenza, percepita attraverso i sensi, tesi ad assaporare una bellezza che nulla potrà mai trattenere: «Per quanto tu ragioni, c’è sempre un topo – un fiore – a scombinare la logica. Direi che tutto nel tuo ragionamento è perfetto, se non avessi davanti questo prato di trifoglio. E sarei anche d’accordo con te, se nella mente non mi bruciasse ].

    3.
    «Se invece per «macchine teoriche raffinate» si intendono dei modelli interpretativi della storia, cioè costruzioni che appartengono alla filosofia della storia e non alla storiografia, allora è bene che siano in avaria, anzi è bene che scompaiano del tutto».

    Non sono d’accordo. E mi chiedo che accadrebbe dopo questa totale scomparsa e da quali altri «modelli intepretativi» esse (le macchine teoriche) verrebbero sostituite. Qui mi pare affiori il “nichilismo anarchicheggiante” di Luciano. Non sono d’accordo che qualsiasi modello interpretativo (della realtà, della storia) porterebbe automaticamente alla manipolazione; o, nel caso della storia, a « un racconto del passato non veritiero». E che se alcuno cadono ci si debba tentare di costruirne degli altri.

    Ma su questo punto affiora anche la fiducia, per me esagerata e unilaterale (forse neo-neo-positivista?) di Luciano per un « lavoro storiografico [fatto] in maniera scientifica», che dovrebbe essere del tutto esente da quegli « errori, manipolazioni, falsificazioni, più o meno consapevoli, in buona e in malafede» in cui, secondo lui, cadrebbero soltanto certi teorici o gli storici più orientati (filosoficamente o politicamente) e non i teorici o gli storici “scienziati”.

    Ora non è detto che uno storico politicamente orientato non sia rispettoso degli standard scientifici raggiunti dalla sua disciplina e che automaticamente debba manipolare. A meno che non ci troviamo di fronte ad un Faurisson. Quindi, eviterei di ammucchiare nel mazzo dei manipolatori storici seriamente militanti e li valuterei, invece, sia in base alla fondatezza scientifica dei risultati raggiunti e sia in base alla qualità della loro interpretazione *di parte*. Che non mi spaventano affatto.

    4.
    Non mi illuderei, invece, sulla facilità o possibilità di arrivare ad una memoria condivisa su certi fenomeni storici intricati e complessi come fascismo/comunismo o razzismo/ multiculturalismo (o sovranismo/mondialismo).
    Innanzitutto per quanto detto sopra sul presente che ha “incorporato” il passato ( e quindi anche il conflitto del passato!) e ci deve fare i conti. E poi anche una «storiografia attenta ai suoi propri compiti» (e penso sia a storici orientati politicamente che a quelli “scientifici” o “neutri” intenzionati soprattutto a «conoscere di più e meglio», a patto che si dimostrino seri e non propagandisti travestiti da storici) non credo che possa avere mai del tutto l’ultima parola. (E perciò ho scritto: «nella storia reale – accaduta o che accade – di fatto siamo tutti implicati: insegnanti, storici, politici, studenti, pubblico televisivo»).

    Non si tratta, infatti, di spurgarsi soltanto delle « incrostazioni ideologiche, per fanatismi politici, per falsificazioni storiografiche». È che – nella realtà e non solo nei pensieri – siamo sotto molti aspetti dentro le «gabbie che in quegli anni gli opposti schieramenti hanno costruito». Vedi, a riprova, il faticoso riconoscimento del valore di «Una guerra civile» di Pavone. E, adesso, – un esempio tra i tanti – questa messinscena degli “oscurantisti” in difesa della “famiglia” a Verona.

