da SAMIZDAT COLOGNOM foglio semiclandestino per l’esodo Numero 3 aprile-settembre 2001 |
di Ennio Abate
Genova 18 anni dopo. Ripubblico quanto scrissi – isolato allora come oggi – su una rivistina fotocopiata che distribuivo a mano agli amici. I problemi qui accennati sono gli stessi che ho appena ridiscusso in questi giorni qui e qui. [E. A.]
1.
Cosa sentivo e pensavo prima dei fatti di Genova?
Prima: ero curioso e attento alla galassia “antiglobalizzazione”, ma ne sono rimasto distante per varie ragioni. Non condivido la sua enfasi ottimistica sui diritti umani. Ero scettico verso la scelta del “dialogo alla pari” continuamente cercato con i rappresentanti del governo. Mi sento estraneo alla sua ideologia: un pacifismo così assolutizzato, profondamente dominato dall’impostazione della Chiesa cattolica – un nuovo Super-ego “non-militante”, molto oratoriale (Rete Lilliput) o neopopulista (la rivista Carta), ben espresso nelle sbrigative tesi di Marco Revelli nel suo Oltre il Novecento.
Riconosco però che, a causa del tracollo o dell’insufficienza di qualsiasi reale opposizione anticapitalista – questa “galassia” è l’unico reale contenitore in cui si raccolgono e potrebbero crescere le potenziali spinte contro la mondializzazione imperiale: le nuove e le residuali, le moderate e le antisistemiche, le buoniste e le violente, le utopiche e le scientifiche.
2.
Perciò, se fossi andato a Genova (per ragioni proprio contingenti non ho potuto), sarei stato senz’altro nel cosiddetto “corteo pacifico”. È l’unica possibilità oggi disponibile alla moltitudine attiva, con la quale m’identifico, di manifestare. (E anche per ragioni fisiche e di età: il mio corpo non si può più permettere né sprint da velocista né audacie giovanili; ma – preciso – far valere le ragioni “biopolitiche” di corpi stanchi, anziani o sofferenti non significa negare o subordinare ad esse quelle dei corpi giovani.)
3.
Dopo: forte coinvolgimento emotivo per la sorte di tante persone – anziani e giovani – brutalizzate da quella che per me resta nella sostanza – al di là di ogni verniciatura – “plebaglia in divisa” al servizio dei potenti di turno, rispetto per il coraggio degli organizzatori delle manifestazioni (Gsf, Tute Bianche, Rifondazione, Verdi, ecc.); ma delusione crescente per i modi in cui ora si va leggendo il significato di quelle giornate e il “dopo Genova”.
4.
Molte dichiarazioni1 mi sono parse la brutta copia di quelle del vecchio PCI durante gli anni ’70. Prevaleva in esse la preoccupazione di non farsi assimilare al cosiddetto Black bloc e quasi la “sorpresa” per il fatto che polizia e carabinieri avessero caricato il corteo pacifico invece di fermare le “minoranze violente del Black bloc”.
Tutto il gran parlare di Black bloc da una parte e di “legittima difesa” dei carabinieri dall’altra (ed ora dopo la bomba di Venezia e quella alla sede della Lega si riparla di Br, di terrorismo, di “unità nazionale o bipartizan”…) è – per chi quegli anni ’70 ricorda – musica per accompagnare subito al cimitero un neonato movimento che – da sinistra – appare troppo gracile e – da destra – troppo robusto e minaccioso.
Sinistra e Destra usano – in modi quasi complementari – gli strumenti della correzione ideologica e della repressione pratica della realtà per adeguarla ai loro immodificati schemi di pensiero.
5.
Mi chiedo cioè fino a che punto si è davvero capito che il salto da una situazione di formale persistenza di uno Stato di diritto praticamente usurato2 ad una situazione di esperimento in atto di un nuovo ordine mondiale3sia già avvenuto e se se ne siano tratte le debite conseguenze politiche.
Credo che si sia capito anche a sinistra. Anzi che non si possa non aver capito come i Potenti del mondo abbiano voluto esibire tutto il loro potere militare, colpire nel mucchio, in modo premeditato e preventivamente, sul nascere, un movimento ancora in fasce, non periferico ma interno al mondo metropolitano e idealmente (diciamo pure: idealisticamente) proiettato anche verso i dannati della terra delle periferie. Ma che, mancando una strategia e forme di lotta nuove, si ripetano le vecchie giaculatorie “antifasciste”. Come se la dimensione imperiale dei problemi d’oggi non avesse oltrepassato le forme di dominio fascista e nazista del ‘900.
