Nota a margine de I dannati della terra di Frantz Fanon
di Giorgio Riolo
Pubblico la nota introduttiva a “I dannati della terra” di Frantz Fanon. argomento conclusivo del ciclo di incontri di letteratura che Giorgio Riolo tiene a Milano (qui), accogliendo in pieno – anche con un invito a guardare e ad ascoltare le voci di questo tremendo video (qui ) – l’esigenza di capire il dramma dell’Africa, liberandoci dai paraocchi del sovranismo nazionalista o eurocentrico. Non per “romanticismo rivoluzionario”, ma per obbligo a pensare tutta la realtà. Di fronte alla “tempesta” in corso, non possiamo metterci, come aveva capito Sartre citato da Giorgio, dalla parte dei “seminatori di vento” . Essi l’hanno alimentata e ora se ne lavano le mani. Dobbiamo impedirglielo o, se non fosse più possibile, almeno testimoniare la tragedia. [E. A.]
Periodicamente, dalla sua morte, si può parlare di una sorta di riscoperta di Frantz Fanon e del suo grande libro I dannati della terra. Un tempo, tra gli anni sessanta e gli anni settanta, per esempio, negli Stati Uniti a opera soprattutto del Black Panther Party. A fine anni settanta, negli Usa se ne erano vendute 750.000 copie della traduzione inglese del libro.
Oggi soprattutto a causa dei pericoli del razzismo, della chiusura identitaria, anche entro gli strati popolari occidentali, italiani nel nostro caso. A causa della bella guerra tra poveri, alimentata, manipolata, incoraggiata dalle classi dominanti, beneficiarie in primo luogo dello sfruttamento di quello che un tempo chiamavamo “proletariato esterno”. Gli esseri umani costretti a emigrare per vivere. Sempre da Sud a Nord. Un tempo dal Mezzogiorno d’Italia e oggi dalle periferie del mondo.
Frantz Fanon è figura storica, nel tempo e nello spazio, figlio del suo tempo, sicuramente. Ma la sua vita, recisa come un fiore nella sua piena fioritura, ne ha fatto un mito. Un essere umano che segna un destino, che segna un’epoca. Anche una generazione.
Figlio del mondo diviso tra metropoli e colonie, come si diceva allora, del mondo manicheicamente diviso tra colonizzatori e colonizzati, tra centri che prosperano e periferie che danno sangue e lavoro per quella prosperità, nel segno del dominio territoriale, economico, culturale, antropologico, psichico.
Negro (oggi pudicamente diciamo “nero”), acculturato (psichiatra e filosofo), rivoluzionario, appartenente quindi a una “élite antielitista”, è nelle condizioni di farsi portavoce della potente carica eversiva della decolonizzazione, del moto di emancipazione dei movimenti di liberazione e di riscatto dei popoli coloniali che dal secondo dopoguerra fino agli anni sessanta e settanta si affacciano nel proscenio della storia.
Fanon, morto a 36 anni nel 1961, e il Che in seguito, morto a 39 anni nel 1967, impersonano tutte le speranze, tutta l’ansia palingenetica che va sotto il nome di “terzomondismo”. Oltre il Primo Mondo capitalistico e occidentale e il Secondo Mondo del cosiddetto “campo socialista”, il Terzo Mondo come fonte e luogo della trasformazione del mondo, della creazione di una nuova umanità, senza più dominio, senza più sfruttamento, senza più alienazione. Così per i giovani, e i meno giovani, delle periferie del mondo. Così per i giovani, e i meno giovani, nell’Europa e nell’Occidente, terzomondisti per scelta politica, culturale ed esistenziale. Gli anni sessanta e gli anni settanta, nel Sud e nel Nord del mondo, hanno queste componenti fondamentali nei movimenti sociali e politici di emancipazione di quella fase storica.
