di Angelo Australi
La goccia che scava, di Francesco Luti, è un romanzo scritto con un’attenzione particolare allo stile che evolve consapevolmente in una trama, passando al setaccio il ruolo dell’intellettuale testimone degli eventi della guerra civile spagnola e le conseguenze della dittatura franchista. Rientra in quel filone della letteratura italiana dove la storia fa da orizzonte all’analisi esistenziale della vita dei personaggi, e anche il lessico si cala coerentemente nel clima di un epoca dove, per trovare una forma di coerenza utopica, diventa indispensabile circoscrivere uno spazio d’azione nel quale incontrare la realtà.
Nel bisogno di scoprire dove è sepolto il padre, un intellettuale fiorentino morto in uno scontro con i fascisti inviati da Mussolini alla guerra di Spagna, di cui nessuno sa dove sia finita la salma, si nascondono le motivazioni etico psicologiche del figlio.
Felice Centori di suo padre non ricorda altro che il gesto di andare a combattere a fianco dei Republicanos. Nel romanzo, che si sviluppa intorno alla ricerca del luogo di sepoltura del padre, c’è intrinseco il bisogno di capire quella sua decisione, perché così il figlio spera di incontrare se stesso sentendo più vicino un passato che sta ricostruendo solo grazie al racconto di chi lo ha conosciuto in vita.
Ecco perché a mio giudizio La goccia che scava è anche, e soprattutto, un romanzo di formazione.
La trama si sviluppa come l’indagine di un detective che attraverso un percorso verso la bellezza, trova la consapevolezza della vita reale, dove c’è l’amore, la famiglia e gli amici della gioventù che si allontanano, dove si diventa a sua volta padri. La letteratura è un punto di vista sul mondo, ma questo privilegio non si acquista mai nella stagione dei saldi, fa parte di un percorso impervio, dove è obbligatorio fare i conti con se stessi, consapevoli che comunque la finzione della scrittura produce una realtà riflessa da uno specchio, e che alla fine si spera sempre di tornare alla vita, a cercare l’uomo.
La storia si svolge fra Firenze e Barcellona, in un trentennio che va dal 1937, anno in cui muore il padre, al 1958, quando Felice Centori ottiene il suo incarico presso il Centro italiano di cultura di quella città, e si riflette a ventaglio sugli anni Sessanta. La trama si cala in quegli anni, cerca di trovare un punto d’incontro tra le due città con una dettagliata ricostruzione storica del fermento intellettuale, intrecciando la cultura spagnola, costretta alla clandestinità dal franchismo, a quella italiana, e fiorentina in special modo, che già negli anni cinquanta, uscita dalla tragedia della guerra e dal fascismo, polemizza con le illusioni del boom economico. Il clima culturale era alto, e Francesco Luti lo racconta dettagliando gli eventi ed i personaggi di quel periodo storico, ai quali Felice Centori si lega per cercare di capire chi fosse suo padre.
Le varie tematiche sono tenute insieme da una forma ed un tono della scrittura veramente originali, dove la commistione tra lo spagnolo e un italiano arricchito di una certa toscanità, producono un flusso fluidificante e coraggioso che finisce per affermarsi nella consapevolezza del primato della scrittura.
Francesco Luti si è inserito da molti anni nella vita di Barcellona, dove ormai lavora. Questo parallelismo tra le sue solide radici fiorentine, legate anche alla figura dello zio Giorgio Luti, con il presente vissuto in Spagna, traccia uno spartiacque che emerge dalla sua scrittura come un fiume carsico. L’acqua, prima di zampillare in superficie, ha fatto un lungo viaggio nei cunicoli rocciosi delle profondità della terra e così, in questo spostarsi, ormai diviso, combattuto dai condizionamenti delle due lingue con le quali parla, e scrive, c’è l’istanza di trovare una propria autenticità poetica.
Lo ammette l’autore stesso, in questa frase del romanzo messa in bocca al suo personaggio:
“Eppure Felice amava la lingua spagnola che gli fioriva in bocca quotidianamente poiché la lingua straniera è lingua dell’intelligenza… E adesso quel parletico che udiva seduto in corriera, gli fece pensare a tutto un discorso sulla lingua materna e straniera, e anche al fatto che le radici si possono piantare da altre parti e averle altrettanto sincere.”
Il romanzo è uscito nel 2013, presso la Casa Editrice fiorentina Nicomp.