Sul «Laboratorio di letteratura» di Alberto Casadei si può leggere il testo della sua «Lettera aperta a Walter Siti» sulle idee di letteratura attuali, uscita su “L’età del Ferro”, 3, aprile 2019 (qui) in cui il critico difende il suo Biologia della letteratura, pubblicato dal Saggiatore all’inizio del 2018. Mi pare importante questa sua ricerca che tenta di produrre un «cambiamento rispetto ai paradigmi dominanti negli anni Sessanta-Settanta, con lo strutturalismo e la semiotica a fare da base scientifica e poi tante altre discipline o tanti altri paradigmi gnoseologici a interagire o a eccepire, dalla psicanalisi alla linguistica, dal marxismo all’heideggerismo o al derridaismo in varie salse». E la segnalo pubblicando vari stralci della lettera e la presentazione del Saggiatore. [E. A.]
Stralci
1.
Nel corpo io concentro tutti gli aspetti della biologia in senso lato: nel libro spiego a lungo cosa si può intendere con questo termine, ma per dirla in breve quello che interessa è l’homificatio, cioè come gli esseri umani hanno interagito con il loro ambiente sulla base delle loro prerogative cerebro-corporee. Questa per me è ora la necessaria base di partenza: se non capiamo cosa deriva dalla nostra biologia, non capiamo davvero perché a un certo punto dell’evoluzione (o quello che è) nascono le arti, che all’inizio ovviamente non sono un sistema autonomo di entità estetiche ma un modo di interagire con la realtà esterna, secondo l’uso specialistico di Umwelt.
2.
si registra un notevole cambiamento rispetto ai paradigmi dominanti negli anni Sessanta-Settanta, con lo strutturalismo e la semiotica a fare da base scientifica e poi tante altre discipline o tanti altri paradigmi gnoseologici a interagire o a eccepire, dalla psicanalisi alla linguistica, dal marxismo all’heideggerismo o al derridaismo in varie salse. Io in effetti ritengo chiusa quella stagione ma non perché sia tutto da buttare, visto che è impossibile annullare alcuni perni che servono in qualunque interpretazione critica di opere d’arte (dagli strumenti tecnico-retorici agli esiti più largamente condivisi della tradizione esegetica precedente); mi pare però che soprattutto il presupposto della partizione binaria A vs B, logico-computazionale, sia insufficiente per cogliere gli aspetti più fini di un’opera letteraria, diciamo i suoi qualia, aspetti qualitativi e non quantitativi o astratti (come, per dire, in un quadrato alla Greimas).
3.
Per cercare di capire come natura e cultura possono essere interpretate non in contrapposizione ma in un continuum mi sono affidato a numerosi interpreti: spunti preziosi, tanto per dire, li ho trovati in Jean-Pierre Changeux e Paul Ricoeur, in Edward O. Wilson e George Steiner, in Merleau-Ponty e in Bataille, che già negli anni Cinquanta considerava i disegni di Lascaux come il vero inizio dell’arte: e io ho cercato di precisare e motivare meglio quella intuizione
4.
A mio avviso esistono capacità cerebro-corporee rielaborate sia nell’azione dell’artista sia nella reazione del fruitore: dalla dimensione ‘attenzionale’ alla ritmicità sino alla metaforicità o al blending [2]– che, scusa la pignoleria, non è esattamente un ridire le solite cose con un altro termine, dato che sulla genesi delle metafore si concentra ormai una vastissima e innovativa bibliografia che sinora trova nel blending , frullareun modello esplicativo importante, benché anch’esso in fase di revisione. I sempre citati neuroni-specchio garantiscono, per esempio, che vedere un’azione in teatro o farla non è poi così diverso, e su questo possono giocare, in genere inconsciamente, gli artisti per stilizzare (ossia orientare e finalizzare) tutte queste propensioni per dare evidenza a una specifica situazione. In questa prospettiva, che ci siano elementi attrattori non è affatto la conseguenza di singoli modelli o di determinate poetiche, ma è quasi un risultato inevitabile per come sono fatte le persone umane, ed è quindi normale che di un’opera o di un film ecc. a distanza di tempo ci si ricordi magari pochi snodi (o magari un buon numero e variabili, nel caso delle grandi opere), decisivi per un singolo fruitore oppure per un’intera comunità.