6.
Domanda: la moltitudine dispone solo delle forme di lotta del passato “democratico”? Anche se stanno diventando sempre più simboliche (mentre i padroni del mondo hanno accresciuto i loro strumenti materiali, immateriali, militari, tecnologici, simbolici), non restano che quelle? Ed ogni pretesa di trovarne e usarne altre non dichiaratamente pacifiste “rompe le scatole”, non rientra neppure nella “tradizione anarchica”, è solo “l’altra faccia dell’omologazione totale” e senza progetto4?
7.
Miope mi pare continuare a vedere i fatti di Genova come prodotto prevalente di una bizzaria soprattutto “italiana”, che fa “sfigurare l’Italia” e che potrebbe ancora essere corretta nel gioco dialettico fra una destra e sinistra italiane, fra “fascisti” e “democratici” (o antifascisti).
Come se solo la nostra polizia picchiasse o uccidesse5. E a Götemborg? E a Praga? E a Seattle?
Vorrà pur dire qualcosa che finora nessuna delle manifestazioni mondializzanti è stata “senza incidenti”.
E, perciò, prendersela – da sinistra – con il Black bloc, accontentarsi di definirli “avversari” (implicitamente delegando alla polizia la repressione di questo elemento di “disturbo”, invece di interrogarsi sull’insufficienza della attuale strategia “antiglobalizzazione” (compreso il suo pacifismo assoluto), è una brutta scorciatoia6.
Queste non sono “giornate e nottate tambroniane“, come pensa Pintor, ma, come mi pare sostenere con più acume Agamben7, giornate di sperimentazione del nuovo ordine mondiale.
Meglio non adagiarsi più in analogie “familiari”, “nostrane”.
E proviamoci, perciò, anche a chiedere che cosa sarebbe successo se a fine luglio il governo fosse rimasto ancora in mano a D’Alema o ad Amato, se è vero (e né Fassino né nessun dirigente DS ha smentito) che il piano per la “fortificazione” di Genova era quello e Berlusconi l’ha ereditato senza cambiarlo nella sostanza.zona ro
Carabinieri e polizia avrebbero permesso una piccola e controllatissima incursione simbolica nella “zona rossa”? Se la sarebbero presa solo con il famigerato e inconoscibile Black bloc o lo avrebbero fermato alle frontiere e tollerato le manifestazioni pacifiste, come sarebbe piaciuto a Bertinotti?
Davvero di queste “lenticchie” ci si deve accontentare8?
E se davvero – come Pintor non crede – “il malessere sociale e la contestazione del pensiero unico e sovrano hanno questa dimensione nel mondo globalizzato e in un paese come il nostro”9 malgrado la sinistra e l’opposizione politica siano deboli come mai in passato?
8.
Non mi va l’estetizzazione degli “uomini neri”,10 ma la polemica da sinistra contro i Black bloc mi va proprio di traverso e mi pare ipocrita: non solo ripete la stantia e pessima problematica dei nostri anni ’70 fra movimento sano e innocente-“fascisti” mascherati da compagni o “compagni che sbagliano”, ma rende tutti più miopi.
Non ci sarà mai un movimento “innocente”.
Lasciamo pure da parte discorsi che subito verrebbero tacciati di “sociologismo” (quelli accennati da quanti vorrebbero almeno chiedersi cosa sono veramente i disoccupati, i precari, gli emarginati delle metropoli europee) e chiediamoci con coraggio cosa può significare la presenza sintomatica dei Black bloc nelle lotte d’oggi.
È un “sottoproletariato” della moltitudine da tenere a bada o una sezione della moltitudine, che la strategia “antiglobalizzante” pacifista non contempla e teme di guardare in faccia?
Le testimonianze offerte dalle pagine del manifesto sono (almeno finora) parziali e esterne. Manifestanti “buoni” dichiarano di aver incontrato tipi “strani” lasciati indisturbati dalla polizia. Nessuno ne sa di più o non si vuole sapere di più.
Il problema della violenza possibile11 – compressa e tenuta sotto controllo in qualsiasi movimento sociale, e che può sempre contaminarsi con forme di violenza meno controllate o addirittura “gratuite” – è il vero dilemma rimosso per gli organizzatori del GSF ma anche per le Tute bianche e resta un incubo mal compreso da qualsiasi semplice manifestante.
