di Franco Tagliafierro
Questo è un altro capitolo del romanzo di formazione inedito, a cui sta lavorando Franco Tagliafierro. Il primo è stato pubblicato qui [E. A.]
Arrivare a Trieste, prendere una camera in un albergo economico nei pressi della stazione, lasciare la valigia sulla panchetta apposita, darsi una rinfrescata, cambiarsi o non cambiarsi la camicia, meglio cambiarsela, scendere in strada, eccolo là un telefono pubblico, estrarre dal portafoglio il frammento di cartolina ripescato dal fondo di un cassetto, c’è scritto un numero e a fianco un nome, il numero potrebbe essere ancora lo stesso oppure no, pronto, la voce è la sua, bene, tutto più semplice, sono Orlando, tre anni fa, a Milano Marittima, la voce risponde all’istante, ma solo con esclamazioni generiche, il ricordo di lui non può non aver generato anche esclamazioni specifiche, che però rimangono mute, come di chi esita, lui dice sono a Trieste, la voce di lei si amplifica, si colora di allegria, dice questa sì che è una sorpresa, l’allegria autorizza lui a dire allora possiamo vederci, certo, anche subito, a metà strada, in piazza Unità d’Italia, vai sempre dritto per Riva 3 Novembre, fra mezzora nel Caffè degli Specchi, sarà bello incontrarci là.
Arrivare in una città sconosciuta e avere come meta, dopo pochi riempitivi di tempo, l’incontro con una persona tenuta in vita dalla nostalgia, è un piacere di cui bisogna rendere grazie perlomeno al Demiurgo di Platone, altrimenti di queste botte di culo (gergo giovanile), di questi terni al lotto, superstiziosamente parlando, non ce ne toccheranno più. Era la prima volta che affrontava da solo un viaggio lungo, tanto lungo da consentirgli, fra qualche giorno, di aggirarsi per la Vienna nella quale si era aggirato Il terzo uomo, anche se ormai non era più quella del ’46, quella in cui sarebbe stato infinitamente più interessante aggirarsi, ora in uno, ora in un altro dei quattro settori in cui era stata divisa per dare modo ai soldati delle potenze vincitrici di spassarsela nei caffè concerto adibiti a bordelli o di fare soldi con il contrabbando. Per un certo numero di giorni avrebbe goduto della più completa autonomia compatibilmente con la somma ricevuta dal padre e di straforo rimpinguata dalla madre. Avrebbe deciso lui quali città visitare oltre Vienna, in quali alberghi o in quali pensioni famigliari dormire, quali opere d’arte vedere fra quelle reclamizzate dalla guida del Touring Club. Altre volte aveva avuto la possibilità di recarsi da solo in città sconosciute, di visitarle a suo capriccio, ma sempre aveva dovuto tornare a casa in giornata: non erano mai città molto lontane da Roma o dal luogo in cui nei periodi di vacanza risiedeva la famiglia. Il suo turismo solitario, cominciato quando aveva sedici anni, era stato una concessione paterna di cui poteva vantarsi con i compagni di classe confrontandola con la ristrettezza di aperture dei loro genitori. Quando gli domandavano se suo padre fosse stato fascista, rispondeva così: «No, gli sarebbe piaciuto, ma non ci riuscì». Certe domande si potevano fare solo se si era diventati così amici da poter parlare delle cose di famiglia, altrimenti erano tabù, a meno che uno non fosse già inquadrato fra le giovani leve del Movimento Sociale. «Come non ci riuscì?» «Non ci riuscì perché era nato con una gamba più corta dell’altra e