Il primo allenamento

di Francesco Luti

Dieci sfibranti minuti in sosta al capolinea. Era la prima volta che raggiungeva quella parte di città in bus e non si aspettava che il capolinea fosse proprio lí. Con le arcate del cimitero ad alitargli in faccia, l’attesa era un martirio. E a poco serviva distogliere lo sguardo dalla recinzione in ferro battuto, deviarlo ai germogli secchi che con le piccole pigne di cipresso intappetavano il selciato.

Da sette mesi, a cinquanta passi da lì, incisi su una lapide c’erano nome e cognome di suo padre. Quel febbraio aveva sancito il punto finale di un capitolo della sua esistenza; e, ora, non appena l’autista avesse esaurito la sigaretta e riavviato il motore, ne sarebbe cominciato un altro.

Un paio di chilometri lo separavano dalla fermata da cui, a piedi, avrebbe raggiunto gli impianti di quella che, tre giorni prima con la firma del cartellino, era divenuta la sua nuova società calcistica. Era il suo desiderio più forte poterci un giorno approdare, eppure ora che quel momento stava per compiersi, ciò lo turbava e avrebbe voluto gli fosse capitato in altra epoca ma pur sempre dentro i suoi tredici anni. Tante volte aveva rivelato al padre il voler tentare l’avventura nel calcio.

E ora, la consunzione della cicca dell’autista era il dazio da assolvere al cimitero. Il riflesso del finestrino gli restituiva la propria immagine abbronzata e inselvatichita dal mese trascorso coi fratelli al mare nella prima estate senza il genitore. C’era riuscita la madre ad alleviargli il gravame d’una assenza che come un gong avrebbero udito in eterno. In primavera c’era stato anche il suo compleanno, e come se non fosse bastato, due giorni dopo quello del padre. E tutto era accaduto di per sé a confondere giorni e pensieri.

Sul ciglio di casa la madre non aveva insistito nel proporgli di accompagnarlo in auto. Si era offerta pur conoscendo la risposta del figlio. Il pallone costituiva una sfera a cui non era ammessa. Voleva andarci da solo all’appuntamento, nonostante intuisse che gli altri coetanei sarebbero stati accompagnati dai genitori. Chi erano? C’era forse qualcuno nuovo come lui? Da dove provenivano? Forse da altre province e non soltanto dal quartiere o da quelli confinanti come avveniva alla sua ex società. Era consapevole che approdare lì avrebbe significato imparare sì da ottimi allenatori, ma soprattutto confrontarsi oltre l’orizzonte del quartiere.

Durante il tragitto, con quello stato d’animo non battezzabile, si era costretto a credere che forse quell’inquietudine c’entrasse con l’aver lasciato i vecchi compagni, come stava suggerendogli una piega del pensiero, benché li avrebbe rivisti in giro per il quartiere. Si rianimò ricordando il campo d’erba che la società poteva vantare, e che conosceva perché certe domeniche consacrate al pallone ci si era recato coi genitori per trascorrere qualche ora con amici che frequentavano la parrocchia antistante. Dopo la messa, per lui e i fratelli arrivava il premio di sfogarsi sul campetto adibito agli allenamenti. Lo stesso in cui aveva disputato alcuni campionati giovanili Paolo Rossi, che l’estate precedente era stato il goleador dei mondiali in Spagna. Quel Mundial che la famiglia intera aveva seguito dal televisore a colori acquistato per l’occasione.

Al chiuso del bus antivedeva ciò che sarebbe potuto succedere di lì a qualche ora. Che avrebbero liberato i palloni dalla sacca, e che si sarebbe destreggiato senza dover esibire le virtù di colpo. Al campetto polveroso del mare, tranne le domeniche, aveva giocato tutti i pomeriggi certo che al rientro si sarebbe incorporato nella nuova società. Stava attento a non farsi male, e al contempo considerava quelle partitelle un anticipo di preparazione. Sapeva di essere migliorato nel tempismo e nelle triangolazioni di prima, necessarie a preservarlo dal contatto dei difensori, svantaggiante per un’ala esile come lui. In quel senso era pronto al salto di categoria dal campionato provinciale al regionale, e a formare parte di un gruppo che tre mesi prima aveva disputato le semifinali nazionali.

La sosta al capolinea aveva resuscitato il ricordo del padre. Per non crollare provò a ripensare alla sera precedente, a quando l’amico Michele gli aveva rinfacciato che non avrebbe più avuto il partner d’assist per il suo colpo di testa. Michele stava per dire “fatto orfano”, ma riuscì a farsi morire in bocca la parola consapevole che avrebbe risvegliato una nota mesta nell’amico. Invece, quelle parole affettuose pronunziate con un sorriso vispo gli giunsero come una brezza confortante.

