Questo è uno dei tre poemetti di Arnaldo Éderle, che avevo in lista e avrei pubblicato nei prossimi giorni. Purtroppo mi arriva adesso la brutta notizia che presentivo per il suo silenzio. [E. A.]
Gent. Dott. Ennio Abate, sono lo scrittore veronese Franco Casati, amico di Arnaldo Éderle. Le scrivo con grande dolore per darle la notizia della morte di Arnaldo, avvenuta l’altra notte, 2 maggio, presso l’ospedale geriatrico di Verona. So che anche lei era suo amico, non ci resta che condividere lo stesso dolore.
di Arnaldo Éderle
Se potessi piangere, ma non posso
mi sembra di non avere più lacrime,
cerco di spingerle fuori, ma non vengono,
è una situazione che capita a quelli della mia età,
non si sa perché, o forse si sa ma io non lo so,
non lo sento più lo stimolo non sono
capace di avvertire la goccia che scende dall’occhio
e mi irrora le guance. Sì, ci sarà un perché
scientifico ma io non lo conosco
e non mi va di cercarlo.
Il pianto è un lavacro del cuore e delle
membra del fegato e dei polmoni è una risciacquatura
del cervello. Si dice “piangi piangi! Che ti fa bene”.
Ma lo si dice, ma lo si dice quando il cuore
ha già proposto lo scrosciare delle lacrime,
quando la bocca ha già la forma del salvadanaio
con le punte in giù, quando tutto
è già successo, lo si dice quando il calice
è pieno e non si vede il momento di svuotarlo.
Ecco, allora si dice, quando il petto è già tutto
gonfio del tuo dolore.
Ecco, questo è il viaggio del pianto. Io so solo
questo.
E non vi pare che basti? I vecchi non ne sanno
di più, e non possono perché sono vecchi
e le lacrime le hanno già tutte usate,
non ce ne sono più nelle vescichette dentro
gli occhi, non scendono più.
Chissà quanti mammalucchi sapevano piangere.
Non so, erano popolazioni abituate
al pianto e all’esaltazione. Certo i mammalucchi
sapevano piangere, inondare le loro capaci
palpebre d’acqua salata e portarsele fin sullo
stomaco o bersele mentre raggiungevano la pancia.
Ah, i mammalucchi!
Ora non so più citare altri popoli piagnoni,
ma ci saranno, ci sono.
A quei tempi le lacrime si spargevano ad ogni passo
anche i guerrieri piangevano o morivano tra urli
e scalpitii, le loro gambe non saltavano più
le loro braccia lasciavano cadere le lance
e piangevano piangevano disperati.
Chissà, forse è una descrizione impropria
ma mi fa piacere proporla.
I popoli piangono, non come me,
i popoli si stringono la pancia e piangono
i popoli fanno questa misera operazione
e spargono lacrime sui loro piedi, lacrime
lunghe piene di sale e poi se le bevono
e intanto il loro corpo si calma e per un minuto
respirano aria buona e profumata.
A me non capita più, sono asciutto.
Ah, le lacrime sono gocce di rugiada, bagnano
le paffute guance dei bambini come una piccola
pioggia-dei-pastori là nella lontana Moldavia ,
quasi non se ne accorgono, anzi no,
se ne accorgono eccome, si rinfrescano
e continuano a spingere le loro pecore
le loro capre in mezzo a fili d’erba bagnati
dritti come i capelli appena pettinati
dei ragazzi.
Capitasse anche a me! Le lacrime dei vecchi
non bagnano le gote, restano negli occhi
e piangono all’indietro.
Ce ne sono di vecchi anche tra i bellimbusti,
ma questi se ne fregano delle lacrime, a loro
interessano i loro occhi asciutti
con le pupille tese verso i portafogli
degli altri e sembra che i loro occhi
siano destinati solo a questa
altissima funzione.
A questa altissima funzione.
