di Donato Salzarulo
Una città è anche costruita mediante i ricordi che riusciamo a conservare delle esperienze che in essa vi facciamo e in qualche modo passiamo ad altri, forse persino ai più giovani. Questi di Donato Salzarulo si inseriscono nel lavoro di scavo sugli anni ’70 promosso dal gruppo “On the road again. Anni 70 a Cologno” (di cui qui e qui). Pubblico la prima parte del suo scritto. E appena possibile la seconda. [E. A.]
Arrivai a Cologno tra la fine di settembre e gli inizi di ottobre del 1968. Non ricordo bene il giorno. So che ad accogliermi c’erano mio fratello e i miei cugini materni Peppino e Gerardo Ferricchio. Loro erano arrivati qui già da diverse settimane, si erano sistemati in una mansarda di Via Corridoni a Ginestrino e lavoravano in alcune grandi fabbriche. Mio fratello da pochi giorni alla Candy di Brugherio, Peppino alla Pirelli di via Ripamonti e Gerardo alla Breda siderurgica di Sesto.
Si trovavano qui grazie ad un cugino di mia madre che, per distinguerlo fra i vari Giuseppe, ci abituammo a chiamare: “Zio Peppe di Piazza Italia”. Abitava, infatti, proprio in questa piazza, nel palazzo coi portici, di fronte alla sede del PSI. Mio zio era un socialista e frequentava questa sede con una certa assiduità. La ragione fondamentale del suo orientamento politico era questa: suo fratello Vito, che aveva sposato una sorella di mio padre (zia Francesca), era morto durante la spedizione dell’esercito italiano in Russia (1941-43). Secondo lui, la colpa era stata dei comunisti. Un giorno provai a ribattergli che Mussolini aveva forse più responsabilità di tutti. Partecipando all’«operazione Barbarossa» decisa da Hitler per invadere quelle terre, aveva mandato i nostri poveri soldati a morire malvestiti e malarmati. Non è escluso che zio Vito fosse morto di freddo e di fame. Risultava, infatti, disperso. Ma fu inutile. Zio Peppe non si lasciava convincere facilmente.
Fatto sta che la casa di mio zio e della zia Peppinella (sua moglie, Giuseppina) ospitò per diversi mesi la valigia di libri che, proveniente da Torino, avevo portato con me. Li avevo lasciati a Rivoli, all’Istituto Filadelfia, dove avevo alloggiato durante l’anno accademico 1967-68. Col nuovo anno avevo da risolvere urgentemente due problemi: 1) trovare una sistemazione nuova perché durante l’estate il direttore dell’Istituto m’aveva cortesemente invitato a farlo (la mia partecipazione alla “contestazione studentesca” non gli era piaciuta, ma questo non me lo scrisse); 2) trovarmi un lavoro perché avendo perduto il pre-salario e non avendo genitori in grado di sostenermi economicamente non potevo più permettermi il privilegio di fare lo studente a tempo pieno.
Tornando a Torino e riprendendo il filobus per Rivoli m’ero illuso di risolverli cercando un posto da istitutore in qualche collegio. Bussai a diversi portoni. Nulla da fare. Allora, ricorsi a mio fratello e ai miei cugini. Mi presero volentieri sulle loro spalle (la somma necessaria alla spesa settimanale continuò ad essere divisa per tre, anche se eravamo in quattro), ma i letti erano soltanto tre e anche avessimo voluto aggiungere il quarto, lo spazio non c’era. Meno male che i cugini facevano i turni di notte. Insomma, l’autunno del Sessantotto andò così. Per dormire, ci adattammo. Un po’, come succedeva nel Lancashire della prima rivoluzione industriale, dove, come ricordava Marx nel primo libro del Capitale, era divenuta tradizione popolare dire che «i letti non si raffreddano mai.»
Quanto al lavoro, inizialmente ne cercai uno come impiegato. Feci colloqui alla Candy e alla Magneti Marelli. Durante l’adolescenza, avevo fatto un corso da dattilografo e pensavo che potesse accreditarmi. Ma, appena sentivano che avevo l’abilitazione magistrale, mi salutavano cordialmente. «Che senso ha assumerla?… Farà sicuramente il maestro…» mi disse il capo del personale della Marelli. Così cominciai a fare il maestro di doposcuola.
