di Antonio Sagredo
Quel tumulo di suoni rococò
raccolse le palpebre come briciole del pianto -
un cipresso, stupito fino alle radici,
sbirciava la Signora, e in penombra
la sua risurrezione, a malincuore.
Implorava, torturata da visioni, la lettura di un osceno necrologio sui vessilli di marmo del rincrescimento: le sue stesse labbra baciare la nera rosa! Per cosa? – urlò risposi: sono già stato a Zaragoza! e lì che ho lasciato i miei manoscritti! Non mi è concesso di sognare l’Acheronte quando una commedia non sa d’essere divina! e lei, in falsetto: ma i due Cesari giocano col fuoco dei pugnali! Il Requiem con passo equino, rotando la battuta di un tamburo vuoto e gravido d’epitaffi come Marta o come la puttana di Lot esclusa da tutte le tragedie, ricusò lo specchio, e del miracolo il rinato oblio o la morbida vanità dei letti muliebri tradita da Mefisto. La geometria del silenzio ci traduce alla torre ottagonale dove la corona attende l’orgia o l’algebra ottomana, ma il volo del falco disegna una bianca cattedrale - il leggìo si ribella alla tastiera! - la mente del suono è un tugurio da celebrare con orrore. Datemi un dò e vi muterò in nera rosa, in muraglie, anfratti e gole prodigiose! Noi viviamo delle briciole del pianto quando l’amplesso misura i nostri frutti tra quei cardini che sono i mostri insonni, dove incedono scheletrici gli spasmi - di Palermo! Orizzonti, Autunni, Acheronti… io e voi non sappiamo più in quali finzioni - vivere! A. S. - Vermicino, 4-5 gennaio 2007
Non sappiamo più come vivere solo perché i riferimenti solenni e gravidi sono ormai smarriti, e attendono, difficile impresa mi pare, di essere ritradotti per necessità in messaggi altrettanto significativi. La “transizione” di cui si dice in questi giorni, non focalizza con precisione l’eredità che comunque dovrebbe informare il futuro a venire.