perciò non gli permisero di fare la ginnastica necessaria per essere promosso da figlio della lupa a balilla, da balilla a balilla moschettiere, da balilla moschettiere ad avanguardista, da avanguardista a soldato da mandare in guerra, e così non poté diventare fascista.» Questo padre, che aveva vissuto prevalentemente da sedentario, avrebbe voluto che suo figlio sgambettasse di più, che facesse più sport, invece lui si manteneva nei limiti della educazione fisica scolastica, ormai molto impoverita dato che non doveva più fornire materiale per le sfilate e i saggi ginnici di cui si gloriava il passato regime. Lui non era contrario ai lunghi giri solitari, né alle gite di gruppo con arrampicata alle vette non eccelse delle colline intorno a Roma, né allo sgranchimento delle gambe dopo lo studio, per cui aveva ottenuto anche il permesso di uscire dopo cena e tornare a mezzanotte circa, segno che lo si riteneva capace di non prendere una brutta piega e di astenersi dalle cattive compagnie. Per la maggior parte dei suoi compagni la libera uscita dopo cena era uno dei detonatori del conflitto generazionale fra padri e figli. Se padre e madre si fossero opposti alle sue escursioni turistiche o notturne, si sarebbe sentito perseguitato tutti i giorni, anziché a intermittenza, dalle frustrazioni, dalle costrizioni, dalle ossessioni, dalle smanie sessuali e dalle indicibili infelicità masochistiche della adolescenza. Ogni volta partiva con la speranza, o con la fantasticheria sempliciotta, di chissà quale impresa cavalleresca, di chissà quale avventura boccaccesca, e invariabilmente tornava a casa con la scatola cranica piena di zero imprese, zero avventure, e del compiacimento saputello per aver potuto conoscere di persona architetture, sculture e pitture viste nei libri. I compagni dicevano che era fissato con la storia dell’arte, e che per questo non era fissato con nessun cantante. Infatti snobbava persino due simpaticoni come Fred Buscaglione e Renato Carosone, e non si lasciava travolgere dal rock and roll che iniettava estasi di onnipotenza nel sistema nervoso dei suoi coetanei. I cantanti, però, li ascoltava per radio e per televisione quando era impossibile non ascoltarli, e il rock and roll lo ballava quando le compagne lo invitavano a qualche festicciola in cui lo si poteva alternare agli slow dedicati allo strofinio dei plessi solari. Insomma, pensò che la sua camminata per Riva 3 Novembre, avendo come meta fisica il Caffè degli Specchi e come prospettiva psichica un incontro senz’altro piacevole, poteva godersela come una vicenda adulta, in quanto si sentiva, ed era, totalmente autonomo e non doveva rispondere ad altri che a sé stesso della maniera in cui gestiva il proprio destino. Procedeva spedito e intanto decretava che da quel momento l’adolescenza doveva ritenersi archiviata, o meglio, inumata e con una grossa pietra sopra, e inaugurava la propria condizione di neoadulto così orgogliosamente che a intervalli gli si stampava sulla faccia un sorriso infantile. Se qualcuno, senza la minima volontà di deriderlo, gli avesse fatto notare che la infantilità del sorriso vanificava la sua presunta adultità, lui avrebbe ammesso che sì, purtroppo c’era del vero in questa osservazione, perché un ragazzo di diciotto anni non aveva diritto di sentirsi adulto, se non era mai andato a letto con una donna.
