edizioni NEM srl
di Vincenzo Di Maro
^ Non fu attraverso me che desiderò esistere? Nel suo sguardo giustifico mano e postura. Né scrivo che la forma necessaria: soltanto Suo il gesto che rivela. Verità, farti e attingerti se mi fronteggi e guidi se spingi e mi sei allato io non sono che il luogo che non ospita niente. Ma chi scava l’oggetto o la ragione? O impassibile negligenza del tempo.
^ Questo corpo introflesso dove occorre assorbirvi. Vedremo che cos’era desiderio di senso per noi tutti, la storia elementare che illude e affratella. Buco nero. Silenzio. Babele rovesciata. ^ La confidenza tra pioggia, albero, spiga è prima delle cose: per questo pregherò il coltello in cammino tra le greggi quando a sera la terra è pane offerto e si spezza, come il cuore che germina. CORO Tutta l’estate i merli fischiarono in giardino. Chi c’era ad ascoltarli? Più nessuno. D’inverno non riuscimmo a vivere di poco. Eravamo affamati, confondemmo con miseria saggezza. La brevità del giorno nella stessa riprovazione. Tradimmo, uscimmo al buio, non tornammo più indietro. Nessuno affermi il torto o la ragione. Basti quel gelo che le costellazioni tennero in serbo per renderci l’effigie della razza più audace, più straziata. Seppure esiste amore, verrà dopo. ^ Emanata dall’albero, alta tra l’erba concordi vento e aureola del soffione non si capisce, questa cosa se esiste o se conduce un volto, non somministra questa cosa conforto. So che nelle voci ci tendiamo agguato se la strada serba subito un nome: così è bene guardare prima di immaginare che alla luce si apra alla ferita il pescatore, e non è vero che non aspetto quando fisso lanceole brune in acqua, che non provo riconoscenza se l’aggressore arriva e sono assente. Desidero nel ventre erbe stellate, santi nascosti, l’alimento che mi venga in cerca. ^ Qui dentro l’ostensorio del costato svanisce il mondo, non mancano le cose ma lo sguardo, la lama del cero: la sua tremula forza non trapassa la sete, ma ne viene trapassata e soppressa, il soffio spento nella circostante immobile evidenza. Funesta, avvinta al vano buio gemello della foglia fra le segrete della gravità e revocabile, come spesso la grazia sa essere, e tremenda. ^ Tu porti nuovi morbi, maledici acqua e pane. Tu guidi alla terra d’esilio i nostri cuori di lapillo e lava. La colonna di fuoco maleolente è uscio vivido al buio in cui svaniamo. Ma nei mattini scorgemmo la bellezza che con cautela ripiega le ali, l’ostro della falena che alla foglia si cela e s’imbruna. ^ Restituiscimi. Fa’ in modo che io mi veda. Le cose ritornate al loro buio muoiano in me, cosicché mi accenda. Che l’occhio sia veduto, invocata la voce, trovi ascolto l’orecchio. Come presto si sciolgono le nozze del pianeta, come cenere sia la sola patria, il solo nome scritto dentro il palmo. Guarda, neanche l’albero rientra nel suo nome, spalanca ferite nella luce, artiglia il grumo. Rendimi la montagna che risale l’avo, dove l’eco non tace. A questa carne. ^ Conducimi a conoscere il Vivente, sfuggire all’umido che mi traduce in spire. Fa’ del tempo friabile luogo della preghiera: sia distanza dalla tua la mia mano, sia dente della mia ossessione ogni brano di carne adulterata: quando l’argilla del leone si tramutò in deserto, scorgemmo in sogno boccheggiare un volto come pesce a riva. Ma tu spicchi dall’amo del respiro. Solo così la tua acqua si rivela. VI G., la Tempesta A notte, in sogno, ha corpo anguiforme e lucente. Il lampo è la grata da cui spia. Una distanza che distrugge o feconda. Nella distanza, cose: come un mondo. E qualcuno: come a essere lui. Lui che è già lampo. Guizzo e graticcio. E buio di cose. E quasi mondo. Così conosce il frutto. Lo serba in grazia e accortezza di donna. Difende il frutto, in valentia e costanza di guardiano. Dal lampo concepisce. Tra alberi e sterpi cela il frutto agli uomini, dietro il viluppo tra la luce e il buio. Quando nasce il bambino,in cui chi osserva è in se stesso osservato, lui- chiunque lui sia - è custode del tempo. Qui. Per confutarlo.
Nota di E. A.
Non è stato possibile tenere in una riga questo sintagma che nell’originale appare in un unico verso: Quando nasce il bambino, in cui chi osserva è in se stesso osservato, lui- chiunque lui sia – è
Ringrazio Ennio Abate per la gentile attenzione
DUE APPUNTI
Una poesia dal tono alto, meditativo. Di matrice ungarettiana, mi pare. Chi legge deve immaginarsi in un mondo elementare, quasi arcaico, pre-storico, forse biblico (« prima delle cose»). E in un immenso silenzio che rende le immagini concrete metafisiche e simboliche («Tutta l’estate i merli/ fischiarono in giardino./ Chi c’era ad ascoltarli? / Più nessuno»). E ridimensiona e rende indecifrabili i conflitti («Tradimmo, uscimmo al buio,/ non tornammo più indietro./ Nessuno affermi il torto o la ragione»). Che non si sa se avvenuti tra uomini o spiriti. Qual è, infatti, la «razza più audace, più straziata» e senza amore («Seppure esiste amore, verrà dopo»)? E di chi la voce che, in una catastrofe cosmica, invoca una divinità-specchio o Altro: «Restituiscimi. Fa’ in modo che io mi veda./ Le cose ritornate al loro buio/ muoiano in me,/cosicché mi accenda»?
Poesie di forte meditazione ontologica. La relazione oggettuale, annunciata nella poesia che apre la raccolta, vira decisamente nell’”ostensorio del costato” dal quale, come sete, ritraduce la sua interazione con l’esterno, l’aperto e i compagni (con cui mangia il pane).
La relazione è, per cominciare, movimento nella poesia 5, accennato in “salire artigliare” della 8, spirituale nel me/altro di “Restituiscimi. Fa’ in modo che io mi veda”.
Attenzione alla sintassi (sembra una ispirazione impetuosa che incalza), che lega in passaggi di senso sottintesi: pregherò, il coltello, in cammino sono tre elementi accostati non legati grammaticalmente, ma il contesto successivo li riconvolge: pane, terra, spezzo, cuore, germina. Anche “inverno” lega “tradimmo e uscimmo al buio”, insieme con l’occasionale giorno breve di luce.
Nella relazione oggettuale si inserisce la lancia di luce, ferita di luce, funesta e tremenda “come spesso la grazia/sa essere”. Più intero il mondo si distingue nella relazione io e tu, rappresentata appunto in figure “la montagna che risale l’avo”, “tu spicchi dall’amo del respiro”. Foglie, luce, fuoco, lampo. Acqua. Sono richiami naturali, e aggiungo il giunco, il leone e il deserto, scritturali e danteschi.