di Alessandro Franci
Quando il pallone comparve sopra le teste dei miei compagni ondeggianti in una fila asimmetrica, per un istante luccicò contro il cielo metallico; si giocava alle nove della domenica, in campi senza erba, gialli e secchi o melmosi per la pioggia. Feci appena in tempo a vederne il bagliore che divenne subito scuro, come una sfera sfrangiata marrone compatto che si abbassò all’improvviso verso di me. Non avevo neppure sentito il fischio dell’arbitro e quando il “sette” calciò, lo capii dal tonfo sordo del suo piede sinistro sul cuoio liso. Il sogno a occhi aperti, covato più di una volta quella domenica e in tante altre precedenti, di un tuffo spettacolare, svanì in un attimo. Quello aveva calciato con una tale forza che quando vidi arrivare quell’ammasso nero dritto in faccia, mi riparai il viso e chiusi gli occhi istintivamente. Il pallone strisciò sui pugni tesi e s’impennò in aria oltrepassando la traversa, fui colpito sul viso soltanto da rimasugli di terra come fossero schegge. La sabbia aderente alla superficie di cuoio, sulla pelle, fu come carta abrasiva, tanto che comparvero alcuni puntini rossi sulle nocche bianche per il gelo. Raramente ci davano i guanti che rappresentavano come una sorta di status symbol, un diritto dei più bravi, quei portieri ai quali erano riconosciute qualità speciali. Io invece ero stato chiamato solo all’ultimo momento perché il portiere degli juniores aveva avuto un incidente in motorino.
Per alcuni giorni, il pomeriggio dopo la scuola, andai al campo; l’allenatore voleva capire se potevo farcela contro i ragazzi più grandi. Mi gettavo su uno strato appiccicoso di melma abbracciando il pallone viscido, oppure saltavo cercando di agguantarlo o spingerlo via smanacciando con forza. I tiri arrivavano da ogni direzione, dai compagni di squadra e dallo stesso allenatore, un uomo alto e robusto che gridava di continuo contro chiunque e, se non parlava, fischiettava stonato “All together now” dei Beatles. Non ero abituato a quei tiri così violenti e quando il pallone mi colpiva provavo dolore ma fingevo che tutto andasse bene. Passai l’esame e la domenica esordii contro la prima in classifica.
Quando arrivai in una luce argentea accompagnato da mio padre erano circa le otto e non sapevo neppure contro quale squadra avrei fatto il mio esordio. Non si sapeva nulla, non ci dicevano niente. sulla porta degli spogliatoi qualcuno appendeva dei foglietti battuti a macchina con i nomi dei convocati, l’ora e il punto di ritrovo, oltre al nome della squadra avversaria. Io non conoscevo neppure i miei compagni, giocavo con quelli più piccoli e non mi sarei mai sognato di stare in mezzo a coloro che da tutti noi erano ritenuti quasi degli intoccabili.
Negli spogliatoi, i miei estranei compagni di squadra, non mi rivolgevano la parola, scherzavano fra loro, ridevano e di rado qualcuno mi lanciava un occhiata come si guarda un mendicante per strada.
L’odore dei corpi nudi, gli afrori degli aliti di tutti, si mischiavano al tanfo dello stanzone arredato con panche di legno scheggiato e sgangherati armadietti metallici. L’odore persistente dei nostri fiati e sudori, si alternava a quello delle muffe, dei muri con l’intonaco friabile e, dietro un muretto verde, nella penombra delle docce gocciolanti, con quello di acquitrini stagnanti, di saponi disciolti e di legno delle pedane intriso da antichi lavaggi. Guardavo quel movimento di corpi nudi contro le pareti ornate da scaglie di vernice penzolanti, immaginando che non avrei parato neppure un tiro. L’allenatore, estraendoli da un cesto, ci gettò, uno ciascuno, la maglia, i calzoncini e i calzettoni, fischiettando “All together now”. Mentre m’infilavo la maglia nera, strettissima, mi venne vicino Aldo il “quattro” e mi disse:
«Occhio eh … questi sono forti.»
Mi tirò un lieve pugno all’altezza dello sterno senza aggiungere altro, senza un sorriso, poi tornò nel gruppo dei suoi, saltando e facendo piegamenti di lato e in avanti.
In quel giorno grigio ancora non sapevo che quella punizione, parata più per autodifesa che per bravura, sarebbe stata l’ultima della mia carriera.
Quello del portiere è stato, però, un vero equivoco; quando giocavamo al campino dietro le case, nessuno voleva stare in porta e io, essendo il più piccolo, dovevo sottostare alle decisioni degli altri se volevo giocare e le loro decisioni erano chiare: il mio ruolo nelle squadre formate lì per lì, era quello del portiere. I pali delle porte immaginarie erano semplici canne piantate in terra, malferme, tenute su con dei sassi appoggiati alla base e quando le sfioravi si piegavano di lato oppure crollavano e allora dovevano essere piantate di nuovo. Non so quante volte mi fu concesso di giocare in attacco, quasi sempre me ne dovevo stare in mezzo a quelle due canne e cercare di fare di tutto per parare ogni pallone che mi arrivava. Fu così che si definì il mio ruolo, per caso, un’imposizione, tutto sommato accettata senza proteste. D’altronde se non volevo starmene solo tutto il giorno, quello mi sembrava l’unico modo. Gli altri, quelli più grandi, se non si organizzavano per una partita, si trovavano per misteriosi o comunque poco chiari riti a me rimasti per sempre sconosciuti. Semplice immaginarlo a distanza di tempo, ma allora non venivo mai invitato in quei raduni sconosciuti, lontani dai campi dietro le case, dove s’incontravano spesso nel tardo pomeriggio. Le poche altre alternative al calcio, piuttosto rare, erano quelle di schiacciare a colpi di fionda le lucertole sui rami degli ulivi, suonare i campanelli e poi scappare, fumare qualche sigaretta riparati dagli sguardi dei genitori, oppure spiare i comportamenti di chi, creduto nascosto alla nostra indiscrezione, si fermava con le ragazze dietro ripari di fortuna.
