di Ennio Abate
Su “il manifesto” dell’8 giugno 2019 (qui) è comparso un ricordo di Nanni Balestrini scritto da Antonio Negri. L’ho letto, riletto, meditato e ho scritto questi appunti critici. [E.A.]
1. Non capisco come possa aver fatto Balestrini a lasciare nel suo lavoro di poeta «l’anima accanto, fuori dalla poesia». Non ci riuscirono i futuristi e penso che – ad indagare a fondo i suoi testi – non sia riuscito neppure lui.
2. Né afferro come abbia potuto anche essere « produttore di riviste politiche» senza che ci fosse «un bisticcio fra Nanni e i responsabili di un qualsiasi lavoro politico che lui avesse nelle sue mani di editore». Sarebbe qualcosa di miracoloso. Non chiedo prove. Ma resto stupefatto. Perché, pur avendo – io e tanti altri che conosco – desiderato e tentato negli ultimi decenni (dagli ’80 in poi) di fare riviste “cooperanti”, non ci siamo riusciti. Non voglio cercare maliziosamente il pelo nell’uovo (la «generosità» di Balestrini, l’ottima collaborazione tra lui e Negri. E altri pure). Chiedo solo una spiegazione accettabile del “miracolo”.
3. Cos’è la benedetta/maledetta «cultura sovversiva»? A me pare manifestazione di nicchia, rispettabile e da praticare senza retorica; e però, se non da tutti tollerata, abbastanza sopportata dai potenti e loro funzionari, perché in buona parte resta “nei limiti” e finisce per lustrare il “pluralismo democratico”. Nasce da un ««fare» senza troppo pensarci su»? E sta bene. Resta, però, l’impressione che «laicità sovversiva» e «piacere della “superficie” in tumulto», troppo modellati «alla Deleuze, alla Guattari», siano (in toto? in parte?) una *scolastica*, non una pratica capace di espandersi al di fuori di strette minoranze intellettuali.
4. Anni ’70. Sottraendosi anche al clima commosso delle reazioni per la morte di Balestrini bisogna dirlo: l’asino (la «laicità sovversiva», il «piacere della «superficie» in tumulto») cascò proprio quando «Calogero trasformò presto questa iniziativa [7 aprile? alfabeta?] in «associazione di malfattori», in delinquenza organizzata. E, appunto, si ebbe la più dura repressione («Poi vennero Rebibbia, Fossombrone, Palmi, Trani, per me»). E’ un punto ineludibile, ma ancora oggi eluso. Si sarà resistito di fronte «all’irrazionalismo reazionario dei nouveaux philosophes», ma perché non si fu in grado di resistere ai Calogero, al PCI fattosi Stato, etc.? Cosa avremmo detto in quegli anni di un Lenin che non fosse riuscito a “resistere” a Kerensky?
5. Mettendo da parte lo spirito di gruppo e i riferimenti complici ad una storia comune ( «Dai tempi di Potere Operaio con Nanni ne abbiamo fatte tante… non solo di riviste»), che sarebbe ingeneroso censurare, a tutti noi sopravvissuti degli anni ’70 ( e ai giovani pensanti) preme tuttora capire le ragioni della *sconfitta* di tutto quel movimento.
6. E perciò dubito del giudizio di Negri sugli anni ’70: «la rivoluzione operaia – […] se non era stata vincente nella società, aveva comunque distrutto quell’indecente luogo di sfruttamento che era la fabbrica fordista». Senza scivolare nelle demonizzazioni del pensiero di Negri, trovo il suo ottimismo inaccettabile. Stravolge non solo il senso comune dei militanti di allora ma quel tanto di verità storica documentabile. Volesse il cielo che la fabbrica fordista l’avesse distrutta proprio e *solo* la classe operaia; e che non fosse stata sostituita da qualcosa di simile e anche di più «indecente» (malgrado le apparenze ”progressiste” dell’informatizzazione).
7. Ritengo consolatorio sosgtenere che Balestrini (o altri protagonisti d’allora) «nella fuga dalla repressione feroce dei Calogero, dei Dalla Chiesa, del «compromesso storico» ritrovava [o abbiano ritrovato] il senso del gioco e dell’avventura». Magari facendo «i collage», o dedicandosi all’arte o alla poesia. Né mi sento di sottoscrivere l’affermazione che « Vogliamo tutto» , «capolavoro della letteratura operaista», sia anche «uno dei più bei romanzi del Novecento». Sarà stato pure « uno sfregio alla casa Agnelli, in quel tempo regnante, e ai sudditi plaudenti (i quarantamila?)», come «Gli invisibili» sarà stato una «replica» di Balestrini alla repressione o un atto di resistenza, ma a paragone del fatto che « la voce dei duecentomila rivoltosi di Mirafiori» fu messa a tacere e che la «repressione del 7 aprile ’79 » non fu ostacolata (e vanamente) che da pochissime minoranze, che peso hanno quegli “sfregi” o “repliche” o “resistenze”? Non è coi libri che viene «mandata all’inferno» una repressione o che non si spenga « la luce di una rivoluzione possibile». O che la «più infame restaurazione» non si sia imposta.
8. Non penso, dunque, che « i ’70 [siano] finiti solo per i persecutori» o che «l’odio per i padroni (non più del vapore ma della finanza e di tutto il resto) [venga] fuori ancora e sempre più forte». Pochi tengono ancora viva la speranza e non si rassegnano. Ed è un bene. Ma generalizzare un sentire o un pensare di minoranze facendone conquista di maggioranze o di *moltitudine* è un grave rischio per questi “resistenti”. Teniamo i piedi per terra, caro Negri. Non «siamo vissuti nell’avvenire».
9. Vedo, infine, un ultimo equivoco nell’elogio che Negri fa della Feltrinelli anni ’60 («La Feltrinelli anni ’60, dove crebbe Nanni, quella dei due premi Nobel, fu davvero una macchina [di guerra] siffatta»). E chiedo: che resistenza alla repressione dimostrò quella «macchina di guerra»? che fine fecero, appena scoppiò la repressione del 7 aprile (1979), le collane dei «materiali marxisti»? cos’è divenuta oggi? E se Balestrini si fece le ossa come «imprenditore della moltitudine» in quella casa editrice “d’avanguardia”, ciò vorrebbe dire automaticamente che quei metodi di gestione o conduzione di gruppi potevano essere tranquillamente importati nei movimenti e risultare sicuramente fecondi? «Quel bisogno di produrre politicamente insieme che divenne epidemico fra i ’60 e i ’70» fu in parte vero. A patto che si riconosca che di bisogno e solo di bisogno si trattò; e che le forme organizzative in cui si tentò di accoglierlo non furono adeguate. Altrimenti non ci troveremmo nelle penose condizioni d’oggi.
“Vogliamo tutto” aveva il pregio di non essere un libro spacca cervelli, come ne scrissero poi tanti, specie in “bollettini”alienati da ferrea ideologia, quindi scontati e nella sostanza virulenti. Un linguaggio che solo la pazienza, e l’essere sostanzialmente d’accordo, permettevano di digerire.
Lo lessi che ero ragazzo, di periferia, e, penso, come me anche tanti ragazzi non solo studenti ma anche operai. Perché allora si leggeva, si voleva leggere e sapere.
E invece, poi: COMPAGNI! e via di seguito, con la solfa da spacca cervelli. E non solo.
Sicché ‘Vogliamo tutto’ restò un caso; e ci credo che poi tanti gli chiesero se non se ne era pentito.
Rispetto la visione di Ennio, quando afferma “che le forme organizzative in cui si tentò di accoglierlo non furono adeguate”. Ma mi sembra una spiegazione riduttiva, presa a prestito dai manuali leninisti e riproposta, senza un minimo dubbio… E strano, non ragionare della lontananza dall’utopia; quell’essere comunisti nella vita, quindi nelle scelte, anche personali, e in ogni cosa che si fa; perché è lì che incontri compagni di strada e unisci le forze (forse Ennio si è dimenticato di come nacque e divenne contagiosa l’idea di rivoluzione: per contagiosa vicinanza, poi fattiva…). Così facendo si evita l’utopia, che porta con sé il verme della speranza. E se non va, avrai vissuto comunque come hai voluto e ritenuto giusto. Una vita da Nanni Balestrini.
@ Mayoor
Per il momento ti segnalo due stralci di una riflessione (del 1991) sui suoi anni di militanza in Potere Operaio etc. di Paolo Virno, molto vicino all’area politica di cui qui si parla:
1.
