2 pensieri su “Segnalazione

  1. RIODINADIARIO 2010/MOLTINPOESIA/EUGENIO GRANDINETTI

    18 maggio 2010/ Da un resoconto alla mailing list dei Moltinpoesia

    Ieri  era la prima volta che il Lab. Moltinpoesia usciva “in trasferta”, ospite della Casa della Poesia al Trotter di via Giacosa, omologa ma considerata di “serie B” (è il caso di dirlo o, per ipocrisia, tacerlo?) rispetto alla Casa della Poesia della Palazzina Liberty. Mentre ci andavo pensavo: Che bello! Così cominciamo a funzionare da laboratorio itinerante, come tante volte abbiamo auspicato.
    Non c’erano temporali in corso. Anzi era un bellissimo e tiepido pomeriggio  e gli alberi del Trotter avevano  tutte le sfumature di verde che un poeta potrebbe desiderare. Fatto sta – lo sottolineo per il discorsino che farò più avanti – che dei frequentatori assidui del Laboratorio, se all’incontro sulla Szymborka eravamo in 5, a quello sull’antologia «Corporea» in 4 (ma diluviava), a questo su Galeazzo di Tarsia eravamo ancora, col relatore Eugenio Grandinetti, in 4. Sempre pochi ma buoni, eh! Ma questo non era il Lab. Moltinpoesia? Qualcosa va male non solo  nel mondo e in questo Paese, ma anche tra i poeti!
     Meno male che ci siamo goduti una bella lezione di Eugenio!
    Da conoscitore fine della storia e della letteratura italiana con tanto di date giuste e di nomi di re, vicerè e baroni. Grandinetti ci ha intrattenuto per un tre quarti d’ora pieni sulle sestine e i sonetti di questo poeta, barone calabrese della zona di Belmonte (Cosenza), non identificato con certezza assoluta dagli studiosi anche pignoli (Galeazzo II o Galeazzo III?).
    L’autore di queste poesie, che piacquero a Foscolo (qualche  sua perla egli “rubò” quasi alla lettera) e più di recente a Fortini (di cui Grandinetti è stato amico e frequentatore),  presente in tutte le antologie, anche se  di  testi suoi originali  non abbiamo nulla e la sua opera trasmessa  conta solo una cinquantina di componimenti, «scrisse solo per sé».
    Artigiano fine della lingua poetica fornitagli dal petrarchismo imperante dopo le prescrizioni canoniche del Bembo, da esso si distingue per  tante cose:  la minore astrattezza  dei suoi versi amorosi, la non coincidenza tra pause ritmiche e pause logiche dei versi, certe scelte lessicali di rottura (alla Dante o alla Montale, ha ricordato Eugenio), una sensibilità che anticipa il barocchismo del Marino e persino il romanticismo attratto dalle corrispondenze tra paesaggi e stati d’animo.
    Capace di attirare l’attenzione è quel poco che si sa della sua biografia (o delle due biografie, sarebbe giusto dire): fu capitano di guerra, odiato dal vicerè (il nome mi è sfuggito..), vedovo precoce di una sposa giovanissima, incarcerato in Castel Capuano, in esilio a Lipari, accusato di «angherie sui suoi sudditi», improbabile (lo dice però Foscolo) soldato al servizio del re di Francia. Si aggiunga poi- tanto per dare un tocco tragico-passionale – che, dopo la morte del poeta, suo fratello minore Tiberio pare stuprasse la figlia bambina di Galeazzo.
    La lettura di vari sonetti che ha fatto Eugenio non posso rendervela, perché (ci ho pensato dopo, ahimè!) non ho portato il registratore, che mi avrebbe permesso di metterla in un file MP3 e mandarvela per posta elettronica.

  2. RIORDINADIARIO 2011/ MOLTINPOESIA

    24 gennaio 2011

    Ennio Abate a Lucio Mayoor Tosi e a Eugenio Grandinetti. Su comunicazione (in poesia) a pochi/molti.

    Se sto su una spiaggia affollata da molti bagnanti e vedo una persona che sta per affogare, mi rivolgo ai pochi a me vicini, che mi possono sentire e darmi una mano. Non alla folla lontana e distratta, alla quale le mie grida non arrivano o giungeranno incomprensibili. Per uesta scelta qualcuno mi potrebbe mai accusare di aver voluto rivolgermi a pochi con l’intento di «creare nuove élites»?