Il ruolo del portiere, però, aveva un vantaggio: il portiere, se il gioco è lontano, può pensare ai fatti suoi, fantasticare. Solo, distante dal gruppo, guardavo gli altri e pensavo. Questo lo scoprii però con il tempo, all’inizio non mi era mai neppure saltato in mente, guardavo i compagni dribblare e correre con una certa attenzione ma non con vero interesse; non mi piaceva giocare a calcio, era soltanto l’unico modo per stare in compagnia. Le poche alternative non mi avevano ancora suggerito di starmene da solo, cosa che avrei potuto fare ma che, anche questa, soltanto più tardi mi fu chiara.
Così la fantasia e con quella la distrazione, visto che spesso mi rendevo conto con ritardo che gli altri stavano attaccando, mi portava via da lì e mi poneva davanti una miriade di rivoli difficili da seguire, fluttuavano, si perdevano e si riunivano suscitandomi non poca confusione.
Spesso pensavo a Milena che, a volte, veniva fin dietro le case a vederci giocare, o almeno lo pensavo io allora, ma Milena più che noi veniva a vedere Daniele, l’ala destra. Sì d’altronde Daniele era il più grande di tutti, il più bello sicuramente e, su questo, si può dire che il parere fosse unanime. Sempre pettinato con i capelli lunghi sul collo, lo sguardo fiero, il busto eretto e asciutto da vero atleta, un fare carismatico. Le sigarette le portava in tasca, non le nascondeva come noi, aveva il motorino rosso, sempre pulito e in ordine, sorridente, un sorriso contenuto in una sua tristezza particolare, calmo, sicuro e, probabilmente anche per questo sembrava che tutto gli girasse bene, sembrava privo di ostacoli, di imprevisti.
Si sapeva che lui con Milena ci aveva provato e, come lui stesso aveva detto, ci era riuscito, anzi a come ne parlò un pomeriggio proprio lì al campino, fu una cosa facilissima, naturale. Disse che lei sembrava non aspettasse altro e nessuno di noi si meravigliò visto il tipo; era chiaro a tutti che a lui le ragazze non avrebbero mai detto di no, o almeno sembrava ci convenisse pensarlo, anche perché se avessero detto di no a lui, noi saremmo stati spacciati per tutto il resto della vita. Per quello che si sapeva, che insomma si diceva in giro, con Milena ci avevano provato in molti e, sempre per quello che si diceva in giro, quasi tutti ci erano riusciti. Daniele però la fece molto semplice; disse che erano stati fino al fiume e che lei quando erano li si era abbandonata come morta sull’erba, quindi lui si era divertito quanto aveva potuto divertirsi e raccontò che quando le aveva sfilato le mutandine gli veniva da ridere per quella macchia più scura proprio lì davanti come se se la fosse fatta addosso, e ci disse, scherzando, che erano davvero carine con la trina ai bordi e con quella macchia gialla. Lo stupore nostro per il racconto dettagliato dello sfilamento degli indumenti, uno stupore muto e sognante, si trasformò poi in una risata, iniziata da Daniele, il quale voleva sottolineare la comicità di quella sua scoperta.
Nelle mie fantasie, in mezzo a quelle due canne piantate malamente, immaginavo che Milena neppure si fosse accorta di me che me ne stavo lì un po’ defilato pensando a lei.
Non le avrei mai sfilato le mutandine ridendo per quella chiazza di urina nascosta tra i pizzi. Neppure, fantasticando, avrei potuto ammirare il culo di quella di terza “C” e le poppe della sua amica. Erano fantasie indotte da racconti frammentati, percepiti da un vago colloquio carpito appena, fra Daniele e i suoi amici, fluttuante in un mistero di gesti e di parole ancora da svelare, che, tra le canne piantate malamente, a volte mi assaliva subdolo e insistente, in un profumo di ortiche, rovi acuminati e terra umida che circondava la mia postazione: un avamposto verso un tempo ancora sconosciuto.
Fu proprio Daniele a portarmi nella squadra dove anche lui giocava, ma fui inserito in quella dei più giovani, naturalmente in porta e per tutto l’anno giocai con i ragazzi sempre nello stesso modo, cioè fantasticando, pensando ai fatti miei, anche in mezzo ai pali di una porta vera, enorme, alta, quasi un luogo estraneo, uno spazio smisurato affidato incautamente alla mia tutela. Così andò avanti fino a quella domenica mattina, quando fui convocato in sostituzione del portiere titolare. La domenica successiva non giocai, ma rimasi in panchina tutto il tempo; venne un altro portiere più bravo ed esperto di me, infatti aveva i guanti e i calzoncini imbottiti. Dopo poco finì il campionato e la mia carriera di portiere.
Davvero assai vivo, intenso, movimentato (e in parte anche “erotico”) questo sportivo racconto dell’amico Alessandro.
Grazie per questo bell’invio e davvero complimenti all’autore e alla rivista che l’ha pubblicato.
Un caro augurio e saluto da
Mariella Bettarini
Grazie cara Mariella
Grazie a te, caro Alessandro
Alessandro, ancora un racconto di ragazzi mentre passano i pomeriggi giocando, adesso in un campo di calcio, altre volte in una campagna abbandonata. Un ragazzino che si trova a vivere le prime inquietudini di adolescente nei rapporti con gli altri del gruppo. Sempre raccontato con delicatezza ma anche andando nella profondità dell’animo.
Grazie Isabella