– Non ho mai smesso di aspettarti! – Davvero? – No, scherzavo. Diciamo che qualche volta ho pensato che saresti riapparso. Ti immaginavo come eri, non mettevo in conto che avresti perso la faccia da ragazzino. Ora sei quasi un altro, ti radi la barba, sei più alto, sei quasi un uomo. – Tu non sei cambiata molto, eri già donna, solo che ti ricordavo con seni più piccoli. Ti sono cresciuti, eppure non sei ingrassata. È come se avessi avuto figli. – Perché dici questo? – Parlo per sentito dire: che il petto cresce quando si allatta. Allora scrissi sul mio diario che le tue tette erano come due piccole pesche bianche. Se dovessi dare una idea di come ce le hai adesso, direi che sono esuberanti. Ma anche scostanti, è come se mi mettessero un po’ in soggezione. – Esuberanti? Scostanti? Soggezione? Oh, povera me! – Scusami, sono un imbranato. Te ne eri accorta anche allora. E quando sono emozionato dico ciò che mi viene in mente senza un minimo di riflessione, così combino disastri. Infatti ti sei intristita. Scusami, non volevo dirti nulla di sgradevole. – Non mi sono intristita per quello che hai detto. È come hai pensato tu, le tette mi sono cresciute perché ho allattato. – Hai un figlio? – Non più. È morto. – No! Che mi dici! Che tragedia! – Tragedia, sì. La mia seconda tragedia. La prima è stata la morte del padre, prima che lui nascesse. – No, non è possibile. Morto anche il padre. E di che? – Di Andrea Doria. – Il transatlantico affondato due anni fa? – Sì. – Tu eri incinta e lui andava in crociera? – No, lui sull’Andrea Doria ci era andato per lavoro, per guadagnare più soldi di quelli che raggranellava qui. Dicono che l’economia italiana è in crescita, ma qui a Trieste, con le migliaia di profughi arrivati dall’Istria e dalla Dalmazia, non c’è lavoro per tutti. Voleva sposarmi. Aveva venticinque anni. – Ne eri innamorata? – Sul principio no, perché mi aveva violentata, ti risparmio le circostanze del delitto, e le successive manovre dei miei per imporre con la forza del codice penale il matrimonio riparatore. Poi mi chiese scusa, perdono, pietà, si mise in ginocchio, pianse, piangeva e mi supplicava come un disperato, mi sembrò meno cattivo di quanto fosse convinto di essere. – E il bambino? – Aveva tre mesi, una mattina vedo che quasi non respira, chiamo il medico, non capii che dovevo portarlo subito al pronto soccorso. Il medico venne ma la penicillina non fece in tempo. – Aveva preso la Asiatica? – No, broncopolmonite. Prima che anche qui scoppiasse la Asiatica. – Tutto potevo immaginare fuorché di trovarti piena di dolore. Vorrei dirti che… no, non è delle mie parole che hai bisogno. Posso solo pensare a come mi sentirei se fossi in te. – Ti ringrazio. – E ora come vivi? – Vivo con mio padre e mia madre, ho smesso di piangere, ho smesso di compatirmi come se fossi l’unica vittima della crudeltà del Fato, e non mi piace quando la gente vuole farmi vedere che mi compatisce.
Tre anni prima, al mare, aveva scritto che le sue tette erano come due piccole pesche bianche, però “pesche” non gli era parso galante come epiteto, lo aveva cancellato. Non trovandone un altro più intriso del piacere che si prova vedendo per la prima volta dal vivo due tette di ragazza, lo aveva riscritto. Bianche perché in contrasto con la pelle del viso e del collo e delle braccia e della schiena e delle gambe che era libera di abbronzarsi e si era abbronzata, mentre la pelle dal seno e della pancia e delle natiche non ne aveva il diritto. Neppure la pelle dal seno all’ombelico ne aveva il diritto, sebbene già fosse in corso la rivendicazione internazionale lanciata dal bikini di Brigitte Bardot. Bianche perché i capezzoli erano di un rosa che risaltava appena, e poi bianche perché mentre lei indossava il costume, che già copriva la pancia e lo stomaco, un fascio di luce bianchissima si era depositato sulla parte superiore del suo corpo lasciando il resto in ombra. Per innocente noncuranza era rimasta socchiusa la porta della cabina, solo socchiusa perché a quell’ora lei aveva dato per certa l’assenza di chiunque, invece il caso volle che Orlando si dirigesse alla cabina di fronte, la sua, silenzioso come sogliono essere i piedi sulla sabbia.