Una domenica mattina, zio Peppe e mio cugino Gerardo vollero che li accompagnassi nella sede del PSI e mi presentarono a Porreca, un loro amico. Questi si consultò con Giallombardo e Bonalumi e mi disse di rivolgermi a De Carlo, il farmacista, o all’insegnante De Marco. Erano alla guida del Patronato Scolastico e assumevano maestri per il doposcuola. A fine ottobre, inizi novembre cominciai a lavorare per sessantamila lire al mese nel plesso scolastico di Via Vespucci. Alle 12.30 prendevo i bambini, li portavo a mensa, mangiavo con loro, li aiutavo a fare i compiti e, se restava tempo, organizzavo delle attività integrative.
A 19 anni, in quel periodo della mia vita, quest’attività mi risultò abbastanza gradita: oltre all’esperienza coi bambini, mi risolveva il problema del pasto di mezzogiorno e mi consentiva di poter continuare gli studi. Certo, ero uno studente-lavoratore. Non potevo più frequentare gli amici e Palazzo Nuovo, l’Università si sarebbe trasformata ai miei occhi in un “esamificio”, ma non avevo alternative. A Milano, alla Statale, non c‘era la Facoltà di Magistero e voglia di iscrivermi alla Cattolica (dove c’era) non ne avevo.
2. – Non occorre un grande sforzo d’immaginazione per capire che la nostra mansarda era una stamberga: una finestrella che dava sulla strada, il cucinino in un angolo, un tavolino in formica appoggiato al muro di fronte ai tre letti, il bagno fuori sulle scale, una lampadina appesa al soffitto che spesso non si accendeva perché il padrone non pagava la bolletta elettrica…Noi si scherzava su, ma non avremmo invitato nessuno a trascorrere neanche un secondo in un ambiente simile. Un ambiente che, comunque, andava tenuto pulito e ordinato. Poi c’era la spesa da fare, da cucinare, i piatti da lavare; c’era il bucato, le camicie da stirare…Tra di noi si stabilì una sorta di divisione del lavoro, ma i più impegnati erano i due Peppini, mio fratello e mio cugino. I due erano anche quelli motorizzati: il primo aveva un motorino usato, il secondo una vespa (sempre usata). Ma di lì a pochi giorni mio cugino comprò una Simca celeste (anche questa di seconda mano). Lo ricordo bene perché il nostro primo viaggio ebbe per destinazione Lugano dove andammo a vedere «Teorema», l’ultimo film di Pasolini, sequestrato nelle sale italiane. La visione non appassionò molto i miei compagni spettatori, ma io che avevo letto alcune recensioni sui giornali mi sperticavo a spiegare i significati simbolici nascosti.
La domenica si respirava: andavamo a mangiare in una trattoria di via Trento e, tra una forchettata e l’altra, sentivamo Pippo Baudo cantare alla televisione «Il suo nooome è doonnaa Rooosaa». In mansarda avevamo una radiolina mangianastri e ascoltavamo il notiziario: il Sessantotto non era finito. Io non frequentavo più l’Università, ma a Milano, tanto per fare degli esempi, a novembre gli studenti occuparono il Politecnico e l’ex albergo Commercio adibendolo a Casa dello studente e del lavoratore; il 7 dicembre il Movimento Studentesco e Mario Capanna contestarono l’inaugurazione della stagione teatrale alla Scala. Gettarono ortaggi e uova contro le pellicce delle signore.
Con le mie sessantamila lire al mese potevo permettermi l’acquisto dell’Unità e a volte del Corriere della Sera. Quotidiani che finivano per leggere anche mio fratello e i miei cugini. Così nel tempo libero parlavamo. Di politica e di donne. Soprattutto delle seconde. I due Peppini erano “a caccia”. Gerardo si stava preparando al matrimonio. Io ero sposato da un anno e continuavo a vivere una situazione affettiva abbastanza incasinata. Nel mio labirinto continuava a passeggiare il fantasma adolescenziale del “primo amore”, aveva preso stanza il volto di mia moglie e di tanto in tanto bussava alla porta l’amica torinese che castamente rivedevo quando prendevo il treno per andare a fare gli esami. Poi c’era la mia voglia di studio, i miei sogni poetici e filosofici…Il bagno di realtà li modificava, ma non li estingueva.