    Secondo me, è sbagliato parlare per questi e per algtri esempi allarmanti che la cronaca ci offre di semplici ritardi o «deviazioni», che prima o poi, illuministicamente, attenendoci (tutti?) ai dati fattuali, verranno riassorbiti, giungendo prima o poi a «una conclusione unanime».
    Non è possibile nessuna unanimità, ma solo uno scontro forse meglio regolato o meno distruttivo. ( Qui rimanderei alla controversa e interrotta discussione che tentai su “Comunismo” di Fortini: https://www.poliscritture.it/2017/02/09/appunti-politici-3-comunismo-di-f-fortini/). Perché sia queste “superstizioni” sia i dissidi tra gli storci rimandano al sordo e irrisolto conflitto che permane nelle nostre società e in mille mod ci condiziona tutti, “ignoranti” e “colti” .È esso che impedisce alla «verità» non solo di diventare «assoluta» ma di essere sottoposta continuamente al supplizio di Tantalo delle strumentalizzazioni, delle manipolazioni o di una continua “rersistrenza” per non farla soffocare del tutto (Cfr. https://moltinpoesia.blogspot.com/2012/11/ennio-abate-sulle-cinque-difficolta-per.html). E questo accade non perché « il passato non esiste più e sul passato non possiamo fare esperimenti» (rivedere quanto ho detto sopra) ma perché, come ho accennato nel finale siamo a un punto della sgtoria “quasi al buio” o davanti a “colonne d’Ercole” che non sappiamo se oltrepassare o no.

  3. A PROPOSITO DI FATTI E DI DATI FATTUALI….
    Ho trovato per caso questa intervista a Paolo Fabbri, semiologo, che può avere qualche relazione con l’obiezione che ho fatto a Luciano Aguzzi sulla sua eccessiva fiducia nel valore in sé dei dati o dei fatti. La segnalo. [E. A.]

    SEGNALAZIONE

    Intervista a Paolo Fabbri
    Di Maria Grazia Falà
    https://www.mariagraziafala.it/paolo-fabbri-serie-tv-e-feuilleton-parliamo-sempre-di-generi/?fbclid=IwAR3DXZ-SHBAUAnZKg80FD5WegM314Wmg2kheJoqjvvMTllaCDmR4uPcnA0o

    Stralci:

    1.

    il fatto si è travestito in dato. Ora, per non metter in causa la pertinenza degli algoritmi che sono costruiti, la questione importante è se, dall’uso di certi algoritmi che producono una grande quantità di dati – fatti, posso stabilire automaticamente, nel senso di automa della macchina, l’emergenza di sensi e di valori. Ma, se parliamo di reperimento dei dati, emergono due obiezioni che ci fanno riflettere. Una è il Corano, in cui non c’è mai la parola “cammello”, e se uno lo va a studiare con le nuove tecnologie la parola non si trova nel senso che era presupposta, in quanto era così frequente da non essere necessariamente espressa, ma data per scontata.
    Un altro esempio è la parola “noia” in Madame Bovary di Flaubert, parola che non si trova quasi mai, mentre Madame Bovary si annoia moltissimo ed è la ragione per cui fa tutte quelle cose che sappiamo. Anche lì non si può trattare la superficie cosiddetta fattuale del testo, ma bisogna ricostruire la significazione generale, dopodiché si capisce che a volte non c’è bisogno della parola perché è implicita.

