di Ennio Abate
Queste tre poesie hanno per tema il legame profondo con un amico meridionale, insegnante, poeta e compagno. Alludono a argomenti presenti nelle conversazioni con lui (e sua moglie Franca) in quegli anni. Stabiliscono analogie immaginarie con un autore (Galeazzo di Tarsia), da lui amato e studiato. Ruminano sui non detti delle conversazioni che avemmo allora. Scavano nelle tensioni sull’amicizia, che la malattia – ambigua sorellastra, non si sa se più della storia o della natura – produce nei corpi e nelle menti, incalzandoci con la paura dalla morte. La terza poesia è accompagnata dal dettaglio di un mio disegno, del 1990, a carboncino, dove mi era parso e ancora mi pare fossero venuti fuori i tratti del volto sofferente di Eugenio, avvolto in un nero psichico mortuario, che in quegli stessi anni, per altri motivi, pesava anche su di me (perciò il titolo). Per questa pubblicazione ho appena ritoccato in qualche punto i testi, tratti dal mio Diario. Seguirà un mio ricordo di Grandinetti in prosa, che forse chiarirà meglio il contesto quotidiano e storico in cui i versi nacquero. [E. A.]
1983. Su Galeazzo di Tarsia
Ci voleva schivare ci schiva il barone e poeta calabrese feudatario per poco tempo vissuto nel raccoglimento intento alla opera sua e poco desideroso di tramandare il suo nome alle genti future. Ma tremola d’inesattezze la sua biografia come quella dell'amico calabrese che ne indagò la poesia e me lo nominò per primo fingendo vano l’oltraggio dei secoli. Solo in rebus s'è offerto agli estensori di righe lineari ai biografi a me che pedino la possibile fratellanza di tutti e tre irretiti in amori e intrighi provinciali maschere d’una scissione piccoli Giani d'un Sud qualsiasi. Vivemmo spasimi? E tiranneggiamo pure? (1983/2019)
1989. Una visita
D'estate l'appartamento l'avevano ripulito i ladri. No i libri no. Oggetti sì. Cosa mi porta da loro? E perché fargli un resoconto preciso di come va a me agli amici comuni? Loro mi dicono sempre poco. Hanno meno da dirmi perché s'è sedata di più la loro vita? No, avrebbero tanto da dirmi dei nipoti alla bocconi e di quello laureato in medicina con centodieci. Entreremmo in urto, però. No, non lì, mentre parliamo ma nel serbatoio dei pensieri che ognuno da solo già rimesta mentre la voce ancora s'adagia nel discorso. E lei? Eh, lei l'ho archiviata nel pezzo di dolore e di corpo e di mente. Proprio come tuo marito ha archiviato la macellazione chirurgica del suo polmone malato. E, sì, lei era vitale, un polmone. Ma sempre sempre alla foce languente del fiume prima di salutarsi la conversazione trasporta fuscelli. Stavolta una domanda culturale "Chi era il fornaretto di Venezia?". Per cui si scartabellano enciclopediole e alla fine s'apre una pista d'accostamento "epigoni del romanticismo, feuilletton come "la cieca di Sorrento". E possiamo chiudere la porta e sparire nell'ascensore. (1989/2019)
21 ottobre 1989. Due amiche malattie
amico mio/ cancro che mi rimproveri/ e ti sottrai/ al balbettio/ che impaccio/ che disonore/ vederti sempre più amico della tua malattia/ e diplomatico nemico della mia/ che ti chiama/ incorporea voce telefonica/ adesso/ ed hai chiuso così/ con la mia/ la nostra/ malattia/ per bendarti nella tua/ solo tua/ accucciato nella tana uterina/ a raspare le macerie del mondo/ quasi senza più speranza/ dico/ di nominarlo/ e m'inviti/"quando vuoi/ sai che mi fai sempre piacere"/ ma dopo quel nostro accostare le guance e spiare il languore che cala negli sguardi/ e l'assenza che m'invii?/ sotto la spessa coperta di un silenzio/ che ti assonna/ che mi nega/ seguo la svestizione serale del tuo spirito/ solo vegliarti/ dunque/ posso/ non più svegliarti/ dall'angoscia del tuo corpo inerme non è visita più/ non telefonata/ è l'ascolto in ciascuna solitudine d'un silenzio vuoto/ che ci ha già spezzato le voci/ non è la stretta di mano/ ma il passato vano/ impronunciabile ormai nel falso luogo del noi/ lì ascoltiamo la morte/ (1989/2019)
..queste poesie di Ennio Abate mi sembrano esprimere bene la complessità dell’ animo umano pur in un rapporto di amicizia tra due conterranei consolidato nel tempo da una forte comunanza di idee e interessi. In apparenza e loro malgrado, i due amici poeti arrivano a veder vanificare sforzi di avvicinamento a livello più profondo, credo loro malgrado…Nella poesia “Una visita”, dove si ricorda un incontro degli stessi nella sfera familiare, l’intento di trovare un’intesa superiore e una scioltezza di rapporto sembra naufragare nell’avvicendarsi di discorsi banali che allontanano e camuffano un “non detto” difficile a chiarirsi, come per un ingorgo di pensieri: “Ma sempre/ sempre alla foce languente di un fiume/ prima di salutarsi, la conversazione trasporta fuscelli”…Ancor di più, credo, nella poesia”Le due amiche malattie” sembra scavarsi un solco di incomprensione tra i due amici, le cui malattie richiedono un’attenzione assoluta e nessuno dei due è disposto a darla all’altro…Come due zoppi che, per camminare, si vorrebbero sostenere a vicenda?…Ma a sostenere nel tempo l’amicizia, loro malgrado tanto profonda, viene dalla poesia “Su Galeazzo di Tarsia”, un poeta del 1500 che sembra legare idealmente, in una stretta di grande affinità e simpatia, i due poeti contemporanei…Non importa se è stata scritta prima, si tratta di una silloge fuori dal tempo dove non si perde mai l’ultima occasione…Quest’ultima (prima?) poesia mi ha ricordato, per profondità e leggerezza, il sonetto di Dante per gli amici Guido Cavalcanti e Lapo Gianni: “Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io…”