Oh, se potessi piangere.
se potessi imprigionare i miei sospiri
nelle dolci lacrime e me le potessi succhiare
come squisite caramelle variopinte sotto
la lingua, se potessi distinguerle dai miei
amari sospiri e dedicar loro i miei affanni
e le mie discrete palpitazioni che mi gonfiano
il cuore.
Certamente lo gradirei, come una anziana signora
seduta nel soggiorno d’una vecchia villa
appesa in campagna, dopo una corsa nella prateria
dei dintorni dove un antico palazzo accoglie
graditi ospiti pacifici intorno a un tavolo rotondo.
Questo vorrei e lo voglio con la forza
d’un transito voluto e dentro una chiacchierata
fra persone decenti e oneste,
come uomini e donne sani e disinvoltamente
ospitali.
Le ultime poesie su Poliscritture non facevano che parlare di questo, del suo a lungo incontro, della sua preparazione, del suo stare comunque dalla parte della vita, fin che c’era, unico luogo da cui si può interrogare la morte. Anche verso i suoi dolori (“le mie povere gambe”) e nei confronti di chi lo assisteva con allegria e vitalismo, la sua parte consisteva sempre nella riconoscenza e il profondo rispetto umano. Mi mancherà sicuramente ma credo di avere preso da lui, per quell’esile incontro di parole accaduto, il conforto per una stessa riservata apertura, fiducia e chiarezza di posizione.
Sit tibi terra levis.
Faccio anche mie le parole di Cristiana Fischer: ho conosciuto Arnaldo Éderle solo «per quell’esile incontro di parole accaduto, il conforto per una stessa riservata apertura, fiducia e chiarezza di posizione».
Poeta molto diverso per biografia, indole e scrittura da Eugenio Grandinetti, li voglio qui collegare rileggendo una poesia di Eugenio sulla morte:
*
ALLA MORTE
*
Morte che giungi sempre non gradita,
anche quando la vita
non è che un penare lungo, un’agonia
che si trascina tra sospiri e rantoli.
Io non ti guardo come una nemica
e tu siimi benevola,
e quando verrà il momento non lasciare
che il corpo si ribelli a te, che lotti
per respingerti, ma si abbandoni a te
come amante che attenda il caldo abbraccio
dell’amata che ansiosa l’attendeva.
*
Eugenio Grandinetti (tratta dalla raccolta «Alla rinfusa», 2013)
Riporto, innanzitutto per ricordare a me stesso, poi per gli amici di Poliscritture, una breve scheda biografica di Èderle che estraggo dalla descrizione di uno dei suoi diversi volumi di poesia.
*
«Arnaldo Èderle, poeta, narratore, critico e traduttore, è nato a Verona nel 1936. Ha seguito studi linguistici e musicali (armonia e pianoforte). Ha pubblicato: “Le pietre pelose ben osservate” (Verona, Ferrari, 1965), “Racconti” (Verona, “Il Nuovo Adige”, 1974-78), “Vocativi e querele”, prefazione di G. Piccoli (Milano, Il Trifoglio, 1981, Premio Alassio 1981), “Partitura” (Guanda, 1981), “Il fiore d’Ofelia”, introduzione di G. Raboni (Milano, Società di Poesia-Bertani Ed., 1984, Premio Gatti 1985), “La chiesa di Santa Anastasia” (Verona, Office Automation, 1992), “Contre-chant”, introduzione di S. Ramat (Mondadori, “Almanacco dello Specchio” n. 14, 1993), “Paradiso”, introduzione di F. Bandini (Udine, Campanotto, 1993, finalista Premio Metauro 1995), “Il caso Tramonto”, racconti (Udine, Campanotto, 1995) “Cognizioni affettive”, prefazazione di M. Cucchi (Roma, Empirìa, 2001, Premio L. Fiumi 2002, finalista Premio Dessì, 2001, Premio San Pellegrino Terme, 