3.- Un giorno lessi su un palo della luce, battuto a macchina, un avviso di riunione di un Gruppo Operai e Studenti. Potevo tranquillamente passarci sopra. Nella nostra stamberga c’era già un gruppo operai-studenti: eravamo noi. Ma evidentemente la mia curiosità non era del tutto soddisfatta. Così andai a mettere il naso nel sottoscala di un bar dalle parti di Via Kennedy. C’era un bel gruppetto con le orecchie tese e gli occhi rivolti verso un signore barbuto che leggeva e spiegava un libretto: il «Manifesto del Partito Comunista»?…«Salario, prezzo e profitto»?…«Lavoro salariato e capitale»?…Francamente non ricordo bene. Ricordo che non era un Marx redivivo, ma Roberto Cerasoli, un simpatico compagno che, al di fuori di quel contesto, avrei rincontrato nel luglio del 1969 in una colonia di Marina di Pisa come educatore. Lavorammo insieme per un mese e mi raccontò di essere un sostenitore delle teorie di Wilhelm Reich sulla cosiddetta “energia orgonica” e sul legame esistente fra nevrosi autoritaria e repressione sessuale. In quel periodo l’”amore libero” continuava ad essere uno dei temi nell’aria.
Nel Gruppo Operai e Studenti ero nuovo arrivato e, al termine della riunione, fui avvicinato da Ennio Abate che mi domandò chi fossi, da dove venivo, che lavoro facevo e se gli potevo fornire l’indirizzo per eventuali avvisi di prossime riunioni. Veramente le domande non mi furono sparate così di fila e non avevano nessun tono inquisitorio. Comunque, scoprimmo di essere corregionali: lui di Salerno, io di Avellino; di essere studenti lavoratori tutti e due e, quanto all’indirizzo, gli fornii quello di zio Peppe in Piazza Italia.
Non posso dire che la riunione mi riempì di entusiasmo. Tornai nella stamberga e non ci pensai più.
4. – Prima che mi facessi rivedere nel Gruppo Operai e Studenti, Ennio dovette infilare nella buca delle lettere di mio zio in Piazza Italia quattro o cinque striscioline di carta con l’avviso dattiloscritto della convocazione. Lo zio mi passava l’avviso, lo leggevo e pensavo ad altro. Ero, si capisce, riluttante.
Primo perché, come ho detto, noi eravamo un gruppo operai e studenti: mio fratello lavorava all’assistenza tecnica della Candy per aver frequentato dopo l’avviamento altri tre anni di istituto professionale, ma non è che godesse di chissà quali privilegi. Mio cugino Peppino lavorava alle Presse, nel reparto vulcanizzazione e continuava a ripeterci che rappresentava l’anticamera dell’Inferno. Gerardo era addetto al controllo qualità dell’acciaio e anche lui non se la spassava. L’unico che, pur essendo un proletario, non aveva capi e capetti addosso, ero io. La Direttrice, infatti, se ne stava per lo più in Via Manzoni e la capogruppo, una maestra avanti con l’età e con lo sguardo strabico, non incuteva timori di sorta. Insomma, se proprio volevo riflettere sulla condizione operaia e proletaria non c’era bisogno di spostarmi dalla stamberga.
Secondo, perché avevo goduto per un anno del privilegio di studiare a tempo pieno, ma poi, grazie anche al mio entusiasmo contestatario, m’ero ritrovato in braghe di tela e dalla cameretta ben arredata del Filadelfia ero finito in una mansarda (che parola stupenda!) di Via Corridoni, di fronte ad una fabbrica che schiacciando giorno e notte lamiere produceva un fastidioso e continuo rumore per le orecchie dei malcapitati abitanti. Non è che mi disperassi: avevo preso coscienza che se avessi avuto ancora il pre-salario, i miei genitori comunque non potevano sostenermi agli studi e che dovevo lavorare, ma volevo davvero continuare a studiare, davvero volevo laurearmi. «Il Pci ai giovani», la poesia di Pasolini che, mentre ero a Torino, mi aveva ferito, in quei giorni agiva come un tarlo dentro di me. Non è che avesse ragione? Non avevo tempo da perdere dietro “i figli di papà” che volevano incontrare gli operai sui cancelli delle fabbriche per diffondere “il verbo rivoluzionario”…
D’altra parte, altri pensieri si contrapponevano a questi: non avevo forse capito, durante il mio Sessantotto torinese, che “potere agli studenti” era una parola d’ordine illusoria e improbabile?…Era forse capace di modificare realmente i rapporti di produzione sociale?…Quale era la contraddizione principale?…L’autoritarismo sociale non aveva una base nel dispotismo di fabbrica?…La necessità per il Movimento studentesco di uscire all’esterno dell’Università non era già balenata nelle assemblee?… Non l’avevo già letta in volantini ed articoli?… Quindi, prendere contatti con gli operai stava diventando un obiettivo del Movimento e gli operai non potevo ridurli a quelli che avevo in famiglia. Quanto alla storia dei “figli di papà”, Ennio era un lavoratore-studente già accasato con moglie e figli. La sua condizione poteva essere assimilata alla mia.