Fui di nuovo Roma nel ’72, sono stato più o meno nelle strutture dirigenti, nel direttivo e nella segreteria della sezione di Roma. Dal marzo-aprile del ’72 sono nell’esecutivo nazionale. I gruppi si ossificano e avvengono tutte queste cose che si sanno a memoria. Per esempio, io non sono uno di quelli che dà un giudizio negativo sui gruppi. Fatemi credito sul fatto che potrei parlare per due ore sulle parodie, le schifezze, le riprese di vecchi modelli ecc.; detto questo, ritengo che dopo il ’69 si pone un problema specifico, non lineare (mettendola in termini matematici) del potere politico. In termini banalissimi, si potrebbe dire che è il problema dello sbocco politico di un movimento che per la prima volta (per dirla con Gramsci contro Gramsci) non cerca la rivoluzione contro Das Kapital ma cerca la rivoluzione in accordo con Das Kapital: dunque, non contro la miseria e l’arretratezza, ma contro il rapporto di produzione capitalistico e contro lo stesso lavoro salariato. E’ una cosa che non ha avuto precedenti e che cercava le sue forme politiche; ciò era avvertito fra i quadri di base del sindacato, della FIOM, era un dibattito politico generale. A mio parere le posizioni come quelle di Capanna a Milano (per dirne una fra le più famose allora, poi ovviamente il dibattito attorno a metà degli anni ’70 sarà diverso, sarà il dibattito dell’autonomia), sostenevano: “no, per carità, movimento politico di massa”, poi fiancheggiava il PCI e faceva da servizio d’ordine di là a poco alla UIL. Quindi, là c’era un problema, che nelle sue versioni migliori è stato secondo me elaborato e raccolto da Lotta Continua e da Potere Operaio, poi anche in certa misura e a loro modo (un modo diversissimo e lontanissimo dal mio) da Avanguardia Operaia e da altri. Però, mi pare (certamente storiograficamente ma forse anche da un punto di vista politico-teorico) una semplificazione indebita anche a distanza di tanti anni dire che si è passato dall’eden delle assemblee del ’68 e dei comitati di base della primavera del ’69 ai piccoli ritualismi aridi e inconcludenti dei gruppi: io su quello sarei più cauto e ricorderei qual era la posta in palio. Che poi sulla posta in palio si sia fallito, è un conto; che però ci fosse questa posta in palio con la sua specificità, con la sua discontinuità rispetto all’andamento lineare dei movimenti, secondo me va ammesso.
2.
Io penso (e questo invece è punto storiografico e teorico) che nel ‘900 ci siano state due rivoluzioni fallite, e chi, come Tronti o altri, dice che ce n’è stata una, cioè quella che tutti sanno negli anni ’20, sbaglia. Ci sono state due rivoluzioni fallite e non si capisce niente del secolo (per usare questo linguaggio un po’ magniloquente alla Tronti) se non si tiene conto di tutte e due: una è la rivoluzione in Occidente negli anni ’20 (in Germania e altrove), l’altra la rivoluzione in senso proprio degli anni ’60 e ’70, la prima che è contro il modo di produzione capitalistico e non arretratezza e pauperismo, e di cui il postfordismo è sostanzialmente la replica in grande, la controrivoluzione. Mi spiego: per rivoluzione non intendo che molti gridassero parole d’ordine rivoluzionarie, il carnevale delle soggettività non mi interessa. O si dice che tutte le rivoluzioni che non sono riuscite non esistono, e si può dirlo, è una maniera se si vuole di igiene mentale; oppure, se si introduce la dimensione di rivoluzione fallita, bisogna avere un criterio sobrio (non ancorato alle grida e ai brusii dei soggetti di allora) di che cos’è una rivoluzione fallita. Secondo me si può parlare di rivoluzione fallita, in maniera sobria e oggettiva, laddove per un consistente e lungo lasso di tempo vi è un blocco nella decisione politica e sociale, nei luoghi di produzione, nei quartieri popolari e in alcune delicate istituzioni statali. Questo lungo blocco fra due poteri sociali contrapposti in Italia (e talora più in generale, in certi anni e in certi luoghi dell’Occidente capitalistico) c’è stato. In questo senso io parlo di rivoluzione fallita, di situazione rivoluzionaria: non mi importa assolutamente nulla delle convinzioni, delle ubriacature, delle ebbrezze, ne parlo in quel senso. E per controrivoluzione non intendo ritorno all’Ancien Regime, ricostituzione di quello che già c’era; penso la controrivoluzione come une rivoluzione al contrario, come una cosa straordinariamente innovativa e che, per giunta, fa proprie e utilizza molte delle spinte, delle istanze, dei modi di essere, delle inclinazioni che avevano nutrito di sé la rivoluzione.
( da http://simonettiwalter.blogspot.com/2012/09/intervista-paolo-virno-21-aprile-2001.html#.XQAF3IgzbIU)
@ Lucio Tosi
Se dovessimo accontentarci dei libri non “spacca cervelli”, dovremmo buttar via autori come Marx, Adorno, Wittgenstein, Freud, Lacan, ecc. Lo si è fatto, purtroppo, e siamo sotto la “dittatura dell’ignoranza” (Majorino, Viale) di cui si possono rallegrare solo “i padroni”.
Certo, “Vogliamo tutto” lo lessero in tanti e «anche operai». Ma era un’epoca in cui si leggeva molto e si assaggiava anche il Marx “spacca cervelli”. Tutto nella e malgrado la nebbia dell’”ideologia”. Come del resto adesso.
La tua critica dell’ideologia è stata e resta sempre a senso unico. Non ha mai voluto vedere che i manuali e i catechismi non erano – manco allora – solo leninisti. Lo erano altrettanto – se non di più – quelli “spontaneisti”, “lottacontinuisti”, renudisti”, etc.
Ma siamo invecchiati senza intenderci su questo. Per me non è «il verme della speranza» ma quello dell’”ideologia antideologia” che ha fatto più danni.
“1- Non capisco come possa aver fatto Balestrini a lasciare nel suo lavoro di poeta «l’anima accanto, fuori dalla poesia». Non ci riuscirono i futuristi …”
—
mi piacerebbe che qualcuno mi chiarisse il significato di questo punto 1, ma fino a “futuristi”.
grazie
antonio sagredo
La mia obiezione ribatte all’affermazione che Negri fa all’inizio del suo articolo:
“Che classe, quel Nanni! I poeti attorno a lui lo temevano perché era il solo che aveva lasciato l’anima accanto, fuori dalla poesia”.
In essa ho intravisto echi del motto marinettiano dei futuristi, «distruggere nella letteratura l’io» (1912) [1].
Indicazione di poetica o di militanza politica che non mi ha mai convinto ( anche se in parte mi ha toccato e in certi anni corroso); e alla quale, però, appena ho potuto, ho preferito un’analisi critica delle maschere dell”io’ e del ‘noi’.
Meglio un inquieto ‘io-noi’ che un ‘io’ o un ‘noi’ nettamente squadrati, contrapposti e che rimuovono le rispettive “ombre” enfaticamente assolutizzandosi.
Quello di Balestrini, a detta di Negri, pare rientrare appunto nel ‘noi’ che si disfa dell’io ( o dell'”anima”) con disinvoltura e successo per impersonare un ‘noi’ a tutto tondo che si mette interamente “a disposizione del fare, della politica, dei compagni” collaborando – miracolo! – armoniosamente con gli altri.
P.s.
Un’analisi del problema dell’ “io lirico” o della “soggettività in poesia (uscita su Le parole e le cose nel 2015 e che però non ho ancora letto attentamente e interamente) si trova qui: http://www.leparoleelecose.it/?p=20689#_ftn8
[1]
11. — DISTRUGGERE NELLA LETTERATURA L’«IO», cioè tutta la psicologia. L’uomo completamente avariato dalla biblioteca e dal museo, sottoposto a una logica e ad una saggezza spaventose, non offre assolutamente più interesse alcuno. Dunque, dobbiamo abolirlo nella letteratura, e sostituirlo finalmente colla materia, di cui si deve afferrare l’essenza a colpi d’intuizione, la qual cosa non potranno mai fare i fisici né i chimici.
( da https://it.wikisource.org/wiki/I_Manifesti_del_futurismo/Manifesto_tecnico_della_letteratura_futurista(
Tanto per intenderci ho compreso il punto 1.
Quando si parla o si dice o si scrive ecc, di “anima” sento un fetore insopportabile, così per “dio” ( e scriverlo minuscolo è il solo modo che mi aggrada e non scriverlo affatto sarebbe meglio!)
… è stato fortunato Balestrini a non conoscermi, ma non l’ho voluto io – avrei avuto mille possibilità di conoscerlo, e vari amici-poeti della mia epoca mi supplicarono addirittura di accettare un incontro, ma più me me parlavano più lo cancellavo dalla mia vista! Ero impossibilitato a considerarlo poeta, già era uno sforzo per me accettare [Edoardo] Sanguineti, ma erano lontani dalla poesia, da quella stessa poesia che non accettavano: non avevano in dono… il dono del poetare!
Non mi interessava lui come tanti altri simili a lui, che fosse vivo o morto 40-50 anni fa mi era già indifferente…
.. alcuni lo temevano: affari loro, temere cosa?
grazie
a. s.
….distruggere l’Io ? Ci stanno provando da millenni: sono solo formulette; diceva un poeta russo “rimasticature di vecchie cotolette”
PRIMO APPROFONDIMENTO
Cerchiamo di approfondire analiticamente i vari punti. Questo passo del saggio che ho citato prima sembra confermare la mia affermazione. Almeno a proposito dei futuristi:
“Questa tendenza della lirica moderna alla de-personazione trova conferma nelle tendenze avanguardistiche di inizio Novecento. Il motto dei futuristi, «distruggere nella letteratura l’io» (1912), è altrettanto sintomatico quanto il postulato di spersonalizzazione dell’autore espresso da Alfred Döblin per la narrativa (1914), oppure i principi degli Imagists inglesi. Tuttavia tale motto viene inteso, di volta in volta, in maniera differente. Secondo i futuristi, l’espressione soggettiva fa parte di una retorica passatista, e deve essere sostituita dall’«ossessione lirica della materia»[10]. Per raggiungere tale obiettivo, Marinetti propone precise tecniche verbali, come ad esempio l’uso dell’infinito[11]. Nelle sue poesie, tuttavia, la prospettiva soggettiva non è affatto abolita[12]. Sembra che l’«ossessione lirica della materia» non miri tanto a mettere in questione un’accezione tradizionale dell’io, quanto piuttosto a potenziare la facoltà percettiva individuale. Ben più radicale, allora, la visione di T.S. Eliot, secondo la quale il poeta funge da puro medium, libero da qualsiasi partecipazione emotiva (per rafforzare questa sua tesi, Eliot si appoggia alla scoperta moderna della personalità multipla)[13]. Anche questo, però, non vuol dire che la lirica non abbia nulla a che fare con le emozioni personali di chi scrive. Ma piuttosto che queste, nell’atto della scrittura, si mescolano inestricabilmente con altri elementi, trasformandosi così in emozioni d’arte.
