Tonteggiando 2
di Giulio Toffoli
Un po' di amore/e nessuno si smarrirebbe/in questo mondo!
LA SCHEDA
Titolo originale | Tagebuch einer Verorenen |
Lingua originale | Tedesco |
Paese di produzione | Germania |
Anno di produzione | 1929 |
Durata | 112’58’’ |
Dati tecnici | B/N rapporto 1,33: 1 film muto |
Genere | Drammatico |
Regia | G. W. Pabst |
Attori princi pali | Louise Brooks: Thymian Hennings Edith Meinhard: Erika Kurt Gerron: dottor Vitalis |
LA TRAMA
Thymian Hennings è figlia di un farmacista benestante quanto umanamente inconsistente. Nel giorno della sua comunione, vestita con un virginale abito bianco, assiste al licenziamento della governante che il padre aveva circuito, sedotto e poi scacciato. Fra i doni che i famigliari le fanno c’è un diario. Proprio durante i festeggiamenti però riceve le attenzioni dell’assistente del padre che la invita a un incontro clandestino. Thymian, per capire cosa succede nella sua famiglia ed insieme attratta dal giovane, si reca all’appuntamento. Dopo i primi approcci sviene ed è violentata dell’assistente restando incinta. Di fronte al rifiuto dell’uomo di sposarla la famiglia, in una specie di conclave, decide di attendere la nascita del bambino per poi dare il neonato in adozione e rinchiudere la giovane in una casa di correzione: per la buona società borghese infatti Thymian è ormai una “donna perduta”.
Il padre, finito nelle abili mani della nuova governante, che ha imposto la sua autorità su di lui fino a ottenere di farsi sposare, non compie nessun gesto in difesa della figlia e il suo pretendente, un giovane conte senza una professione né un soldo, non ha la possibilità né la capacità di intervenire in suo aiuto.
Thymian è abbandonata in una casa di correzione che poco differisce da una vera e propria prigione, gestita da una istitutrice sadica e da una specie di gigante ottuso e duro. Fra le sue mura vige un ferreo regolamento basato una serie infinita di divieti e una rigida disciplina. La giovane, incapace di piegarsi alla brutalità di una vita senza libertà, trova la solidarietà e il sostegno di un’altra “ragazza perduta”, Erika.
Le due, sostenute dalle altre compagne, riescono a dare vita a una specie di rivolta e, impadronitesi delle chiavi, fuggono.
Ottenuta la libertà Thymian scopre che la figlia è precocemente morta e che non ha nessun appoggio su cui poter contare, non potendo certamente tornare dal padre. Allora è costretta a seguire l’indicazione di Erika che le ha segnalato il bar “Ai 2 angeli” come un luogo dove poter trovare almeno momentaneamente un porto sicuro. Senza quasi rendersene conto la giovane Hennings inizia una nuova fase della sua vita in quella che è nei fatti una casa di piacere di alto bordo dove incontra nuovamente la sua amica Erika e può vivere, superato un primo momento di ingenuo stupore, una vita almeno in apparenza tranquilla, godendo di quei sapori e di quei piaceri di cui aveva perduto memoria. Proprio qui fra l’altro ritrova il suo antico fidanzato e con lui può cercare di ridisegnare un possibile futuro. Rimane però insuperabile lo scoglio della povertà.
Dopo qualche anno una svolta nella loro vita sembra poter venire quando Thymian scopre che con la morte del padre ha la possibilità di riscuotere una parte di eredità, lascito della madre. Ben diversa la condizione della vedova e dei suoi giovani figli, che si trovano letteralmente abbandonati sulla strada a causa dei debiti che gravavano sulla farmacia. Thymian, in uno slancio di generosità, decide di devolvere a quelli che sono in fondo suoi fratellastri i soldi che le sono destinati, in modo che a essi siano risparmiate le sofferenze che lei ha dovuto affrontare. La giovane donna torna in quella che è ormai la sua “casa”, felice ma senza un soldo. Il fidanzato, che era convinto di aver trovato una soluzione ai suoi problemi, disperato si suicida.
Thymian sembra più sola che mai quando, durante il funerale, le si presenta lo zio del fidanzato che afferma di voler rimediare al comportamento fin troppo severo che aveva tenuto nei confronti del nipote. Thymian può abbandonare la casa di piacere e diventa la sua pupilla, la contessa Osdorff. La vita della giovane cambia radicalmente perché ora non solo è ricca, ma entra di diritto a far parte dei circoli più esclusivi della sua città. Fra le altre cose diventa una delle direttrici del riformatorio che l’ha accolta tempo prima segnandone in modo indelebile la vita.
