DIARIO/RIORDINADIARIO
di Ennio Abate
Oggi ho lasciato un commento critico sotto la pagina FB che Pierluigi Fagan ha dedicato al tema del postcapitalismo e del posteconomicismo (qui). Ne è seguito un breve scambio con lui, che riporto. Certamente la ricerca di Fagan è importante e va seguita con attenzione. Eppure – insisto – le manca qualcosa che in Marx c’era. Aggiungo in Appendice un altro mio commento del gennaio 2012 che insisteva sempre in questa difesa del pensiero di Marx. Allora l’interlocutore era Mauro Piras su Le parole e le cose. ( Tutta la discussione si può leggere qui). Oggi Marx sarà per molti solo uno spettro dell’Ottocento, ma anche rispetto al presente politico, che ci costringe a scegliere solo tra false alternative (o padella o brace, per semplificare: vedi qui ) ribadisco quanto scrivevo in quel 2012: «Io sono per tentare un necessario, indispensabile forse, passo avanti rispetto a Marx (se ne fossimo capaci), non per indietreggiare (come ha fatto la sinistra mettendolo da parte). Non ci si può rassegnare, di fronte alla conflittualità reale delle società capitalistiche, a svolgere grosso modo la funzione palliativa (in mancanza di meglio, non oso neppure più disprezzarla…) che svolgono le religioni » [E. A.]
Ennio Abate Con il massimo rispetto per la lucidità delle sintesi di Fagan, voglio ancora una volta mettere sul piatto l’insoddisfazione verso queste discussioni attorno al postcapitalismo o al posteconomicismo. (E sperando di non passare per attardato difensore dell’economicismo marxista…).
A me pare che, così dibattendo, la visione di Marx venga “complessificata” (e scartata o al massimo “ridimensionata”: «Post economicista non significa che l’economia scompare, significa solo che non è l’ordinatore dell’intera società come non lo è stato prima della modernità. » (Fagan)).
Ma – detto brutalmente – non è che ci si condanni a “sguazzare” nel pensiero della complessità “in eterno”? Non è che esso – mi pare di coglierlo, ad es., nell’intervento di Paolo Bartolini, che non a caso si rifà a Madera («L’accumulazione quantitativa e l’estrazione di plusvalore vanno dunque legate alla promozione di specifici rapporti tra umani e tra umani e non umani. La penetrazione psichica del “capitalismo” ormail globale è un altro tema che mi sta molto a cuore. Dunque immaginare il post-capitalismo significa quantomeno immaginare-progettare forme di convivenza ecologiche, etc.») – sia la riproposizione di un’altra utopia e, per di più, col difetto di non delineare almeno uno scopo chiaro (com’era per Marx la società comunista)? e ci condanni all’ambivalenza e a delineare varie strade senza mai più poterne sceglierne una da mettere alla prova?
P.s.
Se la mia fosse una “vecchia” obiezione superata o già bacchettata su questa pagina FB, la ritiro e chiedo il link da studiare per andare alla mia Canossa.
Pierluigi Fagan No, grazie Ennio dell’intervento. Quanto postato da Paolo Bartolini non è la mia visione, quindi toccherà a lui rispondere. Sullo sguazzamento da complessità in effetti è già stata discussa più volte. Non so se è il tuo caso ma molti credo ripetano una frase molto buttata lì di Preve che equiparava il pensiero della complessità alla famiglia post moderna, cosa che spiace per la simpatia che si nutre per l’Autore, ma è una cazzata. Fosse vivo, sarebbe bello poterla discutere ma purtroppo non lo è. Ma forse non la si discuterebbe proprio perché ripeto, risulta del tutto infondata o chissà cosa voleva intendere. Per metodo che in lui è rigoroso e non cialtrone, ci si aspetterebbe qualcosa più di una frasetta buttata lì prima di accettarlo come giudizio. Non credo avrebbe approvato da ciò che ho studiato di lui. L’altro giorno è morto I. Wallerstein il quale, oltre a Marx, citava tra le sue fondazioni teoriche la Teoria di sistemi ed Ilya Prigogine (termodinamica) due capisaldi della cultura della complessità che non è una teoria ma una onto-gnoseologia (quindi un metodo, come il razionalista) da cui si possono ricavare non una, ma “n” teorie, in “n” campi disciplinari. Non mi sembra Wallerstein sguazzasse nel pantano della complessità. So che è una cultura disordinata e poco formalizzata, c’è un sacco da leggere da studiare, forse anzi senz’altro è ancora molto immatura, però ragazzi, ha permeato tutte e ripeto tutte le discipline dalla fisica alla filosofia (poco) e forse ad eccezione dell’economia (e non è un caso) negli ultimi cinquanta anni. Prima di dar giudizi, un occhio ce lo butterei, se mi posso permettere … 🙂
Ennio Abate Pierluigi Fagan Il fatto è che da tempo qualcosa più di un’occhiata – ovvio da esterno e con la mia mentalità da non specialista – in quelle teorie l’ho data. Lessi a suo tempo cose di Feyerabend, Marcello Cini, etc. E anche di Wallerstein e Braudel ecc. Ma l’insoddisfazione resta. Manca “qualcosa” che in Marx trovavo e or non vedo più. Del resto mi confermi che si tratta di “cultura disordinata e poco formalizzata”.(Comunque, da studiare). Buon lavoro.