[10] «[…] sostituire la psicologia dell’uomo, ormai esaurita, con l’ossessione lirica della materia»
(Manifesto tecnico della letteratura futurista, op.cit.).
[11] «Si deve usare il verbo all’infinito, perché si adatti elasticamente al sostantivo e non lo sottoponga all’io dello scrittore che osserva o immagina. Il verbo all’infinito può, solo, dare il senso della continuità della vita e l’elasticità dell’intuizione che la percepisce» (Manifesto tecnico della letteratura futurista, op.cit., pp. 77-78). Ma
rc Föcking fa notare che l’uso dell’infinito «significa soltanto l’abolizione grammaticale di un io lirico, ma nient’affatto l’abolizione di un soggetto che percepisce e che osserva» (trad. mia da Marc Föcking, Reden, Schweigen, Schreiben. Sprachvertrauen und Sprachkritik in der italienischen Lyrik des frühen 20. Jahrhunderts (D’Annunzio, Gozzano, Marinetti), in Aspekte der italienischen Lyrik des 20. Jahrhunderts. Bilder, Formen, Sprache. Beiträge zum Deutschen Romanistentag 1995 in Munster, a cura di Manfred Lentzen, Rheinfelden/Berlin, Schäuble, 1996, pp. 5-22).
[12] Franz Penzenstadler lo dimostra analizzando la poesia di Marinetti «Sì, sì, così, l’aurora sul mare» (Autoreferenzialität in der italienischen Lyrik zu Beginn der Moderne, in «Italienische Studien», 17 (1996), pp. 106-129; cfr. in particolare pp. 108-112). Attraverso il paragone con le tecniche poetiche di D’Annunzio, Penzenstadler dimostra che i procedimenti dei futuristi non sono affatto così nuovi come essi pretendono. Lo studioso, che come Föcking confronta D’Annunzio, Marinetti e Gozzano, arriva a conclusioni simili: la modernità dei futuristi, in cui la prassi spesso rimane indietro alla teoria, è dubbia, mentre la poetica dei crepuscolari, in particolare di Gozzano, dispone di tecniche molto più moderne, quali dialogicità e ironia.
( da http://www.leparoleelecose.it/?p=20689#_ftn8)
SECONDO APPROFONDIMENTO
In questo brano viene negato («le tendenze di inizio Novecento testimoniano comunque un indebolimento dell’io lirico in quanto portavoce di un egocentrico poeta vate») ciò che Sagredo sostiene ( con troppa sicurezza…) :« ….distruggere l’Io ? Ci stanno provando da millenni: sono solo formulette; diceva un poeta russo “rimasticature di vecchie cotolette”». Magari, la distruzione dell’io non ci sarà mai, ma il suo indebolimento non è una panzana: abbiamo comunque un io “problematico” e non più “forte” o “assoluto”. [E. A.]
«Pur nella loro varietà, le tendenze di inizio Novecento testimoniano comunque un indebolimento dell’io lirico in quanto portavoce di un egocentrico poeta vate. Ne testimoniano i crepuscolari, anche se qui l’abbassamento dell’io non va senza un cert»o narcisistico autocompianto[14]. E ne testimonia la poesia di Montale, in cui troviamo fin dall’inizio un io labile, un io che diffida del ruolo forte, orfico, tradizionalmente assegnato al poeta. Un io che tenta di correggere il solipsismo della propria visione instaurando un dialogo permanente con un tu che incarna, invece, la volontà di comunicare[15]. Oltre a questa nuova «dialogicità» della poesia, bisognerebbe tener conto della tendenza, rilevata da Enrico Testa per la lirica italiana del secondo Novecento, di parlare «per interposta persona», ovvero assumendo una maschera, che funga da sostituto del soggetto lirico, oppure mettendo in scena un antagonista o un partner dialogico[16]. Lo sgretolamento – definitivo? – del tradizionale soggetto lirico avviene dunque nel contesto storico e teorico del postmodernismo: il soggetto parla, ora, per interposta persona, si traveste, diventa io nascosto o frammentato, oppure sopravvive come mero «io grammaticale»[17].
Eppure – la scomparsa o il travestimento dell’io indicano necessariamente la rinuncia ad una visione soggettiva? A quanto pare non sempre, come ha sottolineato Michael Hamburger constatando che nei Cantos di Ezra Pound, nonostante tutte le persone poetiche che vi appaiono, continua a farsi sentire una visione prepotentemente egocentrica[18]. Un fenomeno inverso sembra invece realizzarsi nella poesia di Camillo Sbarbaro: nonostante la fortissima presenza verbale dell’io, una parte della critica ha parlato addirittura di dissolvimento dell’identità[19].
Rinunciare a dire «io», quindi, non significa necessariamente rinunciare ad una forte soggettività lirica, e inversamente anche «dire io, io» non è forse sempre segno di narcisismo poetico. Bisognerà allora cercare di distinguere fra le forme del discorso lirico (ovvero il parlare in prima, seconda, terza persona, o attraverso maschere, o a più voci), da una parte, e la concezione di soggettività, espressa esplicitamente o implicitamente in una poesia, dall’altra. Sarà utile, in proposito, ricordare la lezione di Émile Benveniste. Dicendo «io», l’uomo si pone come soggetto; «io», tuttavia, non rimanda a una determinata persona o a un determinato concetto: tutti possono essere «io»[20]. La realtà cui si riferisce «io» non è dunque una realtà referenziale, empirica, ma la realtà del discorso. La soggettività, che costituisce forse una caratteristica distintiva della lirica, è dunque qualcosa di profondamente precario: il dire io annuncia l’espressione di qualcosa di estremamente intimo, ma allo stesso tempo l’io risulta una formula vuota applicabile a chiunque.»
( da http://www.leparoleelecose.it/?p=20689#_ftn8)
TERZO APPROFONDIMENTO
Un “finto io”? Così pare: «dall’altra parte si esprime, in modo sempre più radicale, la convinzione che il supposto “io” non sia che una finzione, il labile, illusorio e contraddittorio riflesso di una precaria autoconsapevolezza». [E. A.]
Non solo Guido Mazzoni, anche Enrico Testa ha infatti sottolineato come, a partire dalla seconda metà del Novecento, i poeti inizino ad inserire dati apertamente anagrafici nelle loro poesie: basti pensare all’utilizzo che Giorgio Caproni fa del nome della propria madre in Il seme del piangere (1959) o Giovanni Giudici del proprio nome in Quanto spera di campare Giovanni (1993)[21]. Anche qui, pare esemplare l’evoluzione compiuta da Montale da Satura (1971) in poi: se da una parte i lettori si trovano di fronte a poesie che suggeriscono, in maniera sempre più aperta, l’identità di io lirico ed io empirico, dall’altra parte si esprime, in modo sempre più radicale, la convinzione che il supposto “io” non sia che una finzione, il labile, illusorio e contraddittorio riflesso di una precaria autoconsapevolezza[22]. L’ostentazione di un’autenticità da cui risulta però, paradossalmente e allo stesso tempo, il carattere fittizio dell’io, si apparenta allora a quella strategia discorsiva che è stata definita, inizialmente nell’ambito della narrativa, come autofinzione.
( da http://www.leparoleelecose.it/?p=20689#_ftn8)
QUARTO APPROFONDIMENTO
Qui mi pare di cogliere una vicinanza al mio tentativo di tener conto di un ‘io-noi’:
«una possibilità diversa di dire io: non più come individuo unico, eccezionale, ma come un io “in relazione”, un io che costruisce se stesso attraverso le relazioni che intreccia con altri». [E. A.]
«Con questo tu montaliano (come ho cercato di mostrare altrove) la poesia italiana imbocca una strada nuova. La prospettiva soggettiva non viene abbandonata, soprattutto a partire dalle Occasioni il lettore si trova di fronte a un linguaggio fortemente “privato”, ma fin dalla poesia introduttiva degli Ossi, In limine, l’io si affida a un tu chiamato a supplire all’impotenza, a stabilizzare l’io. Questo tu, proprio perché le sue possibilità trascendono quelle dell’io, rappresenta per l’io un’alterità[26]; ma non una che rimanga circoscritta all’interno di meri dati biografici. Invece, il tu montaliano si disincarna nel senso che forma la controparte dell’io in una costante controversia interna (Montale parlava di “rixa cristiana”) che è insieme esistenziale e poetologica[27]. Nel corso del Novecento questa progressiva interiorizzazione del tu assume, come ha mostrato Niva Lorenzini attraverso i testi di Andrea Zanzotto[28], caratteri sempre più decisi. Allo stesso tempo, però, Montale e in maniera diversa Sanguineti[29] lasciano percepire una possibilità diversa di dire io: non più come individuo unico, eccezionale, ma come un io “in relazione”, un io che costruisce se stesso attraverso le relazioni che intreccia con altri.»
( da http://www.leparoleelecose.it/?p=20689#_ftn8)
La ragione è sempre politica.
Dico questo perché altrimenti non saprei come cavarmela, nel tentare di valutare l’opera di Nanni Balestrini; almeno superficialmente, nel suo complesso, perché dopo “La signorina Richmond” smisi praticamente si seguirlo, se non episodicamente, nel suo percorso sperimentale. Ma qualche anno fa ebbi occasione di visitare una mostra antologica delle sue opere di poesia visiva; che in parte conoscevo, ma fu quella l’occasione per approfondire, giacché nel frattempo erano trascorsi parecchi anni e anche “Vogliamo tutto” l’avevo praticamente dimenticato.