Una volta che si reca a visitarlo scopre che fra le ospiti è finita nuovamente Erika che è considerata un caso di disadattamento particolarmente grave. Thymian di fronte ai suoi ex aguzzini decide di prendere sotto la sua protezione l’amica. Il conte, schieratosi risolutamente accanto alla sua giovane protetta, fa notare a coloro che gestiscono la struttura, sbigottiti e alterati per quella che vedono come una indebita intromissione, che con: “Un po’ più d’amore … nessuno si smarrirebbe in questo mondo!”
PERCHE’ RIVEDERLO OGGI?
Il diario di una donna perduta è riconosciuto dalla critica e anche dal pubblico, sia quando fu proiettato che anche da coloro che lo guardano oggi a novant’anni di distanza, come uno dei capolavori non solo del cinema tedesco degli anni venti, ma di tutto il cinema muto in generale. Si tratta di una delle opere capitali di quella corrente che fu definita della Nuova Oggettività, uno sguardo obiettivo e disincantato sulle contraddizioni e le miserie della società, che attirò le forbici della censura e a cui molto devono esperienze successive quali ad esempio il Neorealismo italiano.
Due sono in genere le motivazioni che vengono portate per supportare questa affermazione.
La prima è legata alla superba interpretazione di Louise Brooks, che riesce in questo, come nel contemporaneo Il vaso di Pandora, a dare vita ad una figura di donna capace di sintetizzare una serie assai variegata di aspetti della femminilità, la donna fatale e del tutto disinibita, sensuale, amorale, provocante e pericolosa, ma nel contempo infantile, innocente e pura.
Le sue fattezze, incorniciate dal caschetto di capelli neri con una aggressiva frangetta, sono diventati un elemento dell’immaginario collettivo. Insomma Louise nelle mani di Pabst si impone, in quel fortunato 1929, come una delle icone intramontabili del cinema, tanto che nel 1953, quando oramai la sua carriera era da tempo conclusa, il critico cinematografico francese Henri Langlois, dovendo cercare di individuare quella che poteva essere definita l’incarnazione della star, ebbe a dire:
“Non c’è nessuna Garbo! Nessuna Dietrich! C’è solo Louise Brooks!”
Una pista per decrittare il film può essere seguire le movenze, i gesti, il sapiente gioco degli occhi di questa donna fatale che ne hanno fatto un vero e proprio modello nella storia della recitazione. Non è improbabile che senza Louise Il diario di una donna perduta sarebbe stato un buon film come innumerevoli altri e nulla più.
V è una seconda motivazione che costituisce probabilmente il vero motivo della qualità di questa pellicola, ovvero la maestria di Pabst. E’ certo difficile fare una graduatoria di qualità fra i diversi registi di questi anni quando si debbono confrontare figure come Laing e Murnau, ma sicuramente Pabst non sfigura e questa regia ne è una prova indiscutibile.
Vi sono sicuramente quattro momenti della narrazione dove il gioco della macchina da presa riesce a fornire una rappresentazione notevole della società weimariana.
Un primo comprende le scene iniziali e ha il un suo climax al 18’, quando viene intentato una specie di processo a Thymian e al bambino appena nato, e che si conclude con l’affermazione di uno dei famigliari riuniti sintetizzata nella formula: “La famiglia ha deciso…”. La camera ha seguito l’intera scena, il conclave famigliare, soffermandosi sulle caratteristiche dei vari personaggi, consentendoci di entrare nel seno di una famiglia borghese tedesca degli anni ’20, che poteva differire ben poco da una famiglia borghese di mezzo secolo prima, nella Germania imperiale di Guglielmo II.
Elemento che unifica le varie parti del film e che emerge di volta in volta, nascosto in buste o messo in bella mostra, contato e esibito e quasi adorato, è il danaro. E’ lui che, passando di mano in mano, tutto sembra risolvere, e davanti al quale tutti si piegano, avendo la magica forza di sanare o almeno nascondere ogni macchia. Solo Thymian, nella sua ingenua dolcezza, ne è, pur profondamente toccata, del tutto estranea.
