di Ennio Abate
IL COMMIATO Io solo qui tra le donne. Forse anch'io dico e ridico più inutili parole. Tutta notte cambio tavoli e divani, a tutte parlo sperando di lasciare in questo mondo d'ombre qualche traccia del mio esserci stato. E ancora voci di notte, nuove luci diffuse, altre fessure da cui penetra l'alba e il suo silenzio. Ora usciamo all'aperto traversando vasti spazi acciottolati e strade dove ogni pietra risuona solitaria sotto i miei passi. E lì lasciarsi, lì tagliare con bacio forse ardito il filo del discorso sgocciolando altre inutili parole. E l'eterno ritorno ci riavvince. (da Meeten Nasr, Scorre il giovane tempo. AUTOANTOLOGIA POETICA 1982 -2014, pag.101 La Vita Felice 2014)
Ho saputo della morte inaspettata di Meeten Nasr dall’annuncio che ne ha dato su Facebook Luigi Cannillo (qui).
In ritardo lo voglio ricordare su Poliscritture: pubblicando la limpida, inquieta e mesta poesia, che avete appena letto e che a me suscita simpatia fraterna e vicinanza; ma anche non tacendo o rimandando ad altre occasioni un cenno alle incomprensioni e agli antagonismi che ci furono tra me e lui (ed altri) ai tempi della comune collaborazione alla rivista “Il Monte Analogo” e che portarono alle mie amareggiate dimissioni. Le ragioni di quelle discordie, apparentemente personali ma che invece ebbero una loro serietà, confermata dalla decadenza culturale oggi che ci assilla, non sono venute meno. Tuttavia entrambi facemmo in tempo a distanziarcene. E pubblicando io suoi testi sui blog che curavo (qui e qui); inviandomi lui la sua autoantologia poetica “Scorre il giovane tempo”), avevamo ripreso una qualche forma di collaborazione: più limitata, ma forse più elastica e rispettosa delle nostre reciproche differenze. Ciao, Meeten!
APPENDICE
A conferma di quanto detto, tra i tanti documenti di/su Meeten che conservo nelle mie cartelle, scelgo di pubblicare ora due mail:
– una mia del 2004, in cui accenno al dissidio principale (tra enfasi su “mistero e risonanza interiore” e esigenze critiche) latente nella redazione de “Il Monte Analogo”;
– una sua, dove dava giudizi severi ma attenti ed argomentati su alcuni miei testi poetici, pur lasciando trasparire tutta la differenza di gusto e di visione delle cose tra noi:
- Da Ennio Abate a Meeten Nasr e redattori de “Il Monte Analogo”
24 mar. ’04
Monte Analogo Cari amici, intensificare il dibattito fra di noi, magari mettendo su anche qualche momento di incontro seminariale su un tema preciso! Questa è la proposta che mi sento di affacciare dopo la presentazione alla Tikkun della rivista. Moltitudine, mistero o risonanza interiore (riduco a formule per brevità…) sono i tre concetti che circolano come possibili criteri-guida del lavoro della rivista. Virgolettiamoli (in vista di ulteriori approfondimenti…), non scegliamone uno escludendo gli altri due (o altri che si potrebbero forse aggiungere, ad es. quello della “grandezza”), ma scaviamoli e soprattutto cerchiamo di dialogare-polemizzare, dicendoci anche quello che pensiamo del criterio altrui, senza limitarci al monologo.
Per quel che mi riguarda, in attesa di obiezioni su quanto vado sostenendo nel saggio del numero uno, terrei a dire tanto per avviare un possibile confronto: 1) a Meeten: che la poesia attratta dal mistero rischia di trasformarsi in religione o mistica e quindi a fare a meno del linguaggio verbale (comunicabile, discutibile, trasformabile, aderente al mutarsi della vita sociale e individuale) o a sottometterlo all’”ispirazione”: una prospettiva che può portare all’indifferenza verso gli inferni ( e i momenti di gioia) del mondo (e che temo); 2) a Caracci: che il criterio della “risonanza interiore” a quel che si legge mi pare estremamente ambiguo e ipersoggettivo proprio sul piano empirico a cui egli si richiama [..]. Se l’oggettività assoluta (e non solo in poesia) non esiste (o è divenuta una chimera nel Novecento), un giudizio soggettivo ma verificato criticamente su quello di altri (competenti o meno competenti) va costruito, va cercato, motivato, argomentato. Io lo preferisco sempre al responso ineffabile della mia stessa “anima”.