Dall’orologio apprese di essere giunto con generoso anticipo. Scese a sgranchirsi le gambe e chiese all’autista quando sarebbe ripartita la vettura successiva e gli fu risposto che ogni mezz’ora ce n’era una, e che con l’imminente riapertura delle scuole la frequenza sarebbe aumentata. La parola scuola gli rammentò che tra una settimana toccava debuttare alle Superiori con tanto di cambio topografico: dal quartiere alle porte del centro della città. Al rientro dal mare, con sua madre si erano recati in segreteria per iscriversi. Poi, una volta nell’abitacolo della 126, si era sentito investito di una responsabilità inedita e pressante, l’ennesima degli ultimi convulsi mesi. Ragionando delle materie scientifiche le promise che ci avrebbe provato ma che si prospettavano le più ardue. La madre lo tranquillizzò con parole suadenti e aggiunse che, in tal caso, gli avrebbe fatto prendere lezioni private; e prima di cambiare argomento, gli confessò che, in fondo, loro, erano più versati per le lettere. E glielo disse con un sorriso, e quel sorriso rammentò mentre ringraziava l’autista per le informazioni.

I minuti di sosta erano divenuti eterni. Calcolò che aveva oltre un’ora dalla sua e prese a camminare nel senso opposto a quello di marcia del bus. Imboccò una strada che saliva e subito apparvero i muri a secco sulle cui cime rifulgevano cocci di bottiglia. Si sentiva liberato dell’ombra del cimitero, e mentre avanzava frugava in sé alla ricerca di un rinnovato sentimento con cui fronteggiare il suo disagio. Avrebbe voluto la testa sgombra per rievocare la voce di suo padre come a benedire quel primo allenamento; ma schiamazzi acquatici di adolescenti impegnati in piscina oltre i muri lo fecero desistere. Ci avrebbe provato poi, negli anni, a invocare quel miracolo, ma sempre senza vederlo compiersi. In compenso, certe mattine, nel radersi, gli era parso di riscoprire allo specchio qualcosa che ricordava essere appartenuto al genitore, non solo in termini fisionomici, ma anche in gesti o espressioni involontarie.

Quel pomeriggio di settembre era arrivato dove la via asfaltata si diramava in sentieri campestri e optò per quello più in ombra. L’orario gli si manteneva favorevole, se ne sincerò, poi infilò un viottolo i cui bordi di fango indurito si sbriciolavano al passo.

Poco dopo, dalla vegetazione sorse un casolare. Si avvicinò fino ad arrestarsi quando gli apparve la cancellata rugginosa che lo cintava. Aveva l’aspetto di una colonica e gli si presentava di lato. Le persiane erano sigillate e alcuni listelli pencolavano. Al pianterreno, ammontonate sotto un bersò di rampicanti, casse di minerale coi vuoti a rendere e adiacente, come un bassorilievo di granito, una minuscola anziana a riposo con le gambe su distese su una sedia. La vestaglia gliele copriva fino alle caviglie, poi spuntavano i piedi simili a tartarughe. Le mani, una sull’altra, reggevano il rosario. I capelli turchini, gli occhiali scuri, un bastone pieghevole e una brocca completavano il quadro. Non si muoveva di un millimetro.

In quell’atmosfera ipnotica dove sole e ombra si disputavano il primato, lo investì una melodia. Da dietro le frasche, spaziando la vista colse una vasca da bagno smaltata di bianco che occupava l’aia circostante come un vascello alla deriva. Poi raggiunse con circospezione il tronco di un castagno, scese la borsa di spalla, si aggattò e finalmente udì note e parole della canzone, ma senza riconoscerle. Dall’estremità della vasca che gli si offriva distinse un cappello di paglia che ne era il coronamento. Non ebbe il tempo di immaginare altro che, come un’emersione di balena, il cappello s’impennò rivelando un nudo di donna.

Gli si mostrava di spalle, con le braccia a croce, e l’acqua prese a scivolarle dalle punta delle dita per gocciolare via dalle ascelle. Rimase così qualche secondo, poi, con passo sordo, scomparì nel capanno prospiciente per riapparire subito reggendo una sdraio.

Li dividevano una quindicina di metri. Acquattato com’era, non poteva essere visto mentre lei disponeva la sdraio nell’unico spicchio di sole che riusciva a imporsi nell’aia.