Sicuramente con caratteri di romanticismo rivoluzionario, come taluni definivano anche la visione del mondo dello stesso Fanon, con caratteri di attesa messianica, in noi giovani occidentali impegnati in quei movimenti. L’attesa messianica proveniente dai continenti in sommovimento di Asia, Africa, America Latina.
Ma con quale forza e con quale capacità di disvelamento del corso della storia, di disvelamento delle aporie e della dialettica del corso delle rivoluzioni, dei movimenti di emancipazione, del movimento operaio, socialista e comunista. In Europa e in Occidente, quest’ultimo molto contaminato dall’eurocentrismo e di incomprensione della scissione storica tra colonizzatori e colonizzati, con addirittura alcune derive razziste e di complicità nello sfruttamento colonialistico e imperialistico. Dai partiti socialisti della Seconda Internazionale di fine Ottocento fino al Pcf (partito comunista francese). Quest’ultimo, come del resto molta sinistra francese, non a fianco dei combattenti algerini a proposito della guerra d’Algeria tra il 1954 e il 1962.
II.
I dannati della terra, titolo preso da uno dei primi versi del canto dell’Internazionale, apparso nel 1961, poco prima della morte del suo autore, divenne e rimane il manifesto di questa visione del mondo. Rimane il manifesto del terzomondismo.
Fanon, nato nel 1925 nella Martinica, allora colonia della Francia, poté studiare perché di famiglia della piccola borghesia nera martinicana. A Lione compì gli studi di medicina, laureandosi in neuropsichiatria. Parallelamente studiò filosofia, in particolare l’esistenzialismo, il marxismo, la fenomenologia.
Nel 1954 gli fu assegnato un posto di psichiatra presso l’ospedale psichiatrico di Blida in Algeria. Esperienza fondamentale per Fanon. Dall’ambito professionale all’ambito culturale, all’ambito politico rivoluzionario.
La realtà coloniale dell’Algeria, divisa irrimediabilmente tra colonizzatori bianchi e colonizzati arabi, si riproduce anche nella malattia mentale. Così, tra i malati, maggiore possibilità di guarigione per i malati di origine francese o europea. Gli alienati psichici algerini presentano una eziologia peculiare. Scrive Fanon in una lettera “l’arabo, permanentemente estraniato nel suo paese, vive in uno stato di assoluta spersonalizzazione”. Il conflitto lacerante nell’anima del colonizzato è netto. O soccombere alla diuturna, permanente, sottile o grossolana, umiliazione, fino alla violenza aperta del colono e/o del gendarme. E allora la morte della propria soggettività. Il non riconoscersi come essere umano, degradarsi a cosa. O ribellarsi. E allora la violenza. La violenza, tema che Fanon tratta con estrema attenzione.
Jean-Paul Sartre conobbe Fanon e scrisse volentieri la prefazione al libro. Ne è nato uno scritto altrettanto esplosivo, anche criticato da taluni, ma è un capolavoro nel capolavoro. Il filosofo, il fine letterato e l’uomo di sinistra qui si esprimono nel pieno della loro capacità. Così Sartre, a proposito della violenza “[il colonizzato] Figlio della violenza, attinge in essa ad ogni istante la sua umanità: eravamo uomini a sue spese, si fa uomo alle nostre. Un altro uomo: di qualità migliore”. E prima “Noi siamo stati i seminatori di vento; la tempesta è lui”. “…far fuori un europeo è prendere due piccioni con una fava, sopprimere nello stesso tempo un oppressore e un oppresso: restano un uomo morto e un uomo libero”.
È una visione da violenza redentrice, catartica, quasi metafisica. Molto si discuterà su ciò. Ma è la fotografia, manichea sì, di un mondo senza cuore, perché manicheo esso stesso.
All’umanesimo europeo e occidentale si contrappone un nuovo universalismo, la “nuova umanità” e lo “uomo nuovo”, di cui tanto parla Fanon. Questa Europa che tanto parla dell’uomo e dei diritti dell’uomo e che tuttavia lo massacra nei quattro angoli del pianeta. E poi quel concentrato, quell’Europa all’ennesima potenza, quali sono gli Stati Uniti d’America.