Le infiltrazioni di provocatori, di spioni, più o meno coperti dalla polizia, sono una forma “normale” di controllo da parte di chi ha più potere. Oggi esse sono perfezionate dai mezzi tecnologici con cui le forze poliziesche “imperiali” lavorano professionalmente. Ma basta soltanto il pacifismo per neutralizzare nuove trappole? Cresceranno a dismisura i cortei fino alla resa dei potenti, se miracolosamente non ci fossero più Black bloc?12
9.
Quali possibilità si avevano prima di Genova?
a) scendere in piazza come moltitudine, cioè con quell’organizzazione a rete o “disorganizzazione relativa” (che è oggi quasi obbligata, quasi “naturale” e non è facilmente sostituibile da altre forme più gerarchiche o strutturate); con quell’ideologia che è un mix di pacifismo e aggressività responsabilmente contenuta; con quella coscienza approssimativa della inconciliabilità degli obiettivi maturati dalla moltitudine rispetto a quelli dei potenti13, un po’ come gli studenti cinesi di piazza Tien An Men. Questa è stata di fatto la scelta prevalente. E i dirigenti del GSF se ne sono fatti portavoce, magari con troppa fiducia nella possibilità di trattare col governo o con qualche residua “colomba” del governo o degli apparati militari (polizia, carabinieri). Questa posizione coglie un dato di fatto importante: la moltitudine oggi non può manifestare il suo dissenso che in questo modo. È una sorta di “preghiera in pubblico” inoffensiva/offensiva, fatta nella condizione di profeta disarmato. Non può mai più mutarsi improvvisamente, tutta o in blocchi consistenti, in popolo in armi. Nel suo caso, ogni forma di leninismo è impraticabile e sempre meno condivisibile. Ma i suoi pori potranno più o meno aprirsi o sopportare forme di vicinanza o di tolleranza o di appoggio a comportamenti più “guerriglieri”, più “partigiani”, però sui generis, da inventare?
b) agire, malgrado lo strapotere militare dell’avversario, come “minoranze” e “in forma di guerriglia”, mordendo e fuggendo dal nemico provocato, colpito ed esasperato e “strumentalizzando” (le virgolette sono importanti…) la presenza in piazza della moltitudine, sapendo di esporsi e di esporla alla risposta violenta e indiscriminata di polizia e carabinieri. Questa può essere tattica adottabile sia da provocatori protetti dalla polizia, sia da frange che, esprimendo nel gesto più immediato la persistente e indomabile – anche se impoverita e sempre più simbolica – violenza che c’è anche “in basso”, potranno sia “impazzire” sia rientrare in una strategia politica di grande respiro. Se ci fosse!
E’ scandaloso lo so, ma ricordo che Mao durante la sua Lunga Marcia arruolò molti banditi e delinquenti, mentre oggi il problema del rapporto fra antiglobalizzatori “buoni” e antiglobalizzatori “cattivi” è tabù e non ci si vuole sporcare le mani!
c) non scendere in piazza a Genova, starsene a casa, fare atti di dissenso completamente simbolici (ad es. il digiuno dei rappresenti di vari gruppi religiosi nella Chiesa di Boccadasside), tollerati in partenza dal governo, perché inefficaci sul piano pratico che è l’unico che davvero lo preoccupa.
“Scendere in piazza” – mi pare – resta oggi l’unica forma-base per sperimentare anche noi nuove forme di lotta sempre più ricche e meno simboliche contro il perfezionamento della Nuova Trappola schiaccia-sudditi. Tutti gli appelli a far anche e soprattutto “altro”, a consolidare il movimento nella quotidianità, ecc., risulterebbero sospetti se si sorvola sulla questione dell’urto inevitabile con i dominatori.
26 ag. 2001
NOTE
1 Ad es. quelle di Bertinotti quando replicava a Fini in TV subito dopo l’uccisione di Carlo Giuliani, ma anche quelle di Agnoletto, della Rossanda e di altri redattori de il manifesto.
2 Cfr. la documentata diagnosi di Giovanni Palombarini, Le spoglie del diritto violato, il manifesto 5 ag. 2001.
3 Pare che ci si comincia ad avvedere anche in Italia che l’analisi condotta da Negri e Hardt in Empire non è tutta delirio. (Cfr. Ida Dominijanni, Editoria, i sudditi dell’Impero, manif. 1 lug. 2001) .