Pierluigi Fagan Ennio Abate Poiché Marx ha qualcosa ma manca di qualcosa qualcuno, chissà, potrebbe sviluppare una rilettura complessa di Marx. Complessità è una onto-gnoseologia, fuori da questi ambiti (l’ente, la conoscenza degli enti) non è una “teoria” specifica alternativa a quelle già esistenti. ci possono essere complessologi marxisti tanto quanto hayekiani Feyerabend e Cini, comunque, non fanno parte della “famiglia” (il secondo forse bordeggia in alcune cose). Buon lavoro a te.
APPENDICE
Gentili Mauro Piras, Vincenzo Cucinotta, Mario Rossi, redazione di LPLC,
attendo anch’io “i prossimi sviluppi dell’analisi”, ma non resisto alla tentazione di far rientrare dalla finestra lo spettro di Marx che concordemente in questa discussione quasi idilliaca avete scacciato dalla porta. E vi dico, per quel che conta e per punti ciò che penso:
1. Mi sa – lo dite anche voi – che la sinistra al massimo sopravviva a se stessa. Ma la sua malattia sta (per me) proprio nell’abbandono della lezione di Marx; e, di conseguenza, in una sua incapacità di rinnovarsi, partendo dalla sua storia (anche dalle tragedie della sua storia), non disfacendosene. Sensi di colpa e nostalgie derivano da questo *autodafè*. Troia è bruciata. Innegabile. Ma la sinistra (comunista) invece di caricarsi Anchise sulle spalle, come fece il buon Enea, ha preferito abbandonarlo non so dove. Ed ha chiuso bottega per fallimento mettendo sulla saracinesca abbassata la scritta “ fine del sogno di una società totalmente diversa”. Proprio come suggerisce Piras. Da qui un suo adattamento pragmatico (passivo e a volte cinico) all’esistente, che non permette quasi più di distinguerla dalla cosiddetta destra. Come Pietro rinnegò Cristo ( “Non sei anche tu uno dei discepoli di quest’uomo?”), gli ex comunisti hanno risposto no alle giovani portinaie che, all’ingresso delle stanze dei bottoni, insinuavano: “Sig. Veltroni (o sig. D’Alema, sig. Bersani, ecc.) non eri tu un comunista?”.
2. Trovo, perciò, improprio il paragone con l’”uomo malato di coscienza storica di Nietzsche”. Della sua storia, invece, essa (ripeto: specie quella che si definiva “comunista”, diventata “democratica”) s’è sbarazzata in malo modo, senza dare spiegazioni. Ha fatto *tabula rasa* della storia novecentesca e dell’opera di Marx (che – tra l’altro – Piras tratta senza distinguerla dalla “storia dei marxismi”). “Elaborazione del lutto”? “Lutto della prospettiva utopica”? Ma dove s’è mai visto questo lutto (specie nei gruppi dirigenti della sinistra attuale)?