Fanon si rivolge ai dannati, ai popoli colonizzati, non a “noi”, come sottolinea giustamente Sartre. E l’invito è appunto quello di abbandonare l’Europa e l’Occidente al proprio destino, nella loro folle corsa disumanizzante e completamente nel segno della alienazione. Alienati i colonizzati, doppiamente alienati i colonizzatori, i dominanti su scala mondiale.
Fanon parte sempre dalla sua esperienza di psichiatra, della psichiatria sociale, una sorta di antipsichiatria ante litteram. Parte dal materiale umano e dai sostrati psichici che conosce bene, che ha studiato e quando si unisce al movimento di liberazione algerino, al Fronte di Liberazione Nazionale, ha ben chiare nella sua testa alcune opzioni che esprimerà così bene nella sua opera.
In primo luogo, l’annosa questione del soggetto rivoluzionario. Il proletariato urbano arabo delle città è troppo a contatto con il colonizzatore, parla la sua lingua. Così come la borghesia nazionale in formazione. Il soggetto rivoluzionario allora è da ricercarsi piuttosto altrove, nelle campagne. È l’elemento contadino il soggetto sociale e politico su cui poggiare nella difficile guerra di liberazione e poi nell’altrettanto difficile cammino di costruzione della nazione liberata. Fanon e Mao, in contesti culturali e storici completamente diversi, sono accomunati in questa visione. Così come, anche se spesso implicito, i rivoluzionari delle rivoluzioni delle periferie del mondo da Ho Chi Minh e Giap, ai cubani, a Fidel, al Che ecc.
Egli si muove come uomo formatosi nel laicismo netto, illuministico, filosofico, antropologico. Trascura il “religioso”. Trascura la dimensione religiosa come aspetto identitario normale, soprattutto in una realtà in cui la scelta identitaria del colonizzato è di contrapposizione all’identità del colonizzatore. Anche perché vede nelle colonie quanta insidia ci sia nella chiusura identitaria della religione, della appartenenza a una religione, o, peggio, a una setta, ai riti identitari, magici, iniziatici. Da qui anche l’aver trascurato egli il fatto che molta adesione al Fln algerino proviene dal mondo islamico. Questo complesso problematico peserà nella storia successiva dell’Algeria, fino a oggi.
III.
Fanon pensa al dopo. La conquista dell’indipendenza è metà del lavoro. Il difficile viene dopo. Occorre evitare quelle dinamiche che egli già vedeva in azione tra il 1959, “anno dell’indipendenza” in Africa, e il 1961. Il postcolonialismo, pesantemente condizionato dalle vecchie potenze colonialistiche e imperialistiche. Bruciante l’esperienza del Congo e dell’assassinio di Patrice Lumumba. Ma non solo. Il postcolonialismo con la formazione di nuovi gruppi di potere, di capi e gruppi dirigenti spesso autoritari e corrotti. Di una borghesia nazionale che presto diventerà “compradora”, Lumpenborghesia, borghesia sottosviluppata, vanificando così le promesse e le speranze nel processo della liberazione, dell’indipendenza.
Fanon non vedrà inoltre il processo soverchiante delle dinamiche capitalistiche condizionanti e soprattutto della successiva, e attuale, cosiddetta globalizzazione capitalistica. Il suo sogno e la sua azione, di breve durata a causa della precoce morte, del panafricanismo era inteso anche a creare un blocco regionale-continentale capace di opporsi a queste dinamiche.
Romanticismo rivoluzionario, profetico, palingenetico. Sicuramente. Fino al suggerimento, in punto di morte, al Fln. Quando sarà, e sarà qualche mese dopo la sua morte, nel febbraio 1962, alla liberazione non porre la capitale ad Algeri. Il governo e gli apparati governativi debbono essere trasferiti nell’entroterra algerino. Così come i dirigenti e i quadri del partito nel paese decolonizzato, non solo in Algeria. Debbono essere tolti dal passato coloniale e prefigurare una nuova storia, a contatto con le masse contadine e con i veri “dannati della terra”.