    L’immagine che ho della poesia oggi è proprio questa: una persona che sta per affogare. Tutti noi vorremmo salvarla. Io però vedo attorno molta agitazione, troppa confusione. E non m’illudo che alla (difficile) operazione di salvataggio possano partecipare i *molti*, ai quali pur si richiama nel nome il nostro Laboratorio. Non è possibile. Non subito almeno. Siamo realistici (senza essere cinicamente realisti): in piccolo anche alle discussioni della nostra mailing list partecipano *pochi* rispetto ai *molti* che pur la seguono o sembrano seguirla.

    Le cause di questo scarto sono tante e complicate: il tipo di vita convulso che facciamo; il “rumore di fondo” dei mass media che comunque ci sommerge; gli orientamenti mutevoli dei singoli, ora più propensi all’autopromozione individualistica ora affascinati dall’obiettivo di una libera espressività ora diffidenti verso certi problemi (critica dei testi, rapporto tra tradizione e innovazione, ecc.) considerati troppo spesso oziosi o fisime per “intellettuali”.

    Se questo mio punto di vista non è del tutto campato in aria, non mi sento affatto in contraddizione per aver scritto:

    «la poesia deve rinunciare in partenza a raggiungere quanti non possono neppure “sentirla”, essendo assordati da “questo mondo così distratto e frammentato”; e deve invece rivolgersi – perché vi è costretta, ma anche per scelta consapevole – ai pochi/molti. (Fortini diceva: non parlo a tutti. Io userei questa termine “ambiguo” per indicare un potenziale io/noi capace di costruirsi tenendosi lontano sia dall’elitarismo dei “pochi ma buoni” e sia dal populismo dei rintronati dalla grancassa massmediale».

    Affermando questo, no, non mi sono trasformato d’un tratto in un fautore delle élites, ostile a una comunicazione più ampia della poesia (o di ogni altro sapere). Non è «riduttivo», come mi è stato rimproverato, rivolgersi ai «non-rintronati». Di fatto è solo a questi che arrivano (forse) alcuni dei nostri messaggi. Al momento non ci sono scorciatoie per arrivare agli altri. E non si tratta di nessun rifiuto spocchioso di “comunicare”.

    Certo, uno strumento potente per arrivare ai *molti* ci sarebbe: la comunicazione attraverso i media. Non la ritengo opera del demonio da cui stare alla larga. Però è a tutti evidente che, per quanto qualcuno tra noi possa aver imparato a parlare «universalmente in modo appropriato e comprensibile», l’accesso all’uso di questi mezzi gli è in genere impedita.«Chi ha il potere di selezionare i messaggi da veicolare attraverso i mass media usa – ho scritto – criteri non diversi da quelli con cui Berlusconi sceglie le sue *escort* e i partiti i loro candidati alle elezioni». Provatemi il contrario.

    Conclusioni. La critica – almeno quella che ancora sta addosso a «questa realtà oggettiva» e non occulta l’esistenza dei rapporti di forza diseguali (per cui alcuni accedono attivamente ai mass media e altri possono essere solo pubblico passivo o semipassivo dei mass media) – è oggi l’unico salvagente che possiamo buttare alla poesia. Ed i poeti dovrebbero essere i primi ad esercitarla, anche nei propri confronti. Solo avendo presente questo stato di cose, sfavorevole alla ricerca in generale e alla stessa ricerca poetica, si potrà «tornare a chiamare le cose col loro nome». E (forse) a farsi intendere anche dai molti, oggi irraggiungibili. Non esiste più (e non solo in poesia) nessun «codice condiviso», nessuna «comunità che fa uso di quel codice condiviso». La frammentazione è tale che, anche quando si cerca di “comunicare” con le più oneste intenzioni, non ci si intende. E, allora, credo che il discorso di Fortini, solo in apparenza aristocratico, avesse chiara proprio questa realtà; e chiedesse giustamente di tenerne conto; e di far pulizia delle false idee che circolano anche in poesia.

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