di Arnaldo Éderle
Da tempo Arnaldo Éderle aveva scelto Poliscritture come luogo ospitale per i suoi poemetti. E me li ha mandati, sempre più numerosi, in questi anni che hanno preceduto la sua improvvisa morte. Avevo pattuito con lui che li avrei pubblicati mano mano, distanziati nel tempo. Tre me ne sono rimasti in lista. Questo sulla fotografia stabilisce un confronto tra immagine e parola e ribadisce, proprio in un’epoca che la sta negando, la fiducia nel primato della parola poetica che « miracolosamente, salva lo spirito/ nella sua eternità». [E. A.]
Che bello fotografare l’impossibile
e farne, dell’immagine,
la sua propria immagine!
Chi riesce a farlo lo giudica un successo
e a farlo è la propria abilità il proprio
istinto il proprio senso del miracolo,
la vera prova del nove e della promiscuità
col senso della grande parola e del suo
miracoloso stato di beatitudine, sul foglio
bianco e sulle proprie stanze incandescenti
o lisce come seta. Chi lo prova
è un maestro di vita
titolare della bianca pagina
dello spazio da riempire di parole
della loro magnificenza del loro pregnante
stimolo della loro magia.
Chi lo assaggia sarà per sempre il suo
autore il suo profeta il suo padre
riconosciuto fino alla fine dei secoli.
La parola è la sua pietra miliare e i suoi
spigoli l’arco frangente della sua
espressione il suo enorme profilo la sua
essenza. Chi lo giudica lo troverà perfetto
come le ali dell’ape che muovono l’aria
al loro ritmo incalcolabile.
Così va il mondo della parola,
e la parola ne segue il flusso come
una stravagante animula che lo coglie
pieno di voglie e di estrema naturalezza.
Sì, la fotografia è un modo perfetto di rifare
la realtà la fotografia è il doppione della figura,
la sua immagine ripetuta ed esatta, le manca
solo una piccola cosa: la sua sostanza, la sua
intima sostanza la sua vita.
Chissà se qualcuno riuscirà a far rinascere
la vera realtà? Ma ben pochi si perdono in
questa ricerca, pochi la desiderano, pochi
la vogliono. La foto è un ricordo
della realtà, nulla più. Viene dal desiderio
di fissarla nel rettangolo o nel quadrato
della figura nei suoi contorni nei suoi
colori nel movimento apparente delle sue
linee nei richiami della sua immobile
storia. Sì, è un grande intervento sulla realtà
un preciso ricordo. Ma non palpita non dice
la vera emozione delle cose dei personaggi.
Non dice, si preoccupa solo
della sua figura della sua vita momentanea.
Premere quel bottoncino vuol dire
rifare i contorni dell’essere e pretenderne
la vita come un creatore di riflessi
e pronunciare la stasi della cosa appena
creata, una specie di parafrasi statica
una sua esatta caricatura e lasciarla come
prova di esatta calcomania.
Ma la parola riproduce il suo essere la vita
dell’oggetto i suoi traumi le sue sofferenze,
ciò che il poeta scorge nell’anima della parola
il suo fondamento la sua natura
il suo dire. Non c’è nulla da fare
nulla da congetturare. Non c’è alcuna
parentela tra l’immagine fotografica e la poesia,
tra un ciuffo di vita e un mazzo di fiori
nel rettangolo della piccola foto.
Ah,quante le foto parlanti? Quante le intime
partecipazioni alla realtà delle cose
alla loro natura al loro spirito?
Il fotografo spegne la sua magica macchina
appena la foto appare sul suo schermo
sulla sua minuscola intrusione nelle cose
del mondo e le lascia lì come una
copia, e le gode come
un quadro muto o un ricordo abbandonato.
E’ una bella immagine, monca di sillabe
monca del flatus della poesia
come a dire monca dell’essenziale,
e la guarda e la riguarda per estrarne
la vita dell’oggetto, ma non c’è la parola lo
spirito dell’immagine.
E tutto resta fermo senza nemmeno il desiderio
di parlare o con appena la mossa di emettere
il flatus voci per farla vivere, e così resta lì
in uno strano mutismo a bocca aperta.
Che ne sarà del suo spirito? Che della sua
azione piccola o grande reale o fantastica?
La fotografia è un gioco da fanciulli
da chi non si interessa delle spirito
dell’immagine o, se se ne interessa,
lo fa, senza produrlo
nel suo ridotto rettangolino.
E’ bello divertente fotografare, ma la vita
della foto consiste solo nello schiacciare quel
bottoncino limitato alla posa e nella sua
sterile bellezza.
L’unica cosa, credo, è trattenere in vita
l’immagine della morte, il ricordo del suo estremo
profilo della sua preparazione all’eternità
la sua identità precisa e infinita fino a quando
il tempo la consumi e renda a quella
lo stato di rinuncia, eternamente.
Ma la parola, miracolosamente, salva lo spirito
nella sua eternità, ciò che fa la poesia
come uno spazio di tempo regalato
e puro e lungo come l’eternità stessa.
La fotografia serve solo a ricordare l’immagine,
la poesia a ricordarne l’essenza oltre
l’immagine, il suo stampo interiore la sua
anima.
Chi la forgia si sentirà sempre accanto a lei
la leggerà come una bella parabola della
sua vita sul globo, il nostro globo, la nostra
terra e la conserverà fino alla fine
della nostra parabola fino a quando la sua
dolce vita giungerà al suo triste termine
e i suoi occhi non saranno più capaci
di leggerla.
Sì, è bello fotografare, ma alla fine
avremo in mano solo un pallido ricordo
di quella immagine senza lo spessore
del suo spirito, esile quasi impalpabile,
e senza il fiato che riproduca il soggetto
completo della propria vita e del proprio
essere,
del proprio essere.