Con un occhio alla mia situazione materiale ed un altro ai miei apprendimenti teorici e alla mia voglia di conoscere e confrontarmi, vinsi la mia riluttanza e mi feci rivedere nel Gruppo Operai e Studenti. Questa volta la riunione si teneva in uno scantinato di Via Petrarca.
Ci andai anche perché a Bisaccia, insoddisfatto della FGCI, avevo dato vita insieme a Nicola Arminio, un carissimo amico, studente universitario e poeta, all’associazione “Nuova Resistenza”. Qualcosa di nuovo, quindi, secondo me andava costruito. Al paese io e Nicola pensavamo ad un gruppo di taglio più culturale. Qui, invece, il tasto veniva battuto più sul politico-sociale. Sull’onda delle lotte studentesche mi sembrava che stesse prendendo forma una “nuova sinistra”, un’organizzazione capace di rispondere ad un bisogno collettivo più ampio e ricco. Perché non provare?
Conclusione: mi convinsi che era il caso di approfondire la conoscenza. Ciò che, più o meno, capii fu questo: l’idea di promuovere il gruppo era venuta ad Ennio che lavorava alla SIP e studiava Lettere alla Statale. I milanesi che venivano ad assisterci durante le riunioni erano attivisti di Avanguardia Operaia che si andava organizzando in quel periodo. Il Gruppo Operai e Studenti era o voleva essere un embrione di organismo di massa territoriale. La sua finalità era quella di impegnarsi in un’attività di agitazione e propaganda sulle condizioni di lavoro e di salute in fabbrica: turni, orari, salari, ecc.
5. – Nei giorni successivi nella stamberga raccontai del Gruppo, ma l’argomento non riscosse grande attenzione. Avevamo da risolvere problemi più urgenti. Per le vacanze di Natale andai giù al mio paese. Si sposava la sorella di mia moglie e, oltre a partecipare alle nozze, potevamo stare un po’ insieme. Fu anche l’occasione per sondare i miei genitori sulle loro intenzioni future. Cosa voleva fare mio padre? Continuare a coltivare la vigna e le due terre a Vallefiumata o venire con noi a Cologno?…A febbraio del ’69, mio padre compiva 55 anni. Aveva sempre sognato di fare il contadino, ma i due fazzoletti di terra che possedeva non bastavano a mantenere la famiglia. Sempre era stato costretto ad impegnarsi in altri lavori precari o a giornate: con l’Acquedotto pugliese per scavare le condutture dell’acqua nel paese; con la Forestale per il rimboschimento; con l’Anas per la manutenzione delle strade. Durante la mia fanciullezza, per alcuni anni, era stato costretto ad emigrare in Svizzera, a Ginevra. Aveva fatto il vaccaro. Lo stesso mestiere che gli avevo visto fare da bambino per quattro anni (dal 1952 al 1956) a Tavoletta, vicino Cerignola. (Sarà per questa mia infanzia trascorsa in questo luogo che i compagni più giovani, quando facevo i comizi, mi prendevano in giro per il mio accento un po’ pugliese?…).
Mio padre era restio. Non aveva voglia di tornare a fare l’emigrato a 55 anni. Mia madre, invece, spingeva, avrebbe voluto che tutta la famiglia si trasferisse. «Donato e Peppino sono già lì. Che dobbiamo fare noi qui?…». Ci fu il tira e molla. Infine, tornai a Cologno con l’incarico di cercare con mio fratello una nuova sistemazione, un’altra mansarda. Appena l’avremmo trovata, mio padre sarebbe venuto su; mentre mia madre avrebbe aspettato che mia sorella terminasse l’anno scolastico (stava frequentando il primo magistrale a Lacedonia).