Mia idea è che Nanni Balestrini non sia mai uscito dalla ragione; anzi, che muovendosi all’interno di questa abbia tentato, tramite azione di puro estetismo, di riflettere, come in specchio deformante, le procedure della comunicazione “di massa” in punto d’arrivo. Non si trattò di operazione “folle”, quanto piuttosto di registrazione creativa.
Gli va riconosciuto di avere mantenuto coerenza nel percorso sperimentale, e continuità ( a differenza di altri, sperimentalisti, che cambiando strada misero in luce la loro pochezza). E tutto sommato, a me pare che il suo timbro letterario sia stato leggero e godibile, e parecchia l’intelligente ironia; anche se fredda, a tratti glaciale, e questo si vide già ne La signorina Richmond.
Ora, tutte queste discussioni sul politico, a fronte dell’artista, a me sembrano ingenerose. Se mai qualche limite ci fosse stato, andrebbe ravvisato nella ragione stessa; che, essendo politica, agisce come gabbia di contenimento – non solo ideologico – e ci si chiede se bastino l’estetismo, inteso come combattimento, e il restare ingabbiati nella storicità, per dare soddisfazione…
Di Paolo Virno (?) segnalo questi due passaggi, che a mio parere avvalorano quanto andavo sostenendo, a proposito della sconsideratezza di certo linguaggio… chiamiamolo “Salviniano”:
“il carnevale delle soggettività non mi interessa”
“Secondo me si può parlare di rivoluzione fallita, in maniera sobria e oggettiva”.
@ Lucio
Questa tua boria per una sorta di primato della non ragione («Mia idea è che Nanni Balestrini non sia mai uscito dalla ragione») o apologia del “folle” mi pare astratta quanto quella degli illuministi tutto s’un pezzo.
Stabilizzarsi nella non ragione o nella follia è ammutolirsi per sempre. Nietzsche interessa quando ne resta ai bordi, ma quando finisce interamente in quel pozzo, chi può più dire di poterlo seguire e vivere o imparare qualcosa di più?
«Il sapere che viene dai folli» (un libro curato da Dissez e Fanelli per la DeriveApprodi) ha bisogno di uno che lo interroghi. E non può essere un Puro Folle.
Anche Foucault – mi pare di ricordare ( ma prima di lui Freud) – sosteneva (all’ingrosso) che senza ragione non si può esplorare nulla delle zone acherontee.
Tu non fai che contrapporre astrazioni: ragione a non ragione o a “follia”; politico ad artista. E via seguitando.
E, poi, contraddittoriamente e candidamente… sottoscrivi le lucide e *razionali* affermazioni di Virno!
E meno male, dico io…
Leggi meglio, Ennio: non sottoscrivo le affermazioni di Virno, le segnalo… come degne di Salvini!
La ragione in Foucault si rende inevitabile (alla critica) in quanto relativa al Logos, dico bene? Derrida, che è suo discepolo, smonta questa necessità. Ora, non sono in grado di entrare in aspetti tanto specialistici della critica filosofica, che qui sarebbe critica allo strutturalismo… però, da artista , stando quindi “ai bordi” della ragione, preferisco assegnarmi il compito di trasgredire, nella direzione di un dire originario, che è per forza di cose destrutturante; e per come la vedo io, in relazione alla psiche, anche con intento de-condizionante. Ho scritto “folle” per non dover entrare nello specifico. Ma perché non entri nel merito dell’operato artistico di Balestrini? In fondo è di questo che si sta parlando…
@ Lucio
Neppure io ho voglia di addentrarmi in questa sede su questioni filosofiche (che ho comunque orecchiato e non studiate a fondo).
“da artista , stando quindi “ai bordi” della ragione, preferisco assegnarmi il compito di trasgredire, nella direzione di un dire originario “?
Buona trasgressione ( anche se a me pare ripetitiva quanto le altre…) e buona ricerca di “un dire originario” (del tutto impalpabile). Io non mi metto manco l’abito di “artista” o “poeta”. Né al sole né all’Ombra delle parole. Ciascuno faccia come crede.
Su Balestrini credo di aver detto abbastanza obiettando a Negri. Ho avuto verso di lui, fin dai tempi della Signorina Richmond solo una tiepida curiosità.
“Stabilizzarsi nella non ragione o nella follia è ammutolirsi per sempre”.
E’ questo. E in questo attendo che con il pensiero, e con esso la ragione, si arrivi a comprendere l’esistenza di altro: la non-ragione, che per me non è follia, bensì non-pensiero. Qui sta anche la questione che mi differenzia con l’Ombra delle parole, che ha impostazione filosofica, quindi di tradizione classica occidentale, che comporta, nel metodo, se vuoi la dialettica, il fatto che vi sia un’assoluta mancanza di alternative. Ma all’Ombra si tenta, e io aspetto ( non sono tempi miei). Come vedi, fedele alle mie scelte post sessantottine. Tutto ciò non riveste grande importanza, ma è per precisare. Ciao
Come potrei leggere di filosofia, se non conoscessi già LA risposta. Da Heidegger a Derrida, pazientemente, per una mentalità acquisita e stabilizzata sullo ZEN, fin dall’inizio di ogni discorso, pur ascoltando e meditando, aspetto le prudentissime conclusioni di ognuno. E, pensa, restando socialmente dalla parte dei giusti; fa niente se non esiste più una sinistra. Da una sinistra come quella di oggi, che ti puoi aspettare?
MEMORIA E OBLIO. A PROPOSITO DI IO (DEBOLE, SFILACCIATO O COMPATTO?) E DI IO/NOI
Sarraute osserva i ricordi nell’istante in cui si fissano, palpandoli col linguaggio. E si dibatte contro il sentimento di identità. Dov’è l’io? Provate a cercarlo: è polverizzato in una massa di simulacri che solo la memoria riesce a radunare. Canetti afferma che ricordare salva il passato. Lo vuole salvare per intero, compresi i fallimenti, gli errori, gli sperperi. Crede che la memoria sia l’unica forma di sopravvivenza senza trionfo e senza violenza. E ne fa l’antidoto che gli permette di sopportare una sopravvivenza ben diversa, vergognosa e colpevole: quella del corpo invecchiato. Munro osserva tutti i paradossi della memoria, sfruttandone le promesse e i tradimenti come discrimine tra fiction e non fiction. Scrive da una soglia critica della propria esistenza, ma non pretende di operare un montaggio definitivo del vissuto. Insegue gli andirivieni del ricordare: passato e futuro, avanti e indietro, archivio e profezia. L’intera opera di Primo Levi è il racconto, frantumato in testi diversi, della memoria di un trauma. È un ricordare talmente indolenzito che non riesce a tenere insieme i vari pezzi dell’io. La prima persona è abolita, convertita in ‘noi’, un pronome plurale che rende giustizia ai sommersi della storia, ereditandone la parola. Ma è un ‘noi’ che non smette di sentirsi incompleto e fragile.
( DA “UNA TEORIA DELL’AUTOBIOGRAFIA” DI MARIA ANNA MARIANI http://www.leparoleelecose.it/?p=2984&😉
Ho provato a rilegger (mi) per capire se davvero mi sia espresso con boria, nel dare la mia opinione. Nel primo intervento, forse. Ma poi ho scritto questo commento, che a me sembra assai pertinente (prima che tu Ennio ripartissi con le tue filippiche sul ’68):
“Mia idea è che Nanni Balestrini non sia mai uscito dalla ragione; anzi, che muovendosi all’interno di questa abbia tentato, tramite azione di puro estetismo, di riflettere, come in specchio deformante, le procedure della comunicazione “di massa” in punto d’arrivo. Non si trattò di operazione “folle”, quanto piuttosto di registrazione creativa”.
Come hai potuto ridurre questo mio contributo, pertinente al lavoro di Balestrini, a una disputa tra ragione e follia?… e io a seguirti in questa, che sempre più m’appare una disputa pregiudiziale nei confronti di chi sai?
E com’è che nessuno dice niente? A parte Sagredo, naturalmente… ma Sagredo è ormai un’entità avviluppata su se stessa…
@ Lucio Tosi
«Come hai potuto ridurre questo mio contributo, pertinente al lavoro di Balestrini, a una disputa tra ragione e follia?… e io a seguirti in questa, che sempre più m’appare una disputa pregiudiziale nei confronti di chi sai?»
Io ho semplicemente contrastato la tua insistenza a vedere la ragione come funzione limitante e soprattutto come « gabbia di contenimento – non solo ideologico». È una posizione oggi prevalente anche a livello accademico, presente anche in Sagredo e in quasi tutti gli esponenti de L’Ombra delle Parole, nel cui heideggerismo stai – mi pare – a tuo agio; anche se, come precisi, ti differenzi per la tua posizione Zen.
La discussione su Balestrini è stata un’occasione per accennarvi (magari a scapito di un discorso più puntuale su di lui e la sua opera, che però ho fatto – velocemente, certo -nelle mie obiezioni a Negri).
