Dieci poesie da “Una stagione nascosta”

edizioni NEM srl

di Vincenzo Di Maro

 ^
 Non fu attraverso me
 che desiderò esistere? 
 Nel suo sguardo giustifico
 mano e postura.
 Né scrivo che la forma necessaria:
 soltanto Suo il gesto che rivela.
 Verità, farti e attingerti
 se mi fronteggi e guidi
 se spingi e mi sei allato
 io non sono che il luogo
 che non ospita niente.
 Ma chi scava 
 l’oggetto o la ragione?
 O impassibile
 negligenza del tempo.
  
  
 ^
 Questo corpo introflesso dove occorre
 assorbirvi. Vedremo che cos’era 
 desiderio di senso per noi 
 tutti, la storia elementare 
 che illude e affratella. 
 Buco nero. Silenzio.
 Babele rovesciata.
  
  
 ^
 La confidenza tra pioggia, albero, spiga
 è prima delle cose: per questo 
 pregherò il coltello in cammino tra le greggi
 quando a sera la terra è pane offerto
 e si spezza, come il cuore che germina.
  
  
  
 CORO
  
 Tutta l’estate i merli
 fischiarono in giardino.
 Chi c’era ad ascoltarli? 
 Più nessuno.
 D’inverno non riuscimmo
 a vivere di poco. 
 Eravamo affamati, confondemmo 
 con miseria saggezza.
 La brevità del giorno nella stessa
 riprovazione. Tradimmo, uscimmo al buio, 
 non tornammo più indietro.
 Nessuno affermi il torto o la ragione.
 Basti quel gelo che le costellazioni
 tennero in serbo per renderci l’effigie
 della razza più audace, più straziata. 
 Seppure esiste amore, verrà dopo.
  
   
 ^
 Emanata dall’albero, alta tra l’erba
 concordi vento e aureola del soffione
 non si capisce, questa cosa
 se esiste o se conduce
 un volto, non somministra 
 questa cosa conforto. 
 So che nelle voci ci tendiamo agguato 
 se la strada serba subito un nome:
 così è bene guardare
 prima di immaginare che alla luce
 si apra alla ferita il pescatore,
  e non è vero che non aspetto
 quando fisso lanceole brune
 in acqua, che non provo
 riconoscenza se l’aggressore arriva
 e sono assente. Desidero 
 nel ventre erbe stellate,
 santi nascosti, l’alimento
 che mi venga in cerca.
  
  
 ^
 Qui dentro l’ostensorio del costato
 svanisce il mondo, non mancano le cose
 ma lo sguardo, la lama del cero:
 la sua tremula forza non trapassa
 la sete, ma ne viene
 trapassata e soppressa,
 il soffio spento nella circostante 
 immobile evidenza.
 Funesta, avvinta al vano
 buio gemello della foglia
 fra le segrete della gravità
 e revocabile, come spesso la grazia
 sa essere, e tremenda.
  
  
 ^
 Tu porti nuovi morbi, maledici acqua e pane. 
 Tu guidi alla terra d’esilio 
 i nostri cuori di lapillo e lava. 
 La colonna di fuoco maleolente 
 è uscio vivido al buio in cui svaniamo.
 Ma nei mattini scorgemmo la bellezza
 che con cautela ripiega le ali,
 l’ostro della falena che alla foglia
 si cela e s’imbruna.
  
  
 ^
 Restituiscimi. Fa’ in modo che io mi veda.
 Le cose ritornate al loro buio
 muoiano in me, cosicché mi accenda.
 Che l’occhio sia veduto, invocata la voce,
 trovi ascolto l’orecchio. 
 Come presto si sciolgono
 le nozze del pianeta, come cenere sia
 la sola patria, il solo nome scritto 
 dentro il palmo. Guarda,
 neanche l’albero rientra 
 nel suo nome, spalanca
 ferite nella luce, artiglia il grumo.
 Rendimi la montagna che risale 
 l’avo, dove l’eco non tace.
 A questa carne.
  