5.
La totalità del testo allora non è più un assioma da venerare? Chi decide cos’è rilevante e cosa no? Dobbiamo tornare a discernere poesia e non poesia, o al limite a procedere per clic spitzeriani? Per certi aspetti credo che sia quello che implicitamente si fa sempre se vogliamo non limitarci a descrivere un testo bensì proporre un’interpretazione che abbia qualche fondamento non meramente razionalistico. Francamente sono un po’ stufo dei critici atmosferici che, per esempio, s’impancano a dire di tutto su Dante senza capire nemmeno la necessità stilistica della terzina, così come dei sedicenti critici che hanno come massimo obiettivo il loro ego che trova la novità a tutti i costi, fregandosene di ogni verosimiglianza. Molto meglio chi parte da una base certa, filologica, storica ma anche antropologica, mirando a riconoscere un nucleo di senso rilevante, e poi, su quel fondamento, provi a comprendere meglio come nasce l’idea di un’opera: non è che si debba per forza ritrovare l’etimo profondo dell’autore, come magari sognavano i primi critici psicanalitici, ma è necessario porsi in una dimensione autenticamente di critica genetica.
A me pare che gli strumenti che cominciamo a maneggiare consentano interpretazioni più piene anche partendo solo da dettagli, impedendo sia l’asetticità del notomista, sia la stravaganza del libero lettore
6.
Ci sono dei vincoli per interpretare persino i testi oscuri, e su questo ho scritto molto, là dove ho cercato di definire quali significati e quali sensi può veicolare un’opera d’arte. Qui un’altra differenza rispetto a te la colgo. Io non credo che un’opera debba essere trasgressiva o consolatoria, sperimentale o classica: sono caratteristiche possibili per un testo, a me vanno bene tutte. Poi, non ho nessuna velleità di dire che un’opera letteraria esprime più profondamente di altre forme culturali i fondamenti della storia: se così fosse, un capolavoro lo sarebbe sempre e comunque, tutti dovrebbero sempre riconoscerlo e invece basta guardare l’alterna fortuna di Dante e Petrarca, Shakespeare e Racine, Mann e Joyce per capire che non funziona così.
7.
Nel Novecento, tanto per dire, siamo stati molto affezionati all’inconscio, ai traumi, all’individuo sempre più narcisista, e insieme, quasi come equivalente stilistico-strutturale, alle opere aperte-scomponibili. Benissimo, d’accordo, per molti anni sono andati bene alcuni specifici tipi di forme simboliche all’interno del campo artistico-letterario; ma a distanza di tempo, uno scrittore come Proust, tutto sommato lontano dal modernismo più puro, ci sembra più essenziale di altri, come mai? E non è che Racine, al di là dei ritorni del represso che vogliamo individuare nelle sue opere, sia meno grande di Shakespeare da molti punti di vista: credo che si possa capire meglio il perché se ci poniamo in un’ottica di ‘stilizzazione’ dei gesti scenici con la loro carica emotiva, ben indagabile con i nuovi strumenti.
8.
sono disposto a trovare vari gradi di pieno realismo in Omero come in Dante come in Celan: si tratta di intendersi su cosa vogliamo mettere in rilievo senza presupporre che ci sia un realismo più realistico degli altri, come al di là di ogni tentativo di giustificazione di fatto si riscontra in Mimesis. Ora, le tue belle definizioni del realismo come anti-abitudine, leggero strappo, particolare inaspettato per cogliere impreparata la realtà, e insomma come forma di innamoramento (cito dal tuo Il realismo è l’impossibile, Nottetempo 2013, p. 8) mi sembra che siano tutte tarate su un preconcetto inespresso: “io scrivo perché so che, attraverso una mia opera, posso riuscire a dare atto di mie intuizioni, percezioni, condizioni psicologiche profonde, traumi, e questo mi fa uscire dalla realtà così com’è di solito e mi fa rappresentare la sua verità occultata, al limite ‘impossibile’ a vedersi in altro modo”.