Un caro saluto
Ennio
2. Da Meeten Nasr a Ennio Abate
S. Teresa di Gallura, 14 luglio 2006
Caro Ennio,
era proprio al file più corposo (seni petrosi * era il titolo, se non mi sbaglio) che pensavo quando ti ho detto di inviarmelo qui in Sardegna. Rimandamelo per piacere qui dove ho più tempo per leggerlo.
A proposito poi delle due poesie (diciamo, in prosa) che hai allegato, mi ricordo la discussione che c’era stata a proposito di quella di Don Giovanni. Oggi provo ancora disagio di fronte ai numerosi, troppo voluti aggettivi (strabico, esile, perfidi, risicato per non dire di smaniati e della non scafata giovinezza che è ancora peggio che se fosse solo scafata) ma mi sento di dover essere ancora più critico sulle “polpe rugose” non solo per l’espressione antiquata e davvero seicentesca di “polpe” (che per altro allora indicava le “calze”) ma per l’abusato barocchismo e la convenzionalità del tema temporale sottostante. Amore e morte, gioventù e vecchiaia, lo splendore e la corruzione della carne, o sono temi eternamente presenti o si riducono facilmente a vecchia spazzatura retorica di predicatori da sagrestia (dall’Aretino a Padre Bartoli), Roba da evitare, dunque, specialmente se si tratta di un Don Giovanni che, nel suo mito, scommette fino all’ultimo sul piacere interminabile e irresistibile del possesso amoroso e non si arrende neppure di fronte alla morte (e ricordo che di ciò s’era già parlato a suo tempo da Valeria). In questa tematica c’è poco posto per il “profitto” che per fortuna viene da te abbandonato con “fretta da brigante” e “confusione nei cuori”. Fai dunque bene, a questo punto, a porti la domanda radicale sulla vanità del pensiero. Ma la giusta risposta non può essere certo trovata nell’ambito materialistico dei “corpi” ormai “flosci”. Concordo così con l’originale conclusione della poesia che consiste nel lucidare le tue “madamine d’oré” e nel togliere, già che ci sei, ogni altro inutile orpello alle tue scritture future.
Dell’altra poesia su Robinson è impossibile parlare così partitamente. C’è troppa carne al fuoco fin dal titolo [Robinson e la sposa femminista perduta]. Perché, infatti, “femminista”? Si può tranquillamente togliere senza avvertire scompensi, ma se tu facessi questa mossa chissà quante altre parole e intere proposizioni potresti far scomparire. E allora potresti – voyageur oramai sans bagages – puntare dritto alla vera méta e fare di te un più autentico Robinson, scrittore-ricostruttore ostinato (come in realtà vorresti essere) di un mondo più semplice, più consapevole ma per sempre privato di una sposa. Così, raschiando il fondo della parabola robinsoniana, la solitudine del “corpo burattino” diventerebbe insopportabile e ti costringerebbe a tornare fra noi, gente di poche, misurate parole, senza neanche aspettare mezzanotte e dieci e senza ulteriori divagazioni.
Un caro saluto e buone vacanze, se altre ne farai.
Meeten
* Il riferimento è alla bozza della raccolta “Donne seni petrosi”, che pubblicai poi nel 2010 con FARE POESIA.
Meeten Nasr era un autentico poeta. È morto nel milanese l’8 agosto 2019. Era nato a Pesaro, da una famiglia di ebrei sefarditi. Non conosco la data di nascita. Una volta gliel’ho chiesta, ma non mi ha risposto. Non l’ho trovata in nessuno dei molti articoli e schede biografiche e bibliografiche che ho letto su di lui. Dal contesto dei tre libri suoi che possiedo e ho letto, direi che era nato agli inizi degli anni ’30 ed è quindi morto a 85 anni circa. Mi soffermo su questo punto non per pignoleria, ma perché è per me significativo del percorso biografico di Meeten Nasr, pseudonimo scelto quando ha aderito a una comunità religiosa – filosofica indiana, abbandonando il suo nome anagrafico, Sergio Chiappori (parente, credo cugino di primo grado, del vignettista, pittore e scrittore Alfredo Chiappori).
Nella sua opera, strettamente aderente alle sue scelte esistenziali, mi sembra di poter distinguere almeno tre filoni.
Uno è quello del traduttore dal greco classico (aveva fatto studi di filologia greco-latina, di epistemologia e di storia della scienza), e la sua traduzione di una parte degli epigrammi di Callimaco è un gioiello. Libera traduzione in versi, aderente al testo originale e insieme creativa di nuovi versi, di nuova veste linguistica. La si può prendere anche come opera poetica sua, originale.
