di Ennio Abate
L’incontro dell’8 marzo è stato dedicato alla discussione sugli autori di riferimento dei partecipanti al laboratorio.
Dagli interventi scritti di alcuni e da quelli a voce di altri sono stati fatti vari nomi. Cito a titolo indicativo e come mi vengono: Emily Dickinson, Dante, Leopardi, Alda Merini, Szymborska, Carducci, Pascoli, D’Annunzio, il poeta neogreco Nasos Vaghenàs, Lucrezio, Hikmet, Kavafis, Montale, Pessoa, Raboni. Chi non si è espresso o era stavolta assente avrebbe potuto aggiungerne altri, molti altri forse.
Questi nomi – è cosa da riflettere – non hanno orientato se non alla lontana la discussione. Sono stati da quasi tutti cautamente presentati come “preferenze personali”. La loro lettura (in privato) – si è detto in particolare per la Dickinson – ha avuto il merito di incoraggiare la propria scrittura. Diversi hanno riferito che, sì, quelli nominati erano o erano stati i loro autori di riferimento, ma assieme a molti altri o che da essi hanno tratto solo degli spunti o che l’influenza era limitata a fasi della loro ricerca o che ne erano stati «influenzati ma non vincolati».
Quasi tutti hanno scartato – mi pare – l’idea che il proprio o i propri autori di riferimento vadano intesi come modello forte da imitare o seguire, come maestro/i in senso pieno.
D’altra parte non c’è stato nessuno che abbia contestato il fatto che si debbano avere degli autori di riferimento. Il rituale è di fatto accettato. Tranne forse da G. P., che nel suo intervento, appellandosi a una sensibilità da Eden infantile («Il bambino che sentiva i sentimenti sorrideva ai sorrisi, alle chitarre dei grilli e non sapeva dei fiori: erano lui stesso, la casa e tutti le piccole felicità che provava»), ha espresso un forte scetticismo e criticato tutto e tutti: la scuola, gli storici e i critici letterari e ogni «ingegneria letteraria».
Dalla discussione è emersa un’oscillazione, un’ambivalenza verso gli autori di riferimento.
L’ha espressa all’inizio B. D., quando ha accennato a un sentimento anche di paura nei confronti degli autori da lei amati.
Qualcuno – E. G. ad es. – pur citando Lucrezio ed altri, ha teso a limitare il principio di autorità implicito nel termine stesso di autore, e ha sottolineato che ciascuno di noi è portatore di culture diverse e che in queste rientrano anche alcune forti individualità del passato più o meno recente.
Altri invece – F. V. ad es. – ha espresso una vera e propria nostalgia dell’autorità: «Vorrei averlo un maestro!».
L’oscillazione si è ripresentata quando la discussione ha toccato questioni di poetica o di regole (le metriche classiche più o meno sostituite dal “versoliberismo”), D. ha richiamato il valore della triade canonica di fine Ottocento-inizi Novecento (Carducci, Pascoli, D’Annunzio). Quegli autori – ha detto – «non recidevano il rapporto con la Tradizione». F. V., d’accordo con D., ha ribadito l’esigenza di avere delle regole metriche e non solo o almeno di conoscerle, magari «per romperle meglio». A. ha fatto l’avvocato del diavolo chiedendo un po’ provocatoriamente: «E se non ci fossero più maestri? E se la lezione dei maestri fosse oggi quasi irrecuperabile o difficilissima da recuperare?». L. B. ha ricordato l’ira di Giuseppe Pontiggia, che in un laboratorio di scrittura aveva affermato all’incirca: «Basta coi maestri! Siamo stati rovinati dai maestri!».
Preciso che avevo introdotto il tema in modo problematico: per secoli gli autori di riferimento c’erano davvero stati e in senso pieno (Virgilio per Dante, quelli del mondo antico greco-romano per gli umanisti), ma che almeno dal primo Novecento, con le avanguardie artistiche, è avvenuta una profonda rottura col passato e la “Tradizione”. La discussione non si è soffermata sul perché di quella rottura né su quanto sia stata radicale. Che è il problema tuttora da valutare, specie se pensiamo alle risposte contraddittorie venute anche da poeti contemporanei. Alcuni, infatti, hanno puntato al recupero di forme metriche chiuse da tempo abbandonate (e sono stati fatti i nomi di Raboni, Valduga, Frasca). Altri, invece, hanno proseguito ad oltranza sul varco aperto dalle avanguardie novecentesche (Sanguineti e, in modi propri, Zanzotto, lo stesso G. Majorino, etc.).
Personalmente penso che il problema resti aperto e di difficile soluzione (e che le oscillazioni o le rotture delle scelte formali segnalino ben altre rotture sociali, politiche, economiche, culturali). Se, infatti, invece che delle preferenze personali per un autore o un altro, ci poniamo la questione pubblica – perché la poesia ha una dimensione pubblica e il nostro laboratorio dovrebbe occuparsene -, ritroviamo la stessa oscillazione emersa dalla nostra discussione. Pensiamo ad alcune recenti antologie poetiche: c’è chi oscilla tra un “canone stretto” con pochi o pochissimi “preferiti” (è il caso della recente antologia di Piccini) e chi abbozza un possibile “canone largo” (l’antologia «Parola plurale»). Più in generale, l’oscillazione in fondo è tra bisogno di autorità (di unità, di identità) e apertura al “plurale” (al molteplice, all’informe, allo spurio). Ci sono rischi su entrambi i fronti: l’autorità può bloccare; il plurale può presentarsi così caotico da stroncare.
Non voglio però forzare la discussione; e anzi, pur non condividendoli, tengo in debito conto gli interventi di quanti mi è parso che concepiscano il fare poetico come una specie di fiume su cui navigare con la propria barchetta senza guardare troppo nei suoi fondali. T., ad esempio, ha invocato meno attenzione alle intenzioni dei poetanti (e quindi alle poetiche) e più attenzione agli effetti, cioè ai testi prodotti. Che andrebbero misurati, però, come? In base al criterio della Bellezza? Per l’Emozione che suscitano? Per la Qualità della forma? Per la Genialità che spunterebbe fuori al di là delle tecniche usate?
Tanti problemi aperti, apertissimi. Per non mandare in fumo il mio e il vostro cervello mi fermo qui. Per il momento. Chi avesse voglia di riprenderne qualcuno e concisamente intervenire, è benvenuto.