2002), “Arcipelaghi” (Casette d’Ete AP, Grafiche Fioroni, 2001),” Sostanze”, prefazione di G. Galetto (Verona, Bonaccorso, 2004, finalista Premio Camaiore 2005),” Varianti di una guarigione”, prefazione di S. Verdino (Roma, Empirìa, 2005, Premio Battista-Circe Sabaudia, 2006), “10 Divagazioni sul corpo umano” (Mondadori, “Almanacco dello specchio” 2008), “La luce dei cristalli”, scritti critici (Verona, Bonaccorso Ed. 2008), “Stravagante è il tempo” (Roma, Empirìa, 2009, finalista prima rosa al Premio Viareggio-Repaci, 2009), “Sandwich”, romanzo (Verona, Bonaccorso, 2010), “Frammenti imprevisti”, Antologia della poesia italiana contemporanea, a cura di A. Spagnuolo (Kairòs Ed. 2011), “Poeti e poetiche” a cura di G. Lucini (CFR Ed. 2012), “Vocativi e querele”, 2^ edizione (Piateda, CFR ediz., 2012), “Negrura” (Piateda, CFR ediz. 2012), “Poemetti per Negrura” (Piateda, CFR ediz., 2013), “Burlesque”, prefazione di G. Lucini (Como, Lietocolle, 2014), “Il deserto di Usèg”, Nota di lettura di G. Lucini (Piateda, CFR, 2014), “Le magnifiche donne di Glencourt” (Piateda, CFR Ed. 2014), “Quadernario”, Almanacco di poesia contemporanea, a cura di Maurizio Cucchi (Como, LietoColle, 2015), “Poemetti e racconti in versi” (Como, LietoColle, 2016). Oltre ad aver tradotto da G. d’Aquitania, J. Clare, S. J. Perse, M. Maeterlinck, ha curato e tradotto per Guanda due libri di prosa: “Ombre italiane” di Vernon Lee (Biblioteca della Fenice, 1988) e “Amanti assassinati da una pernice” di F. García Lorca (Quaderni della Fenice, 1993). È stato tradotto in spagnolo, inglese, olandese. Scrive per “L’Arena”, “Il giornale di Vicenza” e “Bresciaoggi”. Collabora a “Poesia” di Milano.
“Oh, se potessi piangere”, ma il poeta non riesce più a versare lacrime, il viaggio del pianto è finito, ma con ciò risveglia (anche in noi) un pianto corale, bucando lo spazio e il tempo: sono le lacrime di popoli “piagnoni”: mammalucchi, antichi guerrieri, “pioggia-dei pastori là nella lontana Moldavia”, quelle di un’anziana signora ospitale nella sua vecchia villa di campagna…Con tanta consapevolezza del dolore, ma a tinte fiabesche e arabescate il poeta Arnaldo Ederle annuncia il suo commiato…grazie, dispiace
Contro la morte nulla possiamo. A me spiace solo che, malgrado abbia sempre pubblicato mano mano tutti i testi che mi mandava, non siamo riusciti a confrontarci criticamente su alcuni aspetti della sua poesia e, più in generale, sull’uso oggi possibile (o in quali forme ancora necessario) della poesia. Arnaldo ha sempre evitato di replicare alle mie “pro-vocazioni”, ma ho rispettato senza alcuna acredine la sua scelta.
quando muore un poeta è sempre e comunque triste
antonio sagredo
Ci siamo conosciuti tanti anni fa, lui poeta affermato ed io agli inizi, mi ha dato delle dritte fantastiche sul mio poetare, lo ha inquadrato, ha capito cosa dirmi e quando e che se porgeva attenzione ne valeva la pena. Poi non ci siamo più visti, io ho trasferito in teatro la mia scrittura e poi la regia, ma ho trasferito anche me stessa al di fuori e non ho avuto spazio per lui. Ora guardo la sua foto e i rimorsi sono davvero tanti, perché ha saputo darmi con generosità una parte della sua cultura. Perdonami Arnaldo. Graziella
“e i rimorsi sono davvero tanti”….
E’ sempre così con quelli che perdiamo (o anche semplicemente perdiamo di vista…).