…non sono intervenuta conoscendo poco dell’opera di N. Balestrini, ma mi interessano le “categorie” che emergono dal dibattito: “ragione” e “follia”, a cui vorrei aggiungere “sentimento” ( amore, solidarietà, senso estetico come crudeltà, egoismo, paura, angoscia…) secondo la lezione del romanticismo…Secondo me, ragione e sentimento sono inscindibili nelle persone (Francesco di Assisi come Hitler ne erano informati), con esiti anche opposti nelle scelte di vita e nel rapporto io-noi…mentre la “follia” aggiunge qualcosa alla visione della realtà, con elementi di visionarietà e spinte di rottura…Ma, comunque, secondo me, la follia stessa è imprescindibile da ragione e sentimento; i personaggi prima citati ne possedevano in larga misura…Forse il primato di ragione e sentimento morale gestisce meglio il nostro convivere, ma in quale forma e misura si realizzi il mescolarsi delle parti è un fatto che attiene alle nostre diversità…E’ un discorso un po’ generico, lo so
SEGNALAZIONE
Il sapere che viene dai folli
Quel che la psicosi ci insegna sull’amore, il corpo, il femminile, l’immagine, la libertà, il linguaggio, il sapere
a cura di Nicolas Dissez e Cristiana Fanelli
Il sapere che viene dai folli
Quando nel 1967, rivolgendosi a un pubblico di giovani psichiatri dell’ospedale Sainte-Anne di Parigi, Jacques Lacan dichiara che «il folle è l’uomo libero», non ci sta forse insegnando qualcosa sia sulla libertà che sulla follia? Solo il folle sperimenta, in termini di angoscia, il vero prezzo dell’aspirazione alla libertà, della speranza di liberarci da ogni legame.
Ci accorgiamo, così, che la follia ci offre la possibilità di tornare a interrogare buona parte delle nostre certezze. Sino a pochi anni or sono, la follia costituiva, infatti, una fonte d’ispirazione per scrittori e studiosi, che consideravano la parola del cosiddetto “alienato” portatrice di un sapere particolare.
I fenomeni che si producono nella follia sembrano far luce anche su molte questioni delle nostre vite. Perché allora la nostra epoca lascia così poco spazio all’insegnamento che da lì può giungere? Insieme alla letteratura e al cinema, la psicanalisi sembra oggi la sola disciplina che accetti di considerare la follia come fonte di nuovi interrogativi. È tangibile, infatti, che essa ha saputo farsi carico delle questioni che il sapere psichiatrico aveva tratto dall’osservazione di coloro che, messi al bando dalla società, si ritrovavano nei manicomi.
Partendo da un altro luogo – il lettino – la psicanalisi è riuscita ad amplificare questo sapere senza trascurarne le implicazioni. Ci sarebbe allora molto da imparare dai fenomeni della follia, se solo si seguisse il principio secondo cui la dimensione della sorpresa segnala l’affiorare di un sapere misconosciuto. Ma la nostra epoca sembra poco sensibile alla speranza di nuovi interrogativi. Terapie rieducative, procedure burocratiche, reazioni segregative sempre più violente, un’atmosfera prescrittiva sembrano produrre risposte autoritarie dinanzi a quel che, nel corso dei secoli, si è costantemente presentato come un interrogativo.
Come parte integrante della nostra umanità, la follia può insegnarci molto su noi stessi. È la scommessa di questo libro: che il sapere dispiegato nella psicosi possa permetterci d’interrogare in modo nuovo i nostri modi di concepire il linguaggio, l’amore, la coppia, il corpo, la bellezza, lo sguardo, il femminile, la rappresentazione o ancora lo spazio e il tempo… accettando però che la follia non si lascia mai rinchiudere in un sapere costituito.
I casi clinici qui presentati da psicanalisti e psichiatri, italiani e francesi, dell’Association Lacanienne Internationale ci mostrano «cosa accade quando quel margine inquieto che si chiama “desiderio soggettivo” viene abolito: ci si trova comandati, arpionati, ridotti a oggetti di un Altro divorante, più in contatto con il desiderio di morire che di vivere. Il che c’insegna molto su noi stessi, i cosiddetti normali, e moltissimo sui nostri tempi».
(https://www.deriveapprodi.com/prodotto/il-sapere-che-viene-dai-folli/)
Approfondimento 1/ Ancora Negri su Balestrini
Per evitare semplificazioni o irrigidimenti delle posizioni che finora si sono confrontate sulla figura di Nanni Balestrini meglio continuare a leggere e a riflettere. (E. A.)
SEGNALAZIONE
Antonio Negri, Lettera a Nanni sul costruire
Il materialismo poetico di Balestrini
https://operavivamagazine.org/lettera-a-nanni-sul-costruire/
Stralci:
1.
Poi ha continuato lamentandosi che tutti i romanzi non siano come i suoi e quelli di Umberto Eco: a metà fra Victor Hugo e Jules Verne… Lascio la cronaca, non è poi così interessante. Ti riferisco solo le mie impressioni, e cioè lo stupore che al discredito ingiustamente goduto dalla letteratura impegnata si aggiungesse un così solido odio per il nouveau roman. Mi chiedevo per quale ragione questa parentela fosse proposta e rispondevo a me stesso che ciò probabilmente avveniva poiché il nouveau romanera stato una specie di realismo dell’astratto, iniziale rinnovamento dell’avventura del grande realismo classico in un mondo ormai incapace di costruire soggetti eroici, solo produttivo di immagini e di strutture insensate e sconnesse. E aggiungevo fra me e me: ma quest’avventura, mutatis mutandis, non è forse la medesima di quel realismo che sconfinò nel cubismo? Realismo di Cézanne-nouveau roman…
2.
Proviamoci piuttosto per un momento sul «dover essere» – non come impossibile normativa dell’arte ma come idealItà fungente, utopia che corre in essa, prassi che la costituisce. Ora, non riesco a comprendere come la poetica possa non essere costruttivistica. Il costruttivismo è il destino della grande poesia e del grande romanzo. Ma oggi lo è a fortiori. Perché il mondo nel quale la funzione poetica è impiantata, è un mondo astratto, fattizio, indeterminato, nei sensi e nei valori. Sensi, valori, soggetti, non possono quindi che essere costruiti. Non precedono a monte ma sgorgano a valle, non anticipano ma concludono. Sono prodotti della struttura. È un lavoro collettivo quello che produce la singolarità.
3.
liquidando due vecchi feticci – il nouveau roman e l’arte impegnata – egli cercava di distruggere la funzione d’avanguardia che l’arte deve comunque esercitare. Quest’avanguardia non è oggi impegno morale, anima bella, militanza ideologica, ecc. – il nuovo realismo è piuttosto testimonianza di un’epoca disperata – realismo costruttivo punk – violenza espressiva e ribaltamento delle tecniche di mistificazione della comunicazione. Una sola fanzine punk contiene più realtà di tutti i romanzi di Eco e di Orsenna.
4.
Nanni caro, eccoci dunque a riproporci il tema del grande realismo. Adeguato al nostro tempo, all’astrazione drammatica nella quale si presenta l’essere. Certo, il grande realismo è sempre stata un’azione collettiva che produceva un’eccedenza d’essere – ma la sua novità, la novità della sua essenza, la si misura oggi sul tema dell’astrazione. E allora parliamo di nuovo di quest’astrazione, e di come l’attività costruttiva che è propria di ogni esperienza artistica realistica si provi in essa. Vi sono due metodi – l’uno è quello dell’analisi e della ricomposizione: è la matrice del realismo, classico, il metodo di Manzoni, Balzac, Tolstoj. Oggi però, diversamente da ieri, dall’arte romantica, analisi e ricomposizione si provano sull’astratto. Secondo questo metodo, l’astratto viene suddiviso nelle sue forme elementari, e ricomposto circolarmente, come una macchina, un motore – altrimenti detto: la realtà è mostrata nella sua astrazione, poi criticamente svuotata di senso, e infine ricostruita secondo linee di riorientazione semantica.
5.
Il secondo metodo è quello decisamente punk. L’accostamento all’astratto non è qui analitico o ricompositivo, ma idealtipico e diffusivo, antagonistico e catartico. L’astratto è descritto secondo tipologie binarie che vengono trattate in forma antagonistica. Questa funzione tipica ed antagonistica viene poi estesa nella maniera più larga – germinazioni multiple la seguono, modelli si moltiplicano, fino ad accumulare esemplificazioni didattiche ed esplosive dell’assurdità del reale. Da Dante Alighieri in poi una grande tendenza del realismo si è mossa in questo senso. Modernamente gli archetipi sono Stendhal, i romantici, Proust e Kafka. Oggi il realismo si modifica ancora in riferimento alla modificata natura dell’astratto. Il punk si rivela essere un punto altissimo di allucinata affermazione realistica.
6.
Quando penso al nostro tempo, alla formidabile rivoluzione che abbiamo vissuto e alla crisi e alla controrivoluzione che abbiamo subito, quando penso alla profonda analogia che la nostra epoca mostra con la crisi della Rinascenza e l’inizio del moderno – penso anche ai grandi autori che hanno illustrato quel momento: a François Rabelais, in particolare, e per altri versi (e in altre dimensioni culturali, rispecchianti comunque gli stessi elementi di crisi) a Teofilo Folengo e a Miguel Cervantes, penso cioè a come un mondo – un mondo nuovo – ieri quello dell’umanesimo e della borghesia, oggi quello dell’astrazione tecnologica e del socialismo – si mostri incomprensibile al suo inizio e come le forze che in esso vivono proponendo il nuovo, vogliono subito un’organizzazione fantastica e libera. Allora, il carattere liberato e incompiuto della nuova costituzione del mondo fu dato nella chiave del grottesco, del grande comico – l’arte fu impiantata su quello che avviene «dalla cintola in giù». Ed oggi? Il comico, la risata, il sarcasmo hanno ancora il loro spazio.