    2. Lei parlava di cultura grammaticalizzata e di cultura testualizzata. Mi potrebbe, brevemente, fare la distinzione?
    È una definizione che ho ripreso da Jurij Lotman, grande semiologo estone. Lui diceva che in una cultura ci sono degli aspetti formalizzati e articolati l’uno rispetto all’altro, e in questo caso essa è come una grammatica, in un sistema di dipendenze logiche e di relazioni – nel senso che se si mette un articolo al singolare non si può mettere un nome al plurale. Quanto a cultura testualizzata, lui si riferiva a un tipo di cultura che non ha queste caratteristiche di collegamento. Grammaticalizzata significa codificata, testualizzata va intesa nel senso di narrativizzata. La gente sa come raccontare, ma se gli si chiede per esempio di formalizzare un’opposizione, come ricchi – poveri, immigrati – italiani, non è detto che lo sappia esplicitare.
    Lei affermava che la cultura “alta” era grammaticalizzata, mentre quella di massa era testualizzata. Si sentirebbe di fare la stessa affermazione a distanza di oltre quarant’anni?
    La ricerca è andata avanti, il concetto di “massa” è stato messo in causa per moltissime ragioni. Una è certamente perché ci si è accorti dell’enorme differenza tra i tipi di pubblici dovuta alle loro diverse forme di informazione. Prendiamo due esempi, Crozza e il film Benvenuti al Sud. Si erano accorti che Crozza aveva un enorme ascolto al Nord e non al Sud. Se uno fosse un empirista dei fatti direbbe che la gente del Sud non ha lo stesso senso dell’umorismo di quelli del Nord, mentre è un problema di informazioni. Crozza si riferisce costantemente ai giornali, specialmente Repubblica, cogliendo certe informazioni politiche, che al Sud sono molte meno diffuse. Non è pertanto una questione di humour, tant’è vero che Made in Sud di De Martino e trasmissioni con quel tipo di humour hanno un enorme successo. Lo dico ancora una volta per il problema dei dati: se non diamo un’interpretazione a questi ultimi non riusciamo a dare senso al più ovvio dei comportamenti. La cosiddetta “massa” è quindi molto articolata in pubblici dotati di informazioni diverse, ed è chiaro che la differenza tra cultura grammaticalizzata e cultura testualizzata è all’interno dei diversi pubblici. È chiarissimo che, nel caso di Crozza, una acculturazione politica, cioè una grammaticalizzazione della cultura politica, è fondamentale per poterne ridere. È una cultura testualizzata quella per cui, quando lei chiede a molti italiani come si chiama il Presidente del Consiglio, non lo sanno, così come, quando dicono che tutti i politici sono corrotti, non sanno dire dei nomi.
    A proposito della difficoltà di recepire un messaggio da parte delle classi cosiddette svantaggiate, lei ha preferito parlare di differenza anziché di deficit. E qui viene fuori il problema degli effetti delle comunicazioni di massa…
    Il termine deficit è un termine quantitativo, cioè c’è della gente che ha delle cose e della gente che non ce l’ha come, a proposito dell’informazione, c’è chi ce l’ha e chi non ce l’ha. La nozione di deficit invita a pensare ad una mancanza irrisolvibile. Ad esempio, si è molto parlato a proposito di Internet di digital divide, cioè la differenza tra quelli che avevano Internet, sapevano usare un computer, ecc. e la maggior parte della gente che non ne era capace. Bene, si sono accorti oggi che il 95% delle persone compresi ragazzini ma anche persone di età notevole utilizzano il computer benissimo, anche se magari non tutte le sue enormi risorse. Parlare in termini di deficitnon è una soluzione interessante, quello che ci interessa invece è che ci sono delle differenze nelle modalità di fruizione di un messaggio. Per esempio io sono un caso di deficit dei social media, perché ho deciso di non utilizzare Facebook: non posso passare la vita lì come molti miei colleghi che ormai hanno una esistenza digitale. Se io ho deciso di non utilizzare questo social media sono in deficit? No, ho stabilito una differenza. Per individuare una differenza credo che sia molto importante vedere anche le statistiche per sapere ciò che le persone utilizzano. Per esempio l’uso di Skype nel campo scientifico è fondamentale per parlarsi a distanza, per tenere delle conferenze, però è anche vero che Skype nel quotidiano è poco usato. Mi interessa più stabilire le differenze della significazione dell’uso di certi media, piuttosto che parlarne in termini di deficit.

    3.
    Macron, il presidente francese, ha lanciato il Grand Débat National sulla politica e la governabilità: un appello alla popolazione francese, “Portateci le vostre esigenze”. Sono arrivate istanze o cahiers de doléance per trecentomila pagine, cioè 68 milioni di parole da elaborare in due settimane. “Chi le leggerà?”, e come mettersi d’accordo sui criteri da utilizzare per un’analisi sensata e obbiettiva? L’idea è: prendiamo degli algoritmi, ma si litiga su che tipo di algoritmi prendere, in quanto il risultato dipende dal tipo di algoritmo il quale seleziona e sintetizza certi cosiddetti dati, cioè certi elementi dotati di senso e valore piuttosto che altri. La questione è molto spinosa per i francesi. Occorre stabilire che tipo di analisi di contenuto articolato, cioè di analisi semantica dobbiamo fare per capire questi big data: milioni di parole scritte da persone diverse, con formati, stili, gerghi e accezioni diversissimi. Va bene farle leggere ad una macchina, però alla macchina devi dare delle informazioni e istruzioni di trattamento perché non tutte le volte che compare la parola Hitler o Mussolini possiamo dire che un testo è di destra e che Madame Bovary non si annoia.

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