È nel 1960 che scopre di essere ammalato di leucemia. Egli sa che la sua forma è incurabile, e allora tutta la tensione è dedicata alla scrittura della sua opera fondamentale. Tentano di curarlo, dapprima in Urss e poi negli Stati Uniti, dove muore nel dicembre 1961. Volle essere sepolto in una località di montagna in terra di Algeria, al confine con la Tunisia.
IV.
Lirismo, profetismo, romanticismo. Ma quanta forza, quanta scossa, quanta spinta a vedere con lucidità e senza orpelli la vera realtà. E quanta forza non solo ai dannati, ma anche, questa volta sì, a “noi”. Vedere, scoprire e cancellare il colono che c’è in noi.
Il fatto che ancora oggi viene rimosso nella coscienza diffusa degli europei e degli occidentali, anche a sinistra, il colonialismo e i suoi orrori. Il debito coloniale e il correlato debito ecologico dimenticati, cancellati. In particolare, rimossi per noi italiani gli orrori in Africa, in Libia, in Etiopia, in Eritrea, in Jugoslavia ecc.
Il parlarsi addosso nell’orgia del narcisismo europeo ed europeista, cancellando secoli di storia di oppressione, di sfruttamento, di orrori. Un rimosso molto vantaggioso, molto interessato. Nessun debito coloniale, nessun risarcimento, nessun senso di colpa. Autocompiacimento per le cosiddette conquiste della civiltà europea e occidentale e per il benessere europeo e occidentale, Usa in testa.
Tutti questi temi sono stati ripresi e discussi entro il Forum Sociale Mondiale, da Porto Alegre 2001 in avanti. Con vari seminari entro il Forum ed entro un’attività e una rete internazionale che da Fanon ha preso nome, con al centro la Fondazione Frantz Fanon.
La nostra vera identità. Alle pretese, manipolatorie, sempre di destra, “radici giudaico-cristiane”, le vere radici umane dei prestiti e dei debiti delle varie civiltà e delle varie culture. Ricordando sempre, come argomentavo nell’incontro di letteratura su Eschilo e sulla tragedia greca, che quelle radici propriamente sono “orientali”, essendo il cristianesimo e il giudaismo religioni e culture del Vicino Oriente, a loro volta debitori dell’intorno mesopotamico ed egiziano, come minimo. E ancora, sulle “radici greche” di detta identità europea, ricordare che la Grecia era margine-periferia occidentale molto debitrice delle civiltà monumentali e di quell’intorno.
La corrente migratoria odierna, con tutti i problemi reali che sicuramente pone, ci riporta al discorso sui dannati. Ripropone le avventure e la dialettica del neocolonialismo. E pone sempre, dialetticamente, specularmente, il problema del “colonizzatore che c’è in noi”.
Siamo partiti dal presente per riscoprire Fanon e quest’opera. Potente, classica, anche dal punto di vista letterario. E ritorniamo al presente. Forse con qualche suggestione, con qualche luce in più.
Milano, 11 giugno 2019
…un articolo molto interessante. A proposito di periferie del mondo dove, ieri come oggi i contrasti sono più esplosivi, ma anche le ricerche di soluzioni più vicine, vorrei segnalare lo svolgimento del Festival Internazionale di Teatro dell’Oppresso al quartiere Corvetto di Milano Sud dal 12 al 16 giugno. Il tema di quest’anno è “Radici fuori” e comprende molte rappresentazioni e laboratori in piazze, cortili, Arci Corvetto in cui la gente è invitata a partecipare attivamente…Alcuni tra i titoli: “voci negate”, “Radici e ali”, “Mangia, bevi, taci…” Molti giovani di associazioni giovanili in rete vi partecipano e questo mi sembra bello. Insomma c’è chi raccoglie il testimone..