– Non ho nessuno, non cerco nessuno, non sopporto nessuno. Solo a te non direi di no, se mi volessi. – Per fare l’amore? – No, per stare con me. Qui con me, per sempre. – Qui? Con te? Per sempre? E che potrei fare qui, a Trieste? Non ho niente, non so fare niente, ho solo l’intenzione di andare alla università. – Stai tranquillo, scherzavo. – E poi, per avere voglia di stare con te dovrei perlomeno innamorarmi. – Non ti sei mai innamorato? – Certo, ma i miei innamoramenti durano in media tre mesi, come i trimestri scolastici. Chiamali cotte, infatuazioni a breve scadenza, flirt, amorazzi. – Quindi, sei in attesa di innamorarti come si innamora un adulto. Bravo. Nel frattempo ti succederà di avere altre esperienze, ancora poche o ancora molte, dipende, finché non incapperai in una combinazione di sorprese diversa da tutte le precedenti, che ti farà mancare la terra sotto i piedi e deciderà per te. – Parli come se fossi la mia guida spirituale, però capisco che le tragedie che hai vissuto devono averti aumentato la maturità in una misura che io ora non saprei neanche concepire. – Ti ho detto che mi sarebbe piaciuto tenerti qui solo perché la tua venuta mi ha fatto piacere, il primo piacere dopo tanto tempo. – Se è così, sono contento. – E io sono contenta che tu non mi abbia dimenticata. – Non mi è costato nessuno sforzo. Mi sei rimasta impressa perché quell’anno mi innamorai solo di te. Avrei voluto tanto baciarti, sarebbe stato il primo bacio, parlavamo e parlavamo e non osavamo toccarci, ed era anche difficile trovarci da soli. Io aspettavo che tu facessi la prima mossa perché avevi quasi due anni più di me, però di audacia ne avevi poca anche tu. E poi, io non dimentico nulla, perché non c’è nulla che voglia dimenticare. Al massimo, certe situazioni preferirei non averle vissute. – Piacerebbe anche a me. Ma a volte uno non si permette neanche più di pensare cosa gli piacerebbe e cosa non gli piacerebbe aver vissuto. – lo, solo per aver sentito quello che ti è toccato di soffrire, già mi pare di non essere più lo stesso di prima. Se non suonasse come una scemenza, direi che oggi ho cominciato a invecchiare. – Mi fai tenerezza. – Anche tu a me.
Nel Caffè degli Specchi Orlando si limitò a un caffè, ma era chiaro che tra i suoi progetti per il futuro immediato c’era quello di una cena da morto di fame, dato che la sua giornata di viaggio aveva ricevuto calorie soltanto dalla colazione del mattino. Quando finì di scegliere mentalmente le parole adatte e di spruzzarci sopra un po’ di brio, pronunciò l’invito a cena con l’intenzione più galante che poté. Era la prima volta che invitava a cena una ragazza, mentre occasioni di invitare a una aranciata o a un cappuccino ne aveva sfruttate fin troppe. L’intenzione era anche affettuosa, oltre che galante, ma la voce tenorile scivolò in un falsetto da principiante, quasi non terminò l’invito, e se in quel momento avesse avuto davanti uno degli specchi del Caffè, avrebbe visto un rossore sulle guance e due occhi in disaccordo: uno che guardava il rossore con rabbia, l’altro che non voleva essere guardato. Lei non perse tempo a contemplarlo, gli disse subito che lo ringraziava per l’invito, ma: «Sei o non sei romano? Dunque paghiamo alla romana».