Un secondo filone è quello del traduttore di testi scientifici, soprattutto di psicanalisi e di sessuologia, per editori di primo piano, fra i quali Feltrinelli. Anche queste traduzioni non sono semplici lavori per guadagnarsi il pane, ma rientrano nel percorso culturale ed esistenziale in cui si riassume la sua vita.
Un terzo filone è quello della sua poesia, estremamente colta e raffinata, rigorosa, direi aristocratica. Coltivata con estrema disciplina. Nella collaborazione a riviste come nelle letture pubbliche di poesie il suo stile si distacca nettamente dalla media – diciamo così, per intenderci – e si fa apprezzare per la sua qualità. Le sue pubblicazioni, sebbene non molto diffuse, documentano il suo percorso poetico, fra i più interessanti degli ultimi quarant’anni (le sue prime poesie edite risalgano agli anni ’70) e la sua «Autoantologia» comprende poesie degli anni 1982-2014 [«Scorre il giovane tempo. Autoantologia poetica 1982-2014. Milano, La Vita Felice, 2014]. Ha affiancato l’attività poetica con quella di promotore della poesia, di organizzatore di letture e di eventi legati alla diffusione della poesia.
Ma la sua personalità, che si esprime nella poesia come nella scelta delle traduzioni, è soprattutto caratterizzata da un continuo inseguimento della vita intesa come libertà, piacere e gioco. Da qui nasce un percorso di studio e di pratica psicanalitica, in funzione liberatoria e di continuo rinnovamento, direi quasi di ringiovanimento, inseguendo una perenne gioventù, anche nelle forme del piacere sessuale, delle relazioni molteplici e aperte, delle nuove relazioni più giovani delle precedenti. In qualche modo Sergio è rimasto per tutta la vita un “giovane irresponsabile”, innanzitutto verso se stesso, non curando interessi di carriera, di “sistemazione”, di stabilità, poi anche verso gli altri, preferendo le relazioni amicali a quelle che comportano assunzioni specifiche di responsabilità e di cura.
L’inseguimento di questa sua forma di mito e/o di utopia lo ha portato a diverse esperienze, fra cui i viaggi e soggiorni in India per approfondire e praticare quelle forme di spiritualità e religiosità che negli anni ’70 divennero di moda (o, se preferite, di grande attrazione) anche in Italia. Nel suo libro autobiografico «La mosca di Rousseau» [Milano, ExCogita Editore, 2012], una specie di diario degli anni 1976-1988, si rispecchiano ora esplicitamente ora implicitamente queste sue tendenze e scelte di vita. E si rispecchia anche il fallimento di quell’utopia che aveva posto al suo centro il piacere e la giovinezza. Con la vecchiaia, con le malattie, con le difficoltà economiche, con la perdita del vasto giro di amicizie, il senso della vita diventa un altro.
Tuttavia, e questa è una mia impressione / supposizione, Meeten Nasr non ha mai rinunciato alle sue scelte giovanili e ha affrontato i problemi, anche di tipo nevrotico e ossessivo, che ne sono derivati, o che forse erano precedenti e motivanti di quelle scelte.
Ha così attraversato gli anni della sua vita occupandosi poco e marginalmente di politica, ma partecipando ai problemi radicali del suo tempo nelle forme della “fuga” in Oriente, della ricerca spirituale, della libertà dell’Es e dell’attività culturale di traduttore e di poeta. Chi si occupa di storia del Sessantotto e degli anni Settanta, e delle crisi e delusioni che ne sono seguite, troverà materiale su cui riflettere anche nella poesia e nelle altre scritture di Sergio Chiappori. E al centro di questa scrittura vi troverà temi tipici del clima culturale di quegli anni; di quella parte di “militanti” che non si sono dati alla politica ma che hanno impegnato a fondo se stessi per la “liberazione dell’Io” dalla tirannia del “Superego”. Percorrendo strade alla ricerca dell’affermazione dell’anarchia dello spirito e nella contestazione della civiltà repressiva.