7.
oggi la modificazione storica è divenuta una mutazione biologica – e il riso, se resta sempre un prezioso aiuto nella vita, non è tuttavia chiave di conoscenza. Il riso – non è più strumento, per scoprire con nuove figure fantastiche nuova realtà ontologica – troppo difficile, problematica, feroce è infatti la natura di quest’ultima. Ma al di là del riso restano comunque il paradosso, l’estremità della tensione ideale, la possibilità di nominare realtà nuovissime, l’urgenza di rendere la parola in modo irriducibilmente originale.
8.
È a noi dunque, intera, la possibilità di costruire il mondo. Di costruirlo così come abbiamo avuto la possibilità di decostruirlo. In questa radicale operazione, l’arte anticipa il movimento complessivo dell’umano. Essa è un potere costituente, una potenza ontologicamente costitutiva. Attraverso l’arte il potere collettivo della liberazione umana prefigura il suo destino. Ed è difficile immaginare il comunismo fuori dell’azione prefigurativa di quest’avanguardia di massa – che è la multitudo dei produttori di bellezza.
9.
l’arte ritrova nell’attualità la sua dimensione di impegno politico rivoluzionario. Vale a dire che, necessariamente, produrre del bello è rivoluzionario.Vale a dire che, necessariamente, l’artista che produce del bello è impegnato. E se non si ritiene tale è un ipocrita – o non è un artista. D’altra parte la misura dell’impegno non è nei confronti di un partito ma dell’essere – bisogna essere nell’essere liberato, dobbiamo essere per la liberazione, altrimenti non c’è arte.
10.
Torniamo a noi, caro Nanni. Oggi bisognerebbe riaprire la funzione critica, polemica – riempirla, diffonderla, imporla. Non so bene come si possa fare ma sono certo che si deve fare. Ne succedono di tutti i colori. L’autocensura, quando si parla di certe cose, è talmente forte che, oltre a termini come rivoluzione, avanguardia, comunismo, anche nomi storici come Robespierre o Lenin sono stati cancellati dalla memoria. Il colmo, credo, consista nell’esclusione che da un recente Dizionario della Rivoluzione francese è stata fatta di Saint-Just. La reintroduzione di quelle parole e di questi personaggi nella coscienza dei contemporanei, non so bene come possa avvenire – di sicuro so che o sarà bella o non sarà. Un modello narrativo va quindi costruito – che passi atrraverso tutte le arti e le ricomponga in unità di progetto pratico. Non so bene se la via da seguire sia quella del grande realismo costruttivo oppure quella punk, dissacrante, antagonistica e diffusiva. Forse quest’ultima meglio corrisponde all’assurdità ed alla crudeltà del tempo che viviamo.
Estratto da Arte e multitudo, a cura di Nicolas Martino, DeriveApprodi, Roma 2014.
Approfondimento 2/ Balestrini=Manzoni?
Per evitare semplificazioni o irrigidimenti delle posizioni che finora si sono confrontate sulla figura di Nanni Balestrini meglio continuare a leggere e a riflettere. (E. A.)
Scrive l’autrice di questo articolo:«L’opera letteraria di Balestrini starebbe alle rivolte del proletariato nelle sue molteplici forme come Alessandro Manzoni all’unità nazionale». Ma la borghesia italiana la sua nazione l’ottenne, le rivolte degli anni ’70 non hanno ottenuto né il comunismo né hanno conservato le conquiste di quegli anni. E mi pare che, accanto alla possibile analogia, ci sia uno scarto notevole tra la “conricerca” di Montaldi, Alquati e Bermani e quella di Balestrini. [E. A.]
SEGNALAZIONE
Ilaria Bussoni,
La nuova vita che arriva
Una poetica per la vertigine della sovversione
https://operavivamagazine.org/la-nuova-vita-che-arriva/?ct=t(RSS_EMAIL_CAMPAIGN)
1.
Balestrini sarebbe per il Novecento letterario italiano lo scrittore «politico», colui che ha saputo inventare la forma e riprodurre la lingua delle lotte operaie, del rifiuto del lavoro, dello scontro diffuso tra rapporti sociali e rapporti produttivi che è serpeggiato lungo un decennio dal ’68 delle fabbriche al general intellect del movimento del ’77. L’opera letteraria di Balestrini starebbe alle rivolte del proletariato nelle sue molteplici forme come Alessandro Manzoni all’unità nazionale. E Balestrini è stato senz’altro questo: il poeta, il narratore, l’autore che più di tutti – di quella sua generazione di «poeti novissimi», radunati intorno alle sperimentazioni formali della «neoavanguardia» – avrebbe saputo ascoltare e tradurre in poetica le parole della lotta di classe, di quella fuga collettiva dalle gabbie della società del lavoro e della sua etica operaia, dai confini della società disciplinare e ortopedica chiamata Fordismo. Ma Balestrini è stato anche il poeta che, nell’osservare questa grande evasione, è fuggito a sua volta: da una poesia crepuscolare e intimistica che ancora segnava il Novecento letterario italiano, dalla funzione «organica» dell’intellettuale all’emancipazione degli oppressi, da un realismo didascalico che consegnava ogni poetica a una decorazione del socialismo. E nel farlo ciò che ha riportato a parole non sono stati tanto i contenuti politici degli slogan dei cortei o le ammonizioni dei volantini quanto «quello strappo sonoro / la nuova vita che arriva» che non ha mai smesso di usare come fonte primaria del proprio lavoro
2.
Siamo qui di fronte ad alcuni degli strumenti adottati da Balestrini per placare quella che Umberto Eco chiamava la sua «furia collagistica». Un’ossessione forse personale dell’autore – che l’avrebbe impiegata anche nel suo lavoro artistico sempre a tecniche miste – ma che risponde anche al modo in cui la letteratura si pone di fronte alla Storia e alle sue fonti. In quanto fiction, operazione di taglio e cucito che ricolloca il documento e il dato oggettivo del fatto di cronaca registrato dagli organi della comunicazione, o catalogato dallo storicismo, fuori dalla loro destinazione normativa di sapere storico dei dominanti, ridefinendo le condizioni di libertà degli stessi enunciati. I quali hanno possibilità di riciclo al di là della titolarità del soggetto che li ha parlati, e sono così restituiti dalla forma poetica alla potenza del linguaggio in quanto tale. In questo sta la «vertigine» come funzione letteraria.
3.
a parlare non è l’autore capace di inventare un soggetto munito di una proprietà di linguaggio, veridica o spiazzante che sia. A parlare è sempre l’impersonale degli enunciati circolanti, di volta in volta attecchiti su una funzione di parola che può assumere la forma del volantino, dell’occhiello di un quotidiano, dell’intervento di un militante in un’assemblea o di un ritornello corale della curva dei tifosi allo stadio. Per questo il materiale cui attinge l’operazione poetica è sempre il già detto, in qualunque sua forma. Fatto che a Balestrini è valso l’epiteto di «scrittore più pigro mai esistito», uno del quale Umberto Eco affermava, «esagerando un poco, che di suo non ha mai scritto una sola parola».
4.
L’interrogazione sullo statuto della parola si era del resto già posta come questione politica, quando, tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta, il sapere sull’emancipazione degli oppressi aveva deciso di andare a sentire la voce degli operai, degli emigranti interni che dal Sud agricolo si trasferivano nel Nord industriale, delle prostitute e dei marginali, smettendo di presumere di già conoscere quel che dicessero. Le inchieste di Danilo Montaldi e Franco Alasia, la «conricerca» di Romano Alquati, la storia orale di Cesare Bermani, l’etnografia musicale di Giovanna Marini e del Nuovo Canzoniere Italiano avevano gettato le basi di un’altra tecnica dell’ascolto e della registrazione del sapere dell’emancipazione. Da questa stessa disposizione nei confronti dell’origine della parola degli oppressi era scaturita quella corrente del marxismo critico italiano – il cosiddetto «operaismo» – che, proprio a partire da una diversa modalità di percezione della soggettività operaia e non solo, rompeva con le rappresentazioni del Partito Comunista e stravolgeva i rapporti tra soggetto e oggetto, parola e conoscenza, immaginati dalle scienze sociali. Balestrini, che quel marxismo critico aveva frequentato fin dal suo nascere – organizzando le sue istituzioni culturali tra riviste e case editrici e aderendo all’organizzazione Potere Operaio –, avrebbe dunque declinato con gli strumenti della letteratura quella disposizione a sentire la discrasia tra gli enunciati e le loro rappresentazioni. E non a caso, una delle preoccupazioni maggiori della sua poetica sarebbe stata proprio l’indagine della relazione tra la parola significata e la sua impronta sonora, tanto nella sua resa visiva della stampa e della tipografia – i paesaggi verbali – quanto in quelle voci corali che articolavano le istanze delle rivolte sociali e che avrebbero fatto le veci del narratore nei suoi romanzi più conosciuti, quali Vogliamo tutto e Gli invisibili.
5.
Certo vi si può leggere nella ricerca poetica di Balestrini la risonanza di Mallarmé nell’intendere la poesia come ontologia della contingenza, dell’avanguardia futurista per l’assemblaggio dei linguaggi e l’attrazione per le tecniche, di William Bourroughs e di Jacques Villeglé per quel found footage che è insieme scarto e materia prima dell’opera, persino il riverbero di una certa epoca ossessionata dalle strutture delle quali il linguaggio fu l’asse portante… ma Balestrini è stato l’unico autore ad assumersi il rischio di far derivare l’effetto politico di «un’opera autentica (libro, quadro, musica), che serve a farti vedere altro, o meglio a cambiare il tuo modo di vedere, di percepire le cose e il mondo»4 da un materiale organicamente già politico, restituendolo in questo modo alla sua potenza materica di «forza contro forza»5 e di conflitto anzitutto estetico. Sovrapporre forma e contenuto senza farli mai aderire, e da qui immaginare uno spazio terzo dove si disporranno entrambi, le parole e la materia di cui sono fatte (suono, effetti, lettere, ritmo, vita…), questo è stato uno degli azzardi di un autore che avrebbe scritto a se stesso in una raccolta di poesie dell’esilio politico provenzale: «Pentiti solo di non averlo fatto abbastanza»6. La scritta è comparsa su un muro di Centocelle, quartiere della periferia di Roma all’indomani della sua scomparsa. Il 19 maggio 2019.