– Hai mai fatto l’amore completo? – No, sono vergine. Quando parlo da solo, per sdrammatizzare dico che sono intonso. Con le mie conquiste trimestrali non sono mai riuscito ad andare più in là delle carezze intime. Tutte le ragazze giocavano in difesa. Il motivo della loro castità era quello di sempre, fare bella figura la prima notte di nozze. D’altronde non posso dargli torto: se non è la religione quella che le obbliga alla castità prematrimoniale, è l’antropologia; se non è l’antropologia è la mentalità generale. Noi ragazzi non abbiamo altra opportunità per sverginarci che quella di entrare in un casino appena compiuti i diciotto anni. Anche io ero deciso a farlo, ma ogni volta mi fermavo davanti alla porta. I compagni già arruolati mi sfottevano. In ogni caso bisognava decidersi prima che la legge Merlin entrasse in vigore. Cioè, ancora non è entrata in vigore, mancano cinque giorni, dato che tutti i casini devono essere chiusi dalla mezzanotte del venti di questo mese, immagino che avrai letto qualcosa sui giornali. – Va bene, ho capito. Vuol dire che perderai la tua verginità con me. – Davvero? – Sì. – Il che vuole dire che io intanto salgo al settimo cielo e metto in moto tutto l’armamentario del desiderio e dell’illusione, però fra qualche secondo mi ritroverò al livello del suolo perché tu dirai: scherzavo. – Non ti dirò che scherzavo, e per fare le cose sul serio, prima di nasconderci nel tuo albergo dobbiamo cercare una farmacia. Persero allegramente tutto il tempo che risultò necessario per trovare una farmacia notturna. Intanto la temperatura si abbassava come previsto dalla stazione meteorologica di Tarvisio, le vie si privavano del normale flusso di passanti, i pochi che ancora circolavano non sempre erano dei vagabondi, sebbene i loro punti di riferimento fossero soltanto i bar aperti. In varie zone della città i lampioni erano ancora quelli che fino al 1918 si erano avvalsi della energia elettrica austroungarica, ma c’è da dire che le lampadine moderne non erano molto più luminose di quelle antiche. Quando entrarono nell’albergo provvisti di una scatolina di preservativi, il portiere di notte disse che il ragazzo poteva salire nella sua camera quando voleva, ma non insieme alla signorina, perché né lui né lei erano maggiorenni [a quei tempi si diventava maggiorenni a ventuno anni. Per la maggiore età a 18 anni bisognerà aspettare la legge n. 39 dell’8 marzo 1975. Nota del Correttore di bozze]. Quindi niente da fare. Il portiere disse che non voleva commettere nessuna infrazione al regolamento né tanto meno avere grane con la polizia italiana. Quando Trieste era Territorio Libero e comandavano gli inglesi e gli americani, e lui un po’ li rimpiangeva, non c’erano tanti controlli, gli alberghi pullulavano di militari e spesso le donne erano minorenni, ora invece a Trieste comandava la Democrazia Cristiana, ragione per cui la gentile signorina era pregata di non insistere. – Andiamo a casa mia. A quest’ora i miei genitori dormono.
Invece non dormivano, erano rimasti in piedi ad aspettarla, perché la figlia, dopo aver ricevuto una telefonata alla quale aveva risposto con voce di sorpresa, era uscita senza dire nulla, solo che avrebbe cenato fuori. Da quando era morto il bambino erano sempre in pensiero per lei, avevano notato non poche incoerenze nei suoi comportamenti, del resto non aveva conosciuto altro che il dolore negli ultimi due anni. – Stando così le cose, chiedo ai miei di ospitarti per stanotte come povero studente senza soldi, ricordandogli che ci eravamo conosciuti al mare tre anni fa. I genitori acconsentirono, e siccome il divano era un po’ corto per lui tirarono fuori da uno sgabuzzino un materasso, lo stesero sul pavimento, aggiunsero lenzuola, coperta leggera e cuscino. – Dormi, piccolo! Io pure vado a dormire. Quando saranno ben bene addormentati anche loro, verrò a trovarti.