  
 ^
 Conducimi a conoscere il Vivente,
 sfuggire all’umido che mi traduce in spire.
 Fa’ del tempo friabile 
 luogo della preghiera: sia distanza
 dalla tua la mia mano, 
 sia dente della mia ossessione 
 ogni brano di carne adulterata: 
 quando l’argilla del leone 
 si tramutò in deserto, 
 scorgemmo in sogno 
 boccheggiare un volto 
 come pesce a riva. 
 Ma tu spicchi dall’amo del respiro.
 Solo così la tua acqua si rivela.
  
  
 VI
 G., la Tempesta
  
A notte, in sogno, ha corpo anguiforme e lucente.
Il lampo è la grata da cui spia. Una distanza che distrugge o feconda.         Nella distanza, cose: come un mondo.                          
E qualcuno: come a essere lui.    
Lui che è già lampo. Guizzo e graticcio.           
E buio di cose. E quasi mondo.
 
Così conosce il frutto. Lo serba in grazia e accortezza di donna. 
Difende il frutto, in valentia e costanza di guardiano. 
Dal lampo concepisce.                                    
Tra alberi e sterpi cela il frutto agli uomini, dietro il viluppo tra la luce e il buio.
Quando nasce il bambino,in cui chi osserva è in se stesso osservato, lui-                          chiunque lui siaè 
custode del tempo.                    
Qui.
Per confutarlo.
   

Nota di E. A.
Non è stato possibile tenere in una riga questo sintagma che nell’originale appare in un unico verso: Quando nasce il bambino, in cui chi osserva è in se stesso osservato, lui- chiunque lui sia – è

3 pensieri su “Dieci poesie da “Una stagione nascosta”

  1. DUE APPUNTI

    Una poesia dal tono alto, meditativo. Di matrice ungarettiana, mi pare. Chi legge deve immaginarsi in un mondo elementare, quasi arcaico, pre-storico, forse biblico (« prima delle cose»). E in un immenso silenzio che rende le immagini concrete metafisiche e simboliche («Tutta l’estate i merli/ fischiarono in giardino./ Chi c’era ad ascoltarli? / Più nessuno»). E ridimensiona e rende indecifrabili i conflitti («Tradimmo, uscimmo al buio,/ non tornammo più indietro./ Nessuno affermi il torto o la ragione»). Che non si sa se avvenuti tra uomini o spiriti. Qual è, infatti, la «razza più audace, più straziata» e senza amore («Seppure esiste amore, verrà dopo»)? E di chi la voce che, in una catastrofe cosmica, invoca una divinità-specchio o Altro: «Restituiscimi. Fa’ in modo che io mi veda./ Le cose ritornate al loro buio/ muoiano in me,/cosicché mi accenda»?

  2. Poesie di forte meditazione ontologica. La relazione oggettuale, annunciata nella poesia che apre la raccolta, vira decisamente nell’”ostensorio del costato” dal quale, come sete, ritraduce la sua interazione con l’esterno, l’aperto e i compagni (con cui mangia il pane).
    La relazione è, per cominciare, movimento nella poesia 5, accennato in “salire artigliare” della 8, spirituale nel me/altro di “Restituiscimi. Fa’ in modo che io mi veda”.
    Attenzione alla sintassi (sembra una ispirazione impetuosa che incalza), che lega in passaggi di senso sottintesi: pregherò, il coltello, in cammino sono tre elementi accostati non legati grammaticalmente, ma il contesto successivo li riconvolge: pane, terra, spezzo, cuore, germina. Anche “inverno” lega “tradimmo e uscimmo al buio”, insieme con l’occasionale giorno breve di luce.
    Nella relazione oggettuale si inserisce la lancia di luce, ferita di luce, funesta e tremenda “come spesso la grazia/sa essere”. Più intero il mondo si distingue nella relazione io e tu, rappresentata appunto in figure “la montagna che risale l’avo”, “tu spicchi dall’amo del respiro”. Foglie, luce, fuoco, lampo. Acqua. Sono richiami naturali, e aggiungo il giunco, il leone e il deserto, scritturali e danteschi.

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