Il secondo nucleo è costituito dalla reclusione nel riformatorio (21’- 26’ e 30’- 32’). Si tratta forse del momento più alto dell’intera pellicola, dove emerge quell’elemento di natura violenta, da vero e proprio panopticon, che si suole spesso identificare con la Germania e che in qualche modo unifica le pur diverse fasi della sua storia. Le recluse mangiano a suon di un tamburello, muovendosi con precisione cronometrica, lavorano, cucendo a mano o con la macchina ancora seguendo un ritmo che fa pensare al carcere del fabbrichismo industriale. Non diversamente nella camerata fanno esercizi fisici, si muovono fra le brande con le stesse movenze che siamo soliti identificare con la vita in caserma, con una particolarità: il caporale in questo caso è una istitutrice che, gestendo il tamburello, il cui ritmo scandisce le vite delle giovani, sembra quasi giungere ad un momento di estasi. La macchina da prese riesce, tramite un abile montaggio sincopato, con una serie di stacchi e di riprese da varie angolature, a rendere un movimento che si fa sempre più convulso e che ha il suo perno nella ripresa del seno della terribile donna che ballonzola muovendo il rosario che porta come collana, con il crocefisso che si agita in modo scomposto mentre la bocca si apre in una specie di smorfia di piacere, quasi una laida Teresa d’Avila.
Una sera, mentre le ragazze stanno per andare a dormire, l’istitutrice riesce a scoprire il diario che Thymian tiene sempre con sé e vuole appropriarsene. Ne segue una specie di sommossa che vede le recluse schierarsi in difesa del diario che diventa una specie di feticcio che vola da una parte all’altra della camerata. Infine le ragazze riescono a bloccare la loro carceriera e il suo assistente, tanto che Erika può facilmente appropriarsi delle chiavi e perciò ottenere lo strumento che consente a lei e a Thymian la fuga verso la libertà. Anche qui la camera segue con un ritmo sincopato lo svilupparsi della scena, la lenta presa di coscienza delle ragazze che dopo un primo momento di stupore trasformano il gesto di insubordinazione di Thymian nella premessa per un gioco di libertà, restituendo almeno in parte quella violenza che ogni giorno viene riversata su di loro. In quel breve momento, fra le mura di quella tetra casa di correzione, la logica della sottomissione, che sembra governare l’intera esistenza della donna, viene sconfitta e pare innalzarsi un grido di liberazione.
Il terzo nucleo tematico è sicuramente rappresentato dalle lunghe scene che descrivono la vita nel bar “Ai 2 angeli”, ovvero nel casa di tolleranza dove Thymian risiede per alcuni anni. Proprio rifacendosi a queste scene qualche critico ha parlato di rappresentazione particolarmente efficace di quello spirito decadente e laido che caratterizzava l’uomo weimariano. Si tratta di una lettura che forse perde di vista quella che è la caratteristica di tutta la società europea, al di là delle sue peculiarità locali, in quel lungo periodo che va dall’affermarsi dell’imperialismo nella seconda metà del XIX secolo fino agli anni trenta. Forse nella Germania degli anni post bellici è emerso con maggiore evidenza il conflitto fra una società organizzata sul primato del maschio, che gode di ogni libertà non esclusa quella sessuale, e una donna che invece deve sottostare a ben precise regole, a una serie di norme a cui spesso le giovani che sono cresciute o hanno vissuto l’esperienza bellica non riescono più a sottomettersi. Qui ha facile gioco proprio la personalità della Brooks che infonde nella recitazione tutta la sua natura di giovane donna ribelle, disinibita, sessualmente emancipata e capace di mostrare questa varietà di sentimenti senza alcuna remora. Insomma, le scene nella casa di tolleranza sono davvero un altro momento capitale del film.
Infine altrettanto memorabile è il blocco di scene che ha il suo acme in quella finale quando Thymian, divenuta contessa Osdorff, ha la possibilità di entrare nella casa di correzione dove era stata reclusa (soprattutto da 102’ fino alla scena finale). Qui la macchina da presa torna a muoversi con estrema lentezza per dare risalto al volto dei vari personaggi, Thymian, Erika, gli altri esponenti del comitato di gestione della casa di correzione e infine il volto memorabile del conte Osdorff. Si tratta di un vero momento da antologia. Basti pensare agli sguardi di Erika che si ribella e di Thymian che riesce a esprimere una gamma di sentimenti che vanno dal risentimento fino a un senso di assoluta superiorità rispetto alla ipocrisia degli altri membri del comitato. Proprio al conte Osdorff è lasciata l’inquadratura finale e la frase memorabile che abbiamo scelto come esergo di questa scheda.