Trovammo la nuova mansarda in Via San Martino 32. Papà arrivò in uno dei primi giorni di febbraio del 1969. Andammo ad aspettarlo alla Stazione Centrale e con lo sguardo scontroso e malinconico cominciò la sua nuova vita. Andò a lavorare per alcuni mesi con la Zaniboni a rappezzare le strade, ma siccome il salario non era granché, dopo un po’ fece domanda nella latteria Bonalumi in Viale Lombardia. Aveva lavorato il latte per anni. Fu assunto e qui restò fino all’età della pensione.
I padroni della mansarda erano siciliani come tanti altri a Ginestrino. Ma erano (e sono…la signora, mentre scrivo, è ancora viva) delle bravissime persone. Quando seppero che ci stavamo organizzando per far arrivare a Cologno mia madre e mia sorella, ci proposero in affitto l’appartamento al primo piano della loro villetta. Accettammo e a settembre del 1969 il nucleo familiare era ricostituito.
6.- Ciò che sto scrivendo, potrà sembrare fuori tema; divagazioni autobiografiche che non hanno nulla che vedere con gli anni Settanta a Cologno. Non è così. Parlo di me e della mia famiglia, del nostro arrivo in questa città, per indicare il fenomeno più importante della sua storia: quello dell’emigrazione interna. Del resto, non era di questo che parlavamo nelle mostre e nei tazebao che esponevamo sui cartelloni o sui muri della città?.. Sento ancora l’odore d’inchiostro dei pennarelli, ricordo le foto dei treni e delle famiglie contadine che li assaltavano… Come dimenticare le famose “valigie di cartone”?…Un sintagma, posso dirlo?, che aveva uno schietto sapore di classe. La povertà è dignitosa, ma è sempre povertà. Io ero andato persino a scuola con la cartella di cartone. Negli anni di scuola elementare, intendo. Dalla prima media legavo i libri con una molla.
Penso che chi voglia parlare di Cologno negli anni Settanta dovrebbe tenere sempre sotto gli occhi un grafico con l’andamento della popolazione.
Anno | Abitanti |
1960 | 6.664 |
1963 | 11.902 |
1965 | 15.964 |
1968 | 22.067 |
1970 | 26.256 |
1973 | 33.048 |
1975 | 37.214 |
1978 | 43.057 |
1980 | 47.428 |
1983 | 53.804 |
1985 | 55.949 |
1988 | 55.978 |
1990 | 56.107 |
1993 | 55.167 |
1995 | 54.139 |
1998 | 53.207 |
2000 | 49.221 |
2003 | 48.438 |
2005 | 48.338 |
2008 | 47.555 |
2010 | 47.555 |
2013 | 48.357 |
2015 | 47.974 |
2018 | 47.873 |
Nel 1960 Cologno ha meno abitanti di Bisaccia, il mio paese d’origine, che in quell’anno ne contava circa 7.700. Nel 1970, mentre il mio paese ne perde circa 1.500, Cologno si moltiplicava per quattro: quasi 20.000 abitanti in più. Nel 1980 raddoppia. Ma sono altri 20.000 abitanti in più!…In un ventennio si passa da 6.664 a 47.428. Oltre 40.000 persone si riversano in un un’area di poco più di 8 chilometri quadrati di terra (8,4)…Il mio paese aveva ed ha un’estensione di 101 chilometri quadrati. Questa sì che fu un’invasione, non quella attuale!…Dal 1990 questa città perde popolazione e senza l’arrivo degli stranieri avremmo assistito ad un vero e proprio tracollo.
Comunque, con 40.000 persone in più in 20 anni si può facilmente immaginare quanto ampio fosse in quel periodo il bisogno di case, di scuole, di strade, di servizi. Occupammo il Consiglio comunale per sollevare il problema degli asili nido e della scuola dell’infanzia. Certo, nei primi anni Settanta le uniche scuole materne esistenti erano quelle parrocchiali e di asili nido comunali non ce n’era neanche uno. Per accogliere gli alunni delle famiglie emigrate furono ricavate aule dai corridoi, si utilizzarono appartamenti, oratori…Quando nel febbraio del 1971 da Via San Martino mi trasferisco in Via Rossini, al primo piano c’erano ancora appartamenti adibiti ad aule scolastiche per gli alunni della scuola media.