3. I “conti con il passato” non si chiudono mai “per sempre”. Piras vuole davvero comprendere le ragioni che hanno chiuso la prospettiva comunista? Allora perché tanta fretta, unilateralità e drasticità nel voltar pagina? Davvero ha compreso a fondo le ragioni di quel fallimento? È stato soltanto quel “sogno” (comunista) a impedire di “trasformare la società”? Mettersi “una buona volta, con determinazione, a trasformare la società in cui stiamo” non può essere un altro sogno, magari più vago e debole di quello comunista? Eccetera, eccetera. Le domande sarebbero infinite. Quello che non mi va è la fretta o la sicumera di quanti credono di ’aver “voltato pagina” definitivamente (“per sempre”).
4. Qualcuno mi spieghi perché l’indubbio fallimento del progetto rivoluzionario comunista debba indurre ad “abbandonare l’idea di costruire con la politica un ordine sociale radicalmente diverso”. Chi è il Medico che prescrive simile dieta? Chi il Profeta che ha stabilito LA CHIUSURA DEFINITIVA dei cantieri della storia miranti a “un ordine sociale radicalmente diverso”?
5. Al posto della “riproduzione materiale” il “ruolo determinante” è da Piras attribuito ora alla “riproduzione simbolica” (al linguaggio). Temo che il ribaltamento colga solo in parte i mutamenti verificatisi rispetto ai tempi di Marx e perda la sostanza della sua lezione. Io ho imparato che il capitale non è una *cosa*, ma “è un rapporto sociale storicamente specifico”. E che “determinanti” sono appunto i rapporti sociali capitalistici entro cui si sviluppano anche le “strutture economiche”, quelle che gli storici ci dicono affermatesi in Inghilterra a partire dal Settecento. È il consolidarsi di quei rapporti sociali a far sì che i capitalisti dominino sia nella società che in fabbrica. Nella pagine di Marx, dunque, non “si parla solo del capitale economico” (come fanno alcuni marxisti, scolasticamente chiamati ‘economicisti’) , ma di rapporti sociali capitalistici, che includono anche ciò che oggi comunemente chiamiamo *simbolico” o *capitale simbolico” (e ben altro ancora: ad es. il potere repressivo dello Stato, troppo spesso sorvolato nelle odierne discussioni) . È una questione complicata, non affrontabile in un blog. Ma vi accenno solo per sostenere che, proprio perché Marx oggi non viene più studiato, ci sono in giro delle caricature del suo lascito teorico che passano per “marxiste”.
5. Su cosa sia stato il “comunismo” dopo la Rivoluzione d’Ottobre (o il cosiddetto “socialismo reale”) ci sarebbero molti libri da discutere: quelli di Moshe Lewin e di Luigi Cortesi; l’opera ora avviata da Piero Paolo Poggio, “L’altro Novecento”; i numerosi interventi degli “scomunicati” della sinistra come Costanzo Preve e Gianfranco La Grassa e altri ancora. Sia pur controversi o divergenti nei giudizi e nei bilanci, il silenzio su tali riflessione di certi “assatanati del voltar pagina” insospettisce. Specie se s’accoppia al silenzio sulla “democrazia reale”.
6. Piras non si considera un fautore del “verbo liberista” ma, quando leggo che “l’autonomia del mercato, che si è affermata soprattutto a partire dal XVIII secolo, non è frutto di una volontà politica, ma è il risultato di un processo di sviluppo sociale”, cosa devo pensare? Mercato, stato, scienza, arte, ecc. si sono, sì, differenziati sempre più, ma entro rapporti sociali CAPITALISTICI garantiti e resi possibili solo dall’azione degli Stati (tutti più o meno ipertrofici). Senza i quali, nessun mercato avrebbe mai garantito “una cooperazione dell’agire che gli altri sistemi non possono garantire”. E, quindi, chiedersi se sia “davvero possibile che un’azione politica, tramite il controllo del potere e delle istituzioni, trasformi da cima a fondo l’ordinamento sociale” mi pare una domanda oziosa. Il controllo del potere e delle istituzioni ha permesso purtroppo reiterate e distruttive “rivoluzioni dall’alto”, di cui sono state e sono capaci ieri ed oggi le élites statuali dei vari paesi. Tacere o sottovalutare l’azione statuale significa (per me) dare una piega astratta e fuori dalla storia ai propri discorsi.