Approfondimento 3/ Ma la parola è *soltanto* «un oggetto verbale»?
Per evitare semplificazioni o irrigidimenti delle posizioni che finora si sono confrontate sulla figura di Nanni Balestrini meglio continuare a leggere e a riflettere.
In questo articolo, al di là del tono amicale effusivo e di una rudezza da “duri”retorica e fastidiosa (per me), c’è un accenno, dato per ovvio, all’impianto “scientista” della poetica di Balestrini: « La parola è un oggetto verbale, non un sintomo psicologico». La questione è se sia davvero *possibile* ridurre esclusivamente la parola a *oggetto*. (Dubitandone, avevo scritto: « 1. Non capisco come possa aver fatto Balestrini a lasciare nel suo lavoro di poeta «l’anima accanto, fuori dalla poesia». Non ci riuscirono i futuristi e penso che – ad indagare a fondo i suoi testi – non sia riuscito neppure lui.»). . È davvero Ingenuo sostenere che « Quello che facciamo con le parole non racconta nulla che preesista al montaggio e allo smontaggio». Va a farsi benedire tutto l’accostamento di Balestrini alla *conricerca*, di cui si parla nell’approfondimento 2. E anche la possibilità di chiamare Balestrini «impresario della moltitudine». Se «la letteratura [fosse] soltanto affare di forma, non di contenuti», perché sceglieva di dar voce proprio all’operaio della catena di montaggio Fiat? (E.A.)
SEGNALAZIONE
Nicolas Martino, Lo strappo sonoro
https://operavivamagazine.org/lo-strappo-sonoro/?ct=t(RSS_EMAIL_CAMPAIGN)
1.
Vogliamo tutto, insieme a Scrittori e popolo di Asor Rosa e Operai e capitale di Tronti, rimane un testo seminale di un’estetica operaista e anti-hegeliana. Fu in effetti Nanni, con i Novissimi e il Gruppo 63, a sprovincializzare definitivamente l’Italia e la sua industria culturale, un po’ sul modello del Gruppo 47 in Germania, e del Nouveau Roman in Francia. Sulla sua poetica ha scritto molto bene Franco Berardi Bifo, su DeriveApprodi, interrogando L’enigma Balestrini:
La parola è un oggetto verbale, non un sintomo psicologico: questa è la premessa da cui parte Balestrini. Quello che facciamo con le parole non racconta nulla che preesista al montaggio e allo smontaggio.
2.
Nanni era il poeta dell’operaismo secondo Bifo, e aveva ragione. Probabilmente esistono due declinazioni artistiche, in ambito operaista: quella negriana di Nanni, diciamo così, e quella trontiana di Francesco Matarrese (che insieme a Nanni partecipo alla dOCUMENTA di Kassel nel 2012). Sulle qualità di organizzatore culturale è invece intervenuto Toni Negri sul «manifesto», chiamandolo, giustamente, un imprenditore della moltitudine:
3.
Sugli sviluppi della poetica di Nanni ha scritto, invece, Ilaria Bussoni, accostando il suo lavoro a quello di Jacques Ranciere:
Così Balestrini, lo scrittore che ha raccontato l’epica delle insorgenze italiane tra anni Sessanta e Settanta, era solito liquidare il problema del rapporto tra arte e politica: la letteratura è affare di forma, non di contenuti.
4.
A Nanni devo molto e molto ho imparato sul lavoro culturale. Gli ho sempre voluto bene, anche se era uno stronzo! Non posso che dirlo così, essendo cresciuto negli anni del cuore di panna… Senza rimorso, forza contro forza. Non abbiamo avuto tutto, ma forse qualcosa sì. Nevvero? Ora ci aspetta la nuova vita che arriva.
• Maurizio Bosco Ennio, provo a leggere queste interessanti riflessioni, denunciando da subito la mia scarsa confidenza con le categorie della critica letteraria, un c’ero fastidio per il linguaggio, a tratti pindarici e visionario, a tratti trionfalistico e gergale degli scritti di Negri e soprattutto di Ilaria Bussoni. Prendo però sul serio il tema della funzione artistica, per come oggi si potrebbe configurare (non solo in letteratura) ed anche il richiamo al costruttivismo che Negri evoca come seguito di una fase di decostruzione. Considero anche la eventuale plausibilità dell’equazione Balestrini=Manzoni. Riduco al minimo l’esposizione delle mie immediate riflessioni. Quali devono essere le condizioni per cui ad una decostruzione delle forme di rappresentazione, che nel decennio che va dalla fine ’60 alla fine dei’ 70 corrisponde ad una decostruzione anche imposta dal capitale dei ruoli sociali e ad una proliferazione di linguaggi- sistemi di segni, possa seguire una costruzione che valga come modalità di espressione di conflitti difficili da unificare sotto una forma universale? Negri, a proposito dell’opera di Balestrini, parla di ua sorta di materialismo a cui dovrebbe far seguito la produzione di un bello artistico come espressione del puro essere delle moltitudo. A me sembra di intravedere nel montaggio di Balestrini, che evidenzia lo scarto tra le varie forme di enunciati significanti e le pratiche concrete di enunciazione, una sorta di ritorno ad un naturalismo materico e pratico. Credo, prendendo spunto da ambiti artistici che conosco meglio, che l’aver subito una decostruzione ed una proliferazione di idioletti relativi a circuiti più o meno minoritari, ma comunque che si sono voluti come espressione immediata delle istanze conflittuali (in un arco che va dalla sperimentazione delle avanguardie colte, all’espressionismo del punk) abbia alla fine estenuato ogni capacità di elaborazione di strutture formali che possano avere valenza trans-individuale o trans-gruppale. Anche in musica, l’estenuazione dell’esperienza delle avanguardie ha condotto verso direzioni che, volendosi più realistiche e sottratte alle codificazione generalizzati, mirano alla esperienza dell’ascolto come esperienza del rapporto diretto con la materia sonora e di una rieducazione all’ascolto tout-court. Anche qui si sono prodotti contesti di fruizione speciali e separati. Credo che il prodotto artistico non possa essere compreso come fatto in-se conchiuso se non si considera contemporaneamente la trasformazione delle modalità della sua fruizione. Chi sono stati dunque i fruitori della opera letteraria di Balestrini? Tu sicuramente potrai rispondere meglio di me. Per quanto attiene alla funzione si costruttiva ed universalizzante (almeno per una parte consistente del corpo sociale) di quella che è stata l’opera manzoniana, al contrario credo di quella di Balestrini, mi azzardo a supporre che anche oggi si determini la necessità di una produzione che, volendosi costruttivista e collettiva (ma di un collettivo che è tutto da ricostruire e nominare), parta da un’istanza realista, rinunciando però all’immediatezza dell’uso di “dialetti” comunicativi parziali e possa ambire, piuttosto, ad una reinvenzione formale che possa svolgere, allo stesso tempo, sul piano del contenuto una funzione di straniamento critico rispetto agli ordini dei discorsi costituiti che ci raccontano la realtà, sul piano della forma l’ambizione alla invenzione di modalità di espressione che rompano programmaticamente con tutti gli spontaneismi ed i particolarismi di chi pensa di rivolgersi a suoi impliciti simili, ponendo viceversa in primo piano l’esigenza costruire una espressione “colta”, un nuovo “canone”, che sia armamentario di molti e rivolta a molti sebbene non a tutti. Che sappia tradire, far barcollare i particolarismi identitari in cui ci adagiamo e possa costituire un nuovo discorso comune. Comune per chi? È la domanda che può trovare risposta solo per un effetto retroattivo su coloro che attraverso una nuova forma significante riusciranno a nominarsi. Mi scuso per la lunghezza e per inevitabili ellitticità, ma come si suol dire, non ho avuto, per ora, il tempo per essere più breve e preciso.
@ Maurizio Bosco
1.
« l’aver subito una decostruzione ed una proliferazione di idioletti relativi a circuiti più o meno minoritari, ma comunque che si sono voluti come espressione immediata delle istanze conflittuali (in un arco che va dalla sperimentazione delle avanguardie colte, all’espressionismo del punk) abbia alla fine estenuato ogni capacità di elaborazione di strutture formali che possano avere valenza trans-individuale o trans-gruppale».
Sì, anche io ho questa impressione. Ma, non avendo frequentazioni vere con queste esperienze avanguardistiche e scontando anche una certa diffidenza “fortiniana” nei loro confronti, non do nessun giudizio definitivo. Me ne sento lontano, però.
2.
« Chi sono stati dunque i fruitori della opera letteraria di Balestrini? Tu sicuramente potrai rispondere meglio di me».
Per le stesse ragioni non so rispondere in modo soddisfacente. Però, recuperando una vecchia discussione che avevamo fatto su POLISCRITTURE nel 2014 a proposito di comprensibilità e incomprensibilità in poesia (https://www.poliscritture.it/2014/07/03/su-comprensibilita-e-incomprensibilita-in-poesia/ ) e riadattadola al tema in questione, azzardo una possibile risposta.