Forse dormì un’ora di troppo rispetto ai suoi calcoli, perché andò a trovarlo quando dalle fessure delle persiane non filtrava solo la notte. Ma c’era ancora tanto tempo prima che l’alba del 16 settembre irrompesse nel salotto. Il che sarebbe avvenuto alle cinque e quarantacinque circa, [ora solare… l’ora legale aveva funzionato fino al 1948, poi lunga pausa, sarebbe tornata in vigore nel 1966. Nota del Correttore di bozze]. Lo svegliò con un bacio, anzi con tanti baci sugli occhi, sul collo, con tanti piccoli assaggi delle sue labbra, lei era già nuda, lo eccitò con le carezze, lui si tolse le mutande e la accarezzò a sua volta, le baciò le tette. Il desiderio e l’istinto, uniti agli anni di fantasticherie e letture erotiche, rendevano intuitive le sue mani, e quindi efficaci, nonostante si sentisse inesperto e sgraziato. Lei gli infilò il preservativo, si mise su di lui. Il crescendo dei movimenti si realizzò meglio di quanto ciascuno dei due si aspettasse, e quando lui riaprì gli occhi dopo un orgasmo più dolce di tutti gli orgasmi senza penetrazione della sua vita passata, e più dolce di tutti gli orgasmi con penetrazione di gran parte della sua vita futura, vide, mentre lei era ancora su di lui con la faccia sul suo petto, vide, grazie alla luminosità accresciuta, vide in piedi sulla soglia, in camicia da notte lunga sino ai piedi, la madre di lei. Che quasi subito si girò e scomparve. – Adesso andrà a dirlo a mio padre, preparati a una sfuriata alla antica. – Mi vesto e me ne vado. – No, troppo tardi. Appena arriva ci copriamo la faccia col lenzuolo. Aspettarono, parlavano sottovoce, lui si sentiva a disagio, anzi, per dirla senza troppa indulgenza, aveva i pensieri di un ragazzo impaurito. Le poche parole che diceva erano slegate tra loro, gli si stava frantumando nella mente tutto il bello e il buono e lo straordinario che aveva vissuto fino a quel momento, gli doleva di non saper essere all’altezza della situazione, pur pensando che in una situazione come la presente non c’era spazio per una sua eventuale iniziativa. Apparve il signor padre, indossava un pigiama a strisce verticali chiare e scure della stessa larghezza; le scure, per una strana angolazione della luce, si coloravano di una tonalità azzurrastra, le chiare di una tonalità bianco crema o grigio perla. Un pigiama a strisce di quei colori pareva fatto apposta per ricordare le uniformi dei deportati, e come quelle era abbottonato fino al collo.
Avanzò di due passi e rimase in attesa. Le sue mani reggevano un vassoio con sopra due tazzine fumanti, due cucchiaini e una zuccheriera.
…che bel racconto! Anche se scritto in terza persona sembra riferire ricordi di avvenimenti intensamente vissuti da parte dello stesso scrittore: un adolescente che diventa adulto a contatto con l’esperienza, anche se mediata, della morte e con l’amore e una giovane donna duramente colpita dal Fato che riscopre nell’incontro con l’amico il volto della speranza di una vita che continua…ma in particolare a colpirmi sono i genitori di entrambi i ragazzi, così straordinariamente comprensivi e incoraggianti…
questi miei versi un regalo al signor Tagliaferro Franco
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Il corpo di una donna mi tallona ed è una rovina
la figura di una congettura fuori le mura oriane.
Deformi le visioni acrobatiche di un falco in contumacia
che con gli artigli si è scrollato il tempo in mille specchi.
Non è stato il calcolo indecifrabile a disertare
il numero immaginario, perché dal destino
un grido di un uccello non puoi declinare
dai marosi alle rocce, come un triviale gioco.
E se dai rancori un attore sottrae una memoria alta
per due meschini atti di una commedia greca,
non devi i gradini di un anfiteatro battere *
se prima di un applauso c’è un fiasco meritato.
Così le quinte conteggiano i nostri passi piombati coi sigilli
per mendicare voci, maschere e danze, canti, e grecori trionfali
che da portali di scoperta sono in viaggio con l’irlandese ulisse,
che, commosso lui, una volta incontrai sul ponte triestino!
Antonio Sagredo
Campomarino, 22 luglio 2011
Una storia credibile, raccontata con leggerezza, senza troppe pretese o intellettualismi. Avanti così, tenendo presente che anche un’romanzo di formazione’ non può esaurirsi su un ‘io’ autoreferenziale, ma aprirsi a tante realtà, puntando verso un più marcato coinvolgimento narrativo, come mi sembra stia accadendo da queste poche pagine che ho avuto modo di leggere.