9.
la sola parola scritta e in particolare stampata ha decretato un certo sviluppo della letteratura, soprattutto attraverso le forme idonee alla sua elaborazione più complessa (romanzi a intreccio finalizzato, poesie divise in parti simmetriche, ecc.), ma essa non possedeva queste stesse forme prima (l’oralità ha princìpi e finalità in buona parte diversi) e non le ha più o non le avrà breve in posizione dominante. Infatti, quando molte informazioni veicolabili con sforzo e fatica attraverso le parole lo saranno facilmente con i racconti per immagini di Instagram, le forme ibride web-serie visionabile-libro,ora in espansione ma minoritarie, diventeranno la norma, almeno sino a quando il libro scritto risulterà non necessario.
10.
Ovviamente io non sostengo che le recenti ibridazioni, compresi per esempio i sempre più apprezzati graphic novel, siano espressioni culturali più complete, ma nemmeno che attraverso la scrittura riusciamo a dire tutto quello che, antropologicamente, ci interessa e riguarda. A mio avviso possiamo sperimentare molto attraverso la scrittura, soprattutto quando si gioca con il blending più ardito, tuttavia l’insieme della nostra corporeità culturalizzata si trova bene pure con le immagini stratificate e nello stesso immediatamente fruibili (come quelle di Banksy), la musica non dissonante per scelta intellettuale (com’era quella post-weberniana, implosa come già ha indicato Kundera), i testi ri-comunicabili e commentabili sui social, i vari memi ossia i geni della trasmissione culturale (se davvero esistono…), e così via. Si tratta allora di trovare ciò che davvero ci colpisce perché va a creare nuove sinapsi, ad allargare il campo della nostra filosofia oltre il cielo e la terra, e può nascondersi nei dettagli ma i dettagli non è detto che siano sempre gli stessi: un’idea di arte deve ormai essere disponibile a ricollegare sempre il tutto e il niente per ottenere qualcosa, come in una nube (rimando alle acute osservazioni di John Durham Peters sul Cloud come mezzo di comunicazione).
11.
Penso insomma che la letteratura, o l’arte in genere, esplori enormi territori della nostra biologia, anche quelli del positivo e della grazia e dell’armonia. Il non poterci credere fa parte della nostra condizione sociale e politica, e forse su questo punto bisogna combattere. Personalmente vorrei tanto che si tornasse a parlare di cosa vorremmo in un Altro Mondo quaggiù e voi, con questa rivista, penso che siate sulla stessa lunghezza d’onda. Nel campo di forze letterario, m’impegno e diffondo, per esempio negli incontri per le scuole o nelle conferenze non specialistiche, i nuclei di senso stilisticamente marcati che trovo in Dante come in Fenoglio o in Siti ma anche nei Nirvana o in Anselm Kiefer che ri-materializza Pollock (il pittore più immediatamente ‘neurologico’ di tutti i tempi) o in Tommy Vext che ri-crea Zombie, e continuerò a farlo per quanto posso.
12.