Ho conosciuto Meeten in seguito alla pubblicazione di alcune mie poesie su “Il Monte analogo”. Nel corso delle successive presentazioni della rivista con le conseguenti letture, ci siamo conosciuti meglio ed è nata un’amicizia tra noi; passando per molti discorsi e confronti sulla poesia, la simpatia reciproca ci ha condotti a parlare delle nostre vite, del nostro passato, delle origini e del mondo… una amicizia tra “diversi” per generazione e formazione. Così si è creato un legame di affetto e stima. Ho poi letto e presentato con molto piacere (con un’altra persona) alla libreria “Bocca” in galleria il suo libro autobiografico “La Mosca di Rousseau”. E qui la sua anima di viaggiatore e la mia India giovanile si sono di nuovo magicamente incontrate; parlando del suo libro parlavo anche di qualcosa che ha riguardato in parte anche me. Una pezzo del “’68” che ho vissuto anche, inizialmente, nelle sue componenti libertarie, trasgressive e nella ricerca spirituale, che Meeten ha perseguito certo più di me. Ora Meeten mi manca; un uomo buono, sensibile, generoso – un amico – un poeta – una persona curiosa della vita, degli altri, aperta anche verso quanto non era affine ai suoi criteri… una persona di valore, che saluto con affetto e ricordo con tenerezza.
La notizia della morte di Meteen Nasr mi addolora profondamente. Lo conobbi in occasione di alcuni contatti con la Rivista Monte Analogo contatti peraltro mai diventati istituzionali. Distinguo quindi la sua persona – amabile e gentile come non si è soliti incontrare in questa società – da quelli con la rivista citata che furono sempre marginali e occasionali. Meeten era mio vicino di casa e anche per questo a volte ci incontravamo al di fuori ed oltre i discorsi sulla poesia. Ebbi in dono e conservo le sue ultime poesie nonché la traduzione degli epigrammi di Callimaco. Su tale sua opera condivido pienamente il giudizio di Aguzzi. Non sono un critico di poesia e non ebbi mai modo di incrociare le armi sulla sua poesia o sulla poesia in generale. Ma – portato come sono a vedere nel poeta prima di tutto una persona volta ad un “esperimento per così dire morale” – non posso dire di lui se non che fu poeta autentico per la determinazione ferma e schiva con cui tale esperienza ha percorso. Come sempre rimpiango tanti che non ho conosciuto fino in fondo. Addio, caro amico sfiorato appena. Giorgio Mannacio
ALTRE PAROLE SU MEETEN NASR
Ho ripensato alle brevi parole scritte per M.N e mi sono sembrate una sorta di necrologio, genere pubblicitario che rifiuto. Quello che ho detto di lui è generico, insufficiente e soprattutto fa torto a quello che si deve dire di un poeta. Quello che si deve dire prescinde in un certo senso dal giudizio sulla “ validità estetica “ dei suoi versi. Quello che oggi aggiungo dovrebbe allontanare da me l’accusa che non voglia esprimermi sulle sue qualità. Preciso – in tale direzione – che quel poco che ebbi a leggere di lui mi era piaciuto ed interessato. Ma chi sono io per autoassegnarmi un ruolo critico e soprattutto attribuire a tale giudizio una qualche validità ? Qualche volta e in qualche occasione ho tentato di scindere – almeno in parte – la poesia e le sole poesie di una persona dal suo porsi davanti all’attività che le ha prodotte. Ho sempre pensato che il fare poesie abbia a che fare – in quanta parte resta da definire – con “ una esperienza esistenziale “ nella quale colui che l’attraversa butta oltre l’ostacolo le proprie energie totali , sentendendosi realizzato solo nella fedeltà a questo progetto di vita. Vorrei rivalutare la parola “ romantico “ come quella che presuppone un “ combattimento contro “ e dunque l’accettazione sia di una vittoria che di una sconfitta.. Recentemente ho sentito parlare della poesia come scacco riuscito
( lo penso da tempo ) . Questa riflessione mi porta a considerare la “ condition humaine “ del poeta, dei poeti come quella di chi che affronta un cammino nel deserto che li aspetta e ne fanno esperienza di vita.
Ecco , di MN ricordo e voglio sottolineare questi aspetti: la sua profonda cultura che veniva da lontano e già marcata dalla sua origine culturale ed etico- religiosa; la sua discrezione; la sua calma determinazione nello scrivere; il suo garbo. la sua arguzia, il piacere che provava nel ricevere in casa sua e di incontrare gli amici in una sorta di fratellanza mai proclamata retoricamente ma vissuta nei fatti. Cosa avrebbe meritato e cosa ha acquisito prima che la Nemica fosse andata a trovarlo ? Sono certo, vo che non ha mai chiesto un premio per il suo cammino nel deserto e che a questo itinerario-decisione si sia sempre attenuto.
Giorgio Mannacio, 2 settembre 2019