Il diario di una donna perduta ci riserva un finale felice. Thymian si è salvata dal destino di “donna perduta” e ha salvato anche la sua amica Erika. Felice ma non troppo. In fondo, pur con un tocco tendenzialmente lieve, il regista sembra voler invitare lo spettatore a ragionare intorno alle miserie che caratterizzano l’intera struttura della società borghese, i suoi falsi valori, la sua ipocrisia, l’autoritarismo aggressivo e violento che la caratterizza, quell’elemento di thanatos che sembra aleggiare sull’intera società europea, e in particolar luogo quella tedesca, dopo la conclusione della Grande Guerra.
Una notazione. Proprio il destino di queste pellicole ha fatto sì che anche le didascalie abbiano subito mutamenti significativi da una versione all’altra. In un’altra critica mi è capitato di leggere che il conte avrebbe detto: “Solo la disciplina e niente amore non possono salvare il mondo”. Si tratta di una lettura che tende a dare una interpretazione forte ed eccessivamente “politica” di quella che alla fine resta una commedia. Certo, vedendolo con i nostri occhi, che hanno conosciuto le nefandezze del regime nazista, si può forse credere che Pabst intuisse quello che poteva essere il destino successivo della Germania, ma non abbiamo prove indubitabili che fosse così. La didascalia tedesca dice: “Ein Wenig mehr liebe und niemand kann verloren sein auf dieser welt” ovvero letteralmente: “Un po’ più di amore e nessuno può essere perso in questo mondo”, avvalorando la nostra versione.
Due brevi glosse per terminare, che forse possono servire per meglio comprendere la tragedia del cinema tedesco dopo il 1933. Edith Meinhard, che nel film abbiamo visto interpretare Erika, continua la sua attività senza mai superare ruoli di contorno nella cinematografia del regime nazista. Scompare, senza che di lei rimanga traccia, durante i bombardamenti che segnano la caduta di Berlino nella primavera del 1945.
Kurt Gerron, che interpreta nel film il dottor Vitalis, di famiglia ebrea, pur avendo combattuto durante la prima Guerra mondiale meritandosi una croce di ferro di seconda classe, con l’avvento del nazismo è costretto ad andare in esilio prima in Francia poi in Olanda. Qui nel 1943 viene preso prigioniero e inizia il suo calvario nel mondo dei lager. Finisce fra l’altro a Theresienstadt dove è costretto a dirigere un film di propaganda: Thereisenstadt. Ein Dokumentarfilm aus dem judischen Siedlungsgebiet (in Italiano Terezin: un documentario sul reinsediamento degli ebrei). Finite le riprese nel novembre dello stesso anno, 1944, è trasferito ad Auschwitz dove viene subito ucciso.
L’INTERPRETAZIONE DI KRACAUER
Kracauer parte sottolineando la derivazione del film da un romanzo di Margarete Böhme “molto popolare fra i filistei di quella generazione per la franchezza leggermente pornografica con cui viene narrata la vita privata di alcune prostitute”.
Poi continua: “Tymian, l’intraprendente figlia di un farmacista un po’ scemo. Sedotta dall’assistente del padre, un cattivo …, si avvia per una carriera che la porta diritto diritto al bordello. Pabst si sofferma sull’immoralità dell’ambiente borghese da cui la ragazza proviene, tanto che il bordello finisce con il sembrare un luogo di villeggiatura… Qui come nei film della strada la prostituta dal cuor d’oro è un atto d’accusa contro la decadenza borghese. Ma a che scopo? Indifferente, pare, ai possibili sottintesi della sua critica, Pabst si dilunga sul tema della decadenza. Che egli sia conscio dell’affinità di questa col sadismo, risulta dallo straordinario episodio del riformatorio…”.
Poi Kracauer analizza la scena e aggiunge: “Il suo comportamento (dell’istitutrice ndr) ricorda quello dell’ufficiale zarista in La fine di Pietroburgo (1927) il quale guarda con voluttà il subalterno che picchia un rivoluzionario catturato. Come Pudovkin, Pabst riconosce quale parte abbia il sesso in una determinata situazione sociale (S. Kracauer,Cinema tedesco, Mondadori, 1977, pag. 186).
Il prossimo film di cui vi suggerisco la visione, la cui scheda uscirà il 30 settembre, è:
Lulu. Il vaso di Pandora di G. W. Pabst.
Come si diceva una volta:
“Buona visione”.
ho letto attentamente questa recensione di un film che mi aveva sempre interessato fin dalla giovinezza e che sfortunatamente non mi è mai stato possibile vedere.
Grazie per le spiegazioni molto esaurienti.
…ho potuto vedere il film su youtube…veramente bello: ringrazio Giulio Toffoli per la segnalazione e per la completa scheda di presentazione