Credo che, accanto ai fruitori dell’ex arte d’élite della tradizione diciamo fino agli impressionisti, che ha avuto un suo strascico di consenso di pubblico molto ampio anche per la diffusione delle sue immagini attraverso i mass media, si sia ampliata a livello di un’intellettualità di massa più scolarizzata un’altra arte sempre d’élite che ha avuto un consenso sicuramente minoritario, ma forte, aggressivo, rumoroso, spettacolare, soprattutto nei settori “ribellistici” o “sovversivi” della società (i giovani, la piccola borghesia, poi un certo ceto medio “planetario”) e non però in altri (le masse contadine o operaie di una volta, la “gente” d’ oggi). Questo, credo, sia stato ed è soprattutto il pubblico di Balestrini ( e di Negri). A me colpisce che avanguardia e neoavanguardie di continuo si ripresentano e si riproducono (segno che hanno una loro ragion d’essere), trovano nella società capitalistica sempre un certo seguito, ma non “sfondano” mai. O, se hanno sfondato ( in editoria, pubblicità, moda, ecc.) è avvenuto sempre a scapito delle punte più “rivoluzionarie” ed estreme, che vengono addomesticate. Quindi, queste esperienze a me pare convivano più o meno bene con la “tradizione del vecchio”. E mi sono chiesto se, dietro questo “nuovo” non c’erano già negli anni ’60 altre autorità magari forti in altri paesi, in altri contesti culturali, ma non ancora qui in Italia. Mi riferisco al processo di “americanizzazione”, che ebbe ragione delle resistenze “vecchie”, delle poetiche “tradizionali”(dal neorealismo, allo sperimentalismo officianesco). Mi riferisco pure alle polemiche di Fortini e altri con Vittorini, Calvino, ecc. Alla fine del processo, insomma, fatte fuori le vecchie autorità, le nuove che si sono imposte dove ci hanno condotto?
Quei «messaggi morali, etici e politici» libertari del ’68, che «parlavano di un mondo radicalmente “altro” di forme a sé stanti e parole (relativamente) a sé stanti che si coniugavano formando un mondo che non era e non voleva essere un’imitazione di quello “reale”» dove ci hanno portato?
Da qui anche le mie obiezioni a Negri che esalta Balestrini.
Lo chiedo senza ergermi a moralista o a difensore dell’arte “comprensibile”. Mi pare però legittimo chiedermi cosa ci ha fatto comprendere in più l’arte “incomprensibile”. E credo che una tale discussione vada fatta riponendosi la domanda se quel “nuovo” in poesia e arte ( e anche in Balestrini) andava davvero «al cuore della “dittatura del capitalismo”»? preparava davvero a intenderlo meglio? o batteva al ritmo di quel cuore?
Sullo sfondo restano le due ipotesi teoriche da cui non riesco a prescindere: quella di Adorno (la poesia o l’arte autentica è in sé nemica dell’esistente inautentico); e quella di Fortini, che corresse il filosofo tedesco indicando quanto la poesia (tradizionale o d’avanguardia), per il solo fatto di essere forma, non fosse di per sé rivoluzionaria o raggiungeva sempre un’autenticità al di sopra di ogni sospetto.
3.
Sono d’accordo invece con «l’ambizione alla invenzione di modalità di espressione che rompano programmaticamente con tutti gli spontaneismi ed i particolarismi di chi pensa di rivolgersi a suoi impliciti simili, ponendo viceversa in primo piano l’esigenza costruire una espressione “colta”, un nuovo “canone”, che sia armamentario di molti e rivolta a molti sebbene non a tutti. Che sappia tradire, far barcollare i particolarismi identitari in cui ci adagiamo e possa costituire un nuovo discorso comune».
È quello che ho tentato con il Laboratorio Moltinpoesia (2006- 2012), ma con risultati parziali e insoddisfacenti, sui quali sto, da isolato, riflettendo (https://www.poliscritture.it/2019/06/12/agli-inizi-del-laboratorio-moltinpoesia/).
Umberto Eco affermava, «esagerando un poco, che di suo non ha mai scritto una sola parola».
Credo proprio che abbia ragione, Eco. E che si tratti di neo avanguardia pop. E via con le etichette. Non Punk, a meno che non si voglia intendere lo zero in comunicazione. L’analisi di Negri sul costruttivismo di Balestrini: Foucault e Derrida.
Penso che l’intento letterario de-strutturante, a prescindere che voglia essere di contributo al “processo rivoluzionario” – qui andrebbe fatta la valutazione marxista – , è forse l’eredità, per artisti e poeti del nuovo millennio.
Non condivido il giudizio di astrattezza della comunicazione mediatica. Si rischia di fare confusione. Tanto più se a questa si contrappone un realismo dagli esiti appunto astratti. Ma allora bisognerebbe analizzare il linguaggio puro e semplice, il linguaggio in sé. La qual cosa comporta che si resti in superficie. Del resto questa, a mio modesto parere, fu la caratteristica delle neo avanguardie di fine novecento.
“lo zero in comunicazione”, detto altrimenti: io con voi non ci parlo.
Confidando in Poliscritture sito di poesia, e per aver sostenuto che Nanni Balestrini sia stato un poeta Pop, o comunque Pop-comunista, spero non dispiaccia se posto qui una poesia di Mario Gabriele; come esempio di poesia di arte pop, e non solo:
Riordinammo i libri, il catalogo degli Autori
lasciando intatti i sampietrini nel giardino.
Cielo aperto, cielo chiuso.
Qualche allarme nel querceto.
La terra ci ingoia, piange come la rugiada.
Oblò chiusi. Ante serrate.
Prega il buon Dio
di fare a meno delle nostre ossa.
Ci penseranno i falchi pellegrini
quando verrà il tempo delle spoliazioni.
Riapriamo la cantinola
con le muffe e le matrioske.
Oh, guarda qui Mariette,
ci sono ancora le t-shirts del 68!
Aver avuto allora un Food Store
sarebbe stata una fortuna!
C’è molta imprudenza da queste parti.
Baldus non sa che dire.
Ogni giorno si allaccia i polsini,
ripete il monologo di Shakespeare.
Questa sera al reading in via dei Pini
tornano le ballate di Zukovskij.
William fa sapere che anche a Pasqua
l’Hudson è stato un assassino.
(Mario Gabriele, da Registro di bordo, in via di pubblicazione con Progetto Cultura)
a Mayoor: “si contrappone un realismo dagli esiti appunto astratti”, a che realismo ti riferisci?
su qualche frase di Ennio Abate:
1. “Mi pare però legittimo chiedermi cosa ci ha fatto comprendere in più l’arte ‘incomprensibile’.” Concordo, e il senso di noia a leggerla dice che era più ingegnosa che riflessiva. Della poesia femminile della neo avanguardia ha continuato a scrivere Giulia Niccolai, che ha scelto però una strada sapienziale, poesia piana, concentrata, complessa.
2. “… riponendosi la domanda se quel “nuovo” in poesia e arte (e anche in Balestrini) andava davvero «al cuore della ‘dittatura del capitalismo’»? preparava davvero a intenderlo meglio? o batteva al ritmo di quel cuore?” Andava al cuore in quanto pompa, meccanismo e funzione idraulica che si spande per li rami: era poesia analitica delle operazioni associative, lavoro sulla sintassi, e quindi decostruzione.
3. L’argomento “quanto la poesia (tradizionale o d’avanguardia), per il solo fatto di essere forma non fosse di per sé rivoluzionaria” fu filosoficamente criticato dal coevo pensiero negativo: la “forma” è ineliminabile come lo Stato e la Differenza.
4. La finale dichiarazione di accordo con “l’ambizione all’invenzione di modalità di espressione che rompano programmaticamente con tutti gli spontaneismi ed i particolarismi di chi pensa di rivolgersi a suoi impliciti simili, ponendo viceversa in primo piano l’esigenza costruire una espressione “colta”, un nuovo “canone”, che sia armamentario di molti e rivolta a molti sebbene non a tutti. Che sappia tradire, far barcollare i particolarismi identitari in cui ci adagiamo e possa costituire un nuovo discorso comune» solleva qualche problema.
Anche solo sul piano logico: “costruire espressione colta di molti e rivolta a molti” richiama i molti versus le identità, cioè generale vs particolare. Ma un generale che possa diventare comune, fino a che punto è generalizzabile? Non resta sempre e solo parte? E allora, che parte è?
Mi riferisco al fatto che Balestrini, avendo “scritto poco” di suo, abbia fatto patchwork di linguaggio mass mediatico. Non penso fosse interessato a uscire da quella realtà. Ma le frasi trovate e ricomposte, perdendo significato finivano inevitabilmente col dichiarare l’astrattezza del linguaggio in uso; che è volatile, zero introspettivo e meramente funzionale.
@ Fischer
Il punto 4 cita una formulazione del problema di una “letteratura (o poesia) per molti” che non è mia ma di Maurizio Bosco. (L’ho riportata da POLISCRITTURE FB). E ho anche accennato al ripensamento cominciato sull’esperienza del Laboratorio Moltinpoesia.
Per quel che mi riguarda, preferirei partire dai problemi formulati da me. E in maniera articolata, come nell’intervista che mi fece nel 2003 Ezio Partesana: https://www.poliscritture.it/2015/08/03/sulla-poesia-esodante-intervista-2013-di-ezio-partesana-a-ennio-abate/
Era chiaro che la frase fosse di Maurizio Bosco. Tuttavia la frase ha una sua interna contraddittorietà tra l’essere “ambizione di una espressione colta e nuovo canone per molti” e poter essere anche “nuovo discorso comune”. Quindi come e in cosa dirsi d’accordo? Se è un punto di partenza, è anche generico.