Perché io credo che una ‘letteratura’ continuerà ad esistere, così come le altre arti, sempre più unite non a valle, come sinora era necessario fare (testi con musica, con immagini o foto aggiunte…), bensì a monte, appunto a livello di inventio: lo scrittore sarà anche selezionatore delle sue immagini, dei suoi suoni, della sua grafica, e quindi, se vogliamo, anche artista, musicista, webdesigner ecc. La parabola che ho cercato di delineare nel mio libro va in questa direzione, e io lo segnalo per una speranza di effettivo rinnovamento: perché anche a me, credilo, questo presente non piace affatto. Solo che non penso più che la salvezza verrà da un Grande Romanzo, da un singolo autore, dalla scoperta di un dettaglio che gli altri non hanno colto e così via, secondo i vari mantra che si sono alternati durante il Novecento (magari anche solo per essere negati). Le sfumature sono fondamentali, lo riconosco, e infatti trovo giustissimo l’assioma di DeLillo “Capital burns off the nuance in a culture”[In una cultura il capitale brucia le sfumature]. Ma per recuperarle come valore collettivo bisogna concepire le (nuove) arti come un sistema di interpretazione integrata della realtà, non come manifestazione del disagio dei singoli, pur con tutto il rispetto verso il dolore personale.
13.
Se non ci sforziamo di allargare lo sguardo, di passare dalla biologia alla storia ma anche viceversa, non arriveremo a comprendere il mondo in cui ogni male è il male di tutti. E già adesso uno scrittore può pensare il suo romanzo o come ennesima estensione dell’individualismo analizzando il mondo globale come aggregato di monadi, o invece come coraggioso tentativo di capire quel mondo come insieme di dati e di qualia, ipotizzando su basi biologico-cognitive e filosofiche qual è la cifra reale di un mondo-Cloud, e semmai cercando di agire per creare nuovi ‘addensamenti’ che siano artistici ma che nello stesso tempo possano indicare qualcosa di significativo anche a livello politico. Perché solo riuscendo a interpretare appieno la complessità delle interazioni attuali, in una forma artistica inevitabilmente integrata, si possono trovare stimoli per inventarsi nuove fantasie al potere: per superare sia la dialettica hegelo-marxista ormai impraticabile, sia l’attuale vittoria dei neofascismi a base capitalistica, desolatamente monocromatici.
Presentazione del libro sul sito de “Il Saggiatore”
Se è vero, come ha scritto Shakespeare, che siamo fatti della stessa materia dei sogni, è la materia dei sogni a dover essere indagata. Se, come sosteneva Cézanne, «il colore è il luogo dove si incontrano il nostro cervello e l’universo», va indagato il modo in cui il nostro cervello percepisce lo stimolo dei sensi e lo rielabora in forme, miti e metafore. Va indagata la biologia delle arti e della letteratura. Solo un’ottica che superi la divisione tra natura e cultura può dare conto dei processi che hanno condotto l’essere umano a costruzioni simboliche sempre più complesse, per rispondere a esigenze di sopravvivenza, di ritualità magica e religiosa o per imporre un ordine al cosmo, ritagliando nuclei di senso dal caos del molteplice. Guidato da questi stimoli e dalle più recenti scoperte della biologia, delle neuroscienze e dell’antropologia, Alberto Casadei individua nello stile il punto in cui avviene la mediazione decisiva fra natura e cultura: è grazie all’elaborazione stilistica che le propensioni biologiche elementari, legate alla percezione del ritmo, dell’analogia e della metafora, vengono utilizzate per dare vita ai mondi possibili della letteratura e dell’arte. Biologia della letteratura unisce questa prospettiva inedita a una rigorosa analisi critica, mostrando una storia letteraria ancora più ricca, in cui lo stile diviene l’elemento capace di condensare processi emotivi e cognitivi: un filo che lega la sorprendente stratificazione mitologica dell’epica di Gilgameš all’oscurità del Simbolismo, l’estasi del sublime alla rottura dei linguaggi retorici operata nel primo Novecento, fino alla svolta imposta dalle nuove tecnologie, dal Web e ancor di più dal Cloud. Oggi, come un Ulisse che, sprofondata ormai la nave, continua il proprio viaggio di conoscenza negli abissi marini, l’uomo si ritrova immerso in una realtà in cui lo stimolo percettivo è ubiquitario e ogni separazione tradizionale tra i linguaggi è caduta. La risposta, ancora una volta, è nell’adattamento e nell’elaborazione di uno stile sempre più ibrido e complesso.