Ancora umida e lucente la ragazza si distese risaltando una siluette con la giusta proporzione in carne, come le figure femminili che bazzicavano le prime fantasie osé di quell’unico spettatore. A scatti, lei volgeva un’occhiata all’anziana che pareva dipinta sul muro come un graffito. E lui non schiodò lo sguardo da quel petto inquieto d’alabastro che ballava monoblocco. Il compasso di gambe tornite, il ventre piatto e i capelli bruni a contrastare l’incarnato pallido di chi poco si era concesso al sole d’estate.

Fece scattare il bracciolo per sistemare lo schienale, raccolse da terra una rivista, flesse le gambe e puntò i piedi all’estremità della sdraio. Lui deglutì mezzo centimetro di saliva con difficoltà come fosse un rospo di un chilo. Tra il compasso di gambe divaricate, un folto cespo riluceva come ci avessero svuotato un cartuccio d’inchiostro. Il ragazzino fece assegnamento su quel briciolo di sangue freddo che possedeva e inghiottì di nuovo. Cercò di controllarsi inspirando, e consultò ancora l’orologio.

Non si era mai trovato a tu per tu così con una donna. Il cono di luce da cui traspariva la figura gli permise di concentrarsi su quel nido nero da cui, beffardo, s’intravedeva un accenno di rosa. La ragazza aveva assunto un’espressione dormiente e una leggera smorfia le increspava le labbra. In quell’atmosfera anestetizzata credette si fosse addormentata, ma si smentì quando la vide accingersi a sfogliare un fotoromanzo. Ora la rivista costituiva l’ultima delle sue preoccupazioni mentre si beava a guardare l’alveo del pube, come non l’aveva mai visto e neppure mai immaginato. Sì, al mare, qualche rara volta gli era capitato di spiare qualche malcapitata coetanea che si cambiava il costume in cabina. Ma da quel forellino, dalla penombra a mala pena s’intravedeva un’esibizione epidermica imberbe. Ora era diverso, e il suo cuore tambureggiante glielo confermava.

Col tempo, rimuginando al vissuto di quel pomeriggio, ne avrebbe rivisto come al microscopio la vivezza dei dettagli. E in coda, sempre una rugiada di rimpianto per non aver agito diversamente. Mai a nessuno rivelò quell’incontro inaspettato, e solo per sé si dilettò a ricordare l’epifania voluttuosa di quei venti minuti estatici, con la magra consolazione che in quell’aria rotta appena dal ronzio di qualche insetto, aveva mantenuto un riguardoso aplomb nonostante il suo epicentro si fosse inturgidito.

In quella convulsione di sentimenti contrari aveva risolto di recarsi all’allenamento. Nel tragitto verso il bus ripensò ai suoi tredici anni frugandovi qualche accadimento rilevante, e capire se fosse mai dipeso dalla sua volontà, ma non riusciva a riesumarne nessuno. Vedeva la sua vita come una lunga autostrada sul futuro, e si promise che avrebbe dovuto incidervi in qualche maniera.

Ormai era giunto al capolinea. L’autobus era in moto e salì. Anche il cimitero sembrava sparito per magia, ma non il dolce volto di suo padre. In fase di manovra l’autista frenò di colpo per lo sfrecciare di una moto. Aggranchiato al centauro, con la schiena gravata dalla borsa da calcio, un ragazzino che immaginò coetaneo.

Cinque minuti dopo s’incamminava per l’erta diretto al centro sportivo. Ai bordi della strada le villette unifamiliari in via di costruzione parevano scortarlo. Riconobbe il campanile della chiesa ai cui piedi il campo principale si srotolava, e sperò che quel primo allenamento potesse svolgersi proprio su quel manto verde.

Nei pressi del cancello con l’insegna della società sportiva, s’infittivano gli andirivieni dei ragazzini con accompagnatori al seguito. Ormai c’era, e un lieve tremore gli percosse le ginocchia. Levò la faccia umida al vento con un respiro profondo e nel soffiar via l’aria calciò la prima pietra che faceva inciampo che s’infilò sorda tra i ciuffi d’erba dell’ultimo appezzamento ancora da lottizzare.

1 pensiero su “Il primo allenamento

  1. un racconto molto gradevole di un’ esperienza di adolescente in fase di lutto per il padre, di velleità calcistiche e con la scoperta di una giovane ragazza nuda al sole, dopo il bagno contadino. Ben scritto
    Pavesiano.

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