Occupammo le case perché c’erano ancora persone che abitavano, come avevamo abitato noi in stamberghe, in appartamenti fatiscenti con le bombole a gas e senza ascensori. Proponemmo l’autoriduzione delle bollette perché l’inflazione galoppava ad un ritmo del 17% annuale. Ricordo benissimo i problemi di questo periodo per averli vissuti in prima persona.
Per due anni faccio il maestro di doposcuola, nel 1970-71 sempre in Via Vespucci ho una supplenza annuale su una maternità, nel 1971-72 vengo immesso in ruolo e nominato a Limbiate-Villaggio Giovi. Usando i trasporti pubblici, per essere alle otto a scuola, dovevo partire alle sei del mattino e di pomeriggio prima delle tre e mezza-quattro non riuscivo a tornare a casa…I lavoratori pendolari giustamente chiedevano di considerare ore di lavoro quelle di trasporto. Come si poteva non condividere un tale obiettivo?…
A me andò bene perché l’anno seguente ottenni il trasferimento nella scuola elementare di Via Levi (una traversa di Viale Lombardia). E siccome nel frattempo m’ero unito con Giuseppina (dicembre 1970) e, come ho detto prima, avevo preso in affitto un appartamento in Via Rossini 7, il percorso casa-scuola era una pacchia…Certo, fossi stato costretto a fare il pendolare per decenni, mi sarei adattato (come avevo fatto con la stamberga), ma che sofferenza!, che fatica sarebbe stata!…
A Cologno in quegli anni c’era fame di aule e di nuove scuole: quella dell’infanzia era stata istituita nel marzo del 1968, ma all’epoca non ce n’era neanche una (Michela, la mia prima figlia nel 1975-76 frequentò il primo anno di materna nella scuola parrocchiale di Santa Maria); c’era bisogno di una nuova scuola elementare a tempo pieno (se ne cominciò a parlare con la legge 820 nel 1971); occorreva chiudere le scuole speciali e integrare i bambini disabili…In verità per tutti gli anni Settanta ci furono interventi legislativi: decreti delegati nel 1974, stato giuridico del personale docente e non docente, modifica dei programmi di scuola media…
Studente di Pedagogia e “segnato” dal Sessantotto trasferivo a scuola, nel rapporto coi colleghi e con gli alunni ciò che avevo imparato dalle pagine di «Lettera ad una professoressa». Un aforisma soprattutto: «Il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne tutti insieme è politica. Sortirne da soli è avarizia.» E poi c’era la critica alla “scuola di classe”, ai contenuti dei libri di testo, all’organizzazione del lavoro educativo, ecc. “Fare scuola fuori dalla scuola”. La lotta contro la scuola di classe significava anche lotta contro la “separazione” della scuola dalla società.
[continua]
…ringrazio Donato Salzarulo per il racconto dettagliato e sincero delle sua esperienza di migrante al Nord, nella quale mi sono assolutamente rispecchiata, in quanto migrante, figlia di migranti, madre di migranti…E sotto molti altri aspetti: la difficoltà in quegli anni, dal ’68 in poi, a trovare un alloggio, aggravata, per quanto mi riguarda, dal fatto di essere una donna sola…la realtà dura di studente-lavoratrice… i doposcuola del patronato scolastico a partire dai 18 anni… il pendolarismo durato quasi l’intero percorso lavorativo…A proposito anche l’assurdità di dover percorrere sempre il tratto nella direzione inversa: quando abitavo a Lodi viaggiavo sui treni-fogna per arrivare a Milano per gli studi, quando abitai a Milano viaggiavo sui pullman per raggiungere le sedi scolastiche della bassa padana…A proposito ho sempre vivo il ricordo di me e un bel gruppo di colleghe che alle 6 del mattino ci recavamo sotto al cavalcavia Corvetto per poter prendere un bus Sila che ci portasse con largo anticipo a Sant’Angelo Lodigiano, sede della nostra scuola. Gli autisti scocciatissimi di doverci caricare fuori servizio, guidavano all’impazzata in mezzo a una pianura di nebbie fittissime, tra Lambro, Muzza e Redefossi…Eravamo silenziose e spaventate durante tutto il percorso e, non di rado, ad assistere a spaventosi incidenti stradali…