4 Cfr. Rossanda in il manifesto 22 luglio 2001.
5 In proposito sono sorpreso da chi si sorprende. D’Eramo, ad esempio, ha scritto:“Ecco, dopo 24 anni ci eravamo dimenticati della violenza di stato e delle brutalità poliziesche. Quasi quasi, prima di vederli in tenuta antisommossa, li avevamo perfino presi per una specie di servizio sociale.”. (manifesto 24 luglio 2001) Tuttavia d’Eramo ha anche scritto, nello stesso articolo: “Oggi il Fassino di turno o il Bertinotti telegenico cadono dalle nuvole davanti alla violenza nella storia: all’improvviso ognuno si scopre dentro di sé un gandhismo per lo meno sospetto.”. E’ schizofrenia culturale? O è ancora il lascito non smaltito e mai rielaborato del vecchio PCI, per cui varrebbe la pena di rileggere subito quanto F. Fortini scrisse a suo tempo in Quindici anni da ripensare, in Insistenze, Garzanti 1985
6 E’ con amarezza che vado cogliendo qua e là reazioni che mi paiono dovute a stordimento.
Se è vero che “nessuna vetrina spaccata o banca rifatta dall’assicurazione contro i danneggiamenti, scalfisce il G8” (Casarini su il manif 8 ag. 2001), come si fa a gioire tanto per aver “ottenuto” che il prossimo G8 si faccia ai piedi delle Montagne Rocciose? E – dopo la morte di un ragazzo, il massacro di tanti manifestanti inermi, la feroce nottata di vendetta poliziesca fra il 21 e il 22 luglio nelle scuole Diaz e Pertini, le sevizie degli arrestati nelle caserme – come si fa a dire che “il movimento ha vinto, perché trecentomila persone hanno attraversato, nonostante tutto, una città trasformata in Santiago del Cile” (Carta 26 luglio 1 agosto, Anno III, N.5)?
7 Cfr. Agamben, GENOVA E IL NUOVO ORDINE MONDIALE, manif. 25 lug.2001
8 Come ci si accontentò di manifestare per la guerra del Kosovo con risultati nulli?
9 Cfr. manif. 25 lug. 2001
10 Ne ho letto una di Lanfranco Caminiti all’url: htpp://www.listbot.com/links/joinlb. Quella violenza è soggettivamente spiegabile e persino condivisibile nelle sue radici sociali, ma al momento è impotente quanto il pacifismo assolutizzato del Genova Social Forum. Non possiamo ammirare questi “nostri talebani” solo perché “minano i nostri Buddha” (Quali poi? E li “minano” davvero?).
11 Sollevato finalmente in termini onesti e realistici da Marco Bascetta su il manifesto del 12 ag. 2001.
12 Se tutti quelli che a Genova hanno buttato un sasso, eretto delle barricate, colpito certi simboli più o meno ben individuati del potere (banche, automobili, negozi, ecc.) fossero tutti infiltrati della polizia o dei carabinieri, e quindi soltanto una variante dell’apparato repressivo, la polemica antica contro i “provocatori” avrebbe almeno un po’ di senso. Se no, è miopia, incapacità di vedere un aspetto reale dell’ ambiguità “militante” (quello che Paolo del Gabrio di Torino coglie quando dice che il movimento – al di là delle dichiarazioni – non è né violento né non violento. Cfr. il manif. 24 luglio 2001)
13 Diceva Paolo del Gabrio di Torino: “Le risposte possono essere solo due: o si torna in piazza, oppure si sta a casa, e quest’ultima possibilità praticamente non esiste. La gente vuole esserci rispondendo a quello che è accaduto…Il problema è che la responsabilità di quello che è successo a Genova è al 90% dovuto al comportamento della polizia….di contro va detto che questo non è né un movimento violento né un movimento non violento. Scagliandosi contro il potere centrale si imbatte in contraddizioni stridenti, anche solo sul piano simbolico: le banche, le multinazionali. Contraddizioni che ti portano intrinsecamente allo scontro, perché sai che il tuo contenuto non sarà fatto mai proprio da Bush, da Berlusconi e dagli altri padroni del mondo (manif 24 lug. 2001, pag 5.).