di Ennio Abate e Marina Massenz
In occasione della presentazione dell’ultima raccolta poetica di Marina Massenz (Milano 5 giugno 2018, Libreria Popolare di Via Tadino) lessi dei troppo veloci e frammentari appunti su questi suoi nuovi testi. Citandone brani, parlai di: un io allarmato che si osserva e registra; toni sincopati; tendenza a una sintassi “compressa”; ritualità impersonale per la frequenza di verbi all’infinito; rimandi a mondi chiusi e coatti; esaurimento, abbandono e desolazione come sottopensiero delle immagini (più spesso di animali che di uomini). Successivamente quegli appunti li mandai a Marina, che replicò, precisò, puntualizzò. Ne nacque uno scambio di mail tra noi che toccò alcuni temi più generali di poetica . Pubblico ora una sintesi della nostra discussione. Al di là dei punti in cui divergiamo o poniamo accenti diversi sulle questioni toccate, abbiamo una comune convinzione: un rinnovamento dei discorsi sulla poesia passa anche attraverso confronti schietti come questo. [E. A.]
1. Liricità/autobiografismo
Ennio:
Non sento ostilità verso la lirica e chi ancora oggi usa l’io in poesia. Semmai sono sospettoso verso chi la denigra o facilmente si atteggia a “superatore” dell’io. Troppi, astratti e sbrigativi sono i proclami a liberarsene e mai mi hanno convinto. Di cosa, infatti, può parlare, se non di sé, un poeta o uno che in poesia inizia a cercarsi e a cercare, specie se vive situazioni esistenziali pesanti? L’autobiografismo in molti casi mi pare un pedaggio obbligato. E va forse sullo sfondo solo se e quando nella storia s’impongono le tragedie invece che la più comune (almeno in Occidente) commedia umana. Non sempre, insomma, esistono le condizioni per «parlare a tutti» o «essere per tutti». E sinceramente, quando la spinta a parlare di sé è comunque intensa ed è quella che il singolo sente ( o subisce), preferisco un autobiografismo dichiarato che mascherato. Né, come scrittore, esci dai limiti dell’io o dell’autobiografismo – perché limiti sono da un punto di vista diverso (letterario, politico, filosofico) – soltanto perché, ad esempio, ti imponi di usare volontaristicamente la terza persona. Certo, di fronte ad un esibizionista compiaciuto, chiacchierone e fanfarone, la voglia di zittirlo è forte. Ma se sei di fronte a uno murato nel silenzio o balbettante per difficoltà reali (di qualsiasi tipo), come non incoraggiarlo a parlare anche se il suo fosse il balbettio smozzicato dell’io? Meglio i tentativi di mettere a nudo il proprio io o il proprio “cuore” che niente. Poi col tempo si capirà se si tratta di finzione autocompiaciuta e incontrollata o di altro. Secondo me, l’io non deve farsi azzittire dal noi. Come, d’altra parte, il noi non può o deve farsi azzittire dall’io. Credo ancora possibile una (oggi sempre più difficile) dialettica tra le due dimensioni, dell’io e del noi. (Se vogliamo delle due “maschere” sempre provvisorie e cangianti di cui disponiamo). Specie in questa fase di confusione o – si spera – di “transizione”, presterei massima attenzione alle posizioni ibride, che chiamerei degli *io/noi* o dei *noi/io*. E non rifiuterei neppure gli estremismi dell’io e del noi, quando motivati: un io lirico ridotto in prigione o perseguitato da un noi ottuso, come accadde a Mandelštam, perché dovrebbe tacere? E si può non provare simpatia verso un noi svillaneggiato o disprezzato da certi Io/dittatori? Ritengo, perciò, semplicistico pensare che il non parlare di sé garantisca un discorso poetico più autentico o necessario o alto. Come se autenticità, necessità, qualità fossero – ripeto – garantite puntando unilateralmente o esclusivamente sull’io o sul noi o sull’impersonalità. A stabilirne un certo grado di autenticità (e mai con assoluta certezza) può essere un pensiero aperto, inclusivo e soprattutto capace di leggere con intelligenza il contesto storico in cui le attuali e caotiche esperienze poetiche avvengono. Del lettore (persino del singolo lettore, se – come pare – le comunità critiche sono venute meno o non possono essere ricostruite in tempi brevi). Di gruppi di lettori (se la comunità, il noi, un certo noi, ha saputo resistere o ricostituirsi).
Marina:
Tu, Ennio, scrivi: “É una difficile dialettica tra le due dimensioni, io e noi. Tenderei a raccogliere, perciò, specie in questa fase di confusione o “transizione”, le manifestazioni degli *io/noi* o dei *noi/io*. E non rifiuto neppure gli estremismi dell’io e del noi, quando motivati … “
Certo, i casi estremi che citi necessitano che si parli nettamente di io e no – i tu assassino, io vittima – o viceversa. E tenderei anche io ad accogliere sia l’io che il noi – specie in una fase storica come questa densa di sofferenze, ma anche di confusioni che stordiscono – quindi non ne faccio una questione di principio né penso che l’autenticità sia meglio veicolata in una forma o nell’altra. Questa è un’altra questione; la chiamerei la “questione della verità” che però è complessa e renderebbe necessario un discorso specifico e approfondito che in questa nostra discussione tralascerei per brevità necessaria del testo, rimandandola magari ad un successivo discorso.
Qui, invece, stiamo dunque parlando di scelte personali; nella mia poesia spesso metto l’io sottotraccia e uso forme più impersonali o un noi che allude a vissuti più generali – anche se concorderei con te quando dici che il vissuto personale è un tessuto che sempre trapela. Tuttavia in molti miei testi l’io si espone in prima persona, come in “Coniglietto mio” :
“…. Eccomi, appaio sulla porta con le orecchie da coniglio, vestita da clown, non quello bianco però, quello tutto colorato, dal naso rosso e con le lacrime finte dipinte.”
Potremmo forse parlare di ordito e trama; la trama è data dal disegno che si vede, dai suoi colori, dalle forme anche tecniche che la poesia usa per rendere un’idea o immagine. Per ordito potremmo intendere i fili sottesi, dentro e fuori dei quali il fuso si inserisce, tende, collega, scioglie o ingarbuglia, a suo piacimento.
Ma quando arrivi a dire:«Meglio questi tentativi di mettere a nudo il proprio io o il proprio “cuore” che niente», pur rispettando molto il cuore e i sentimenti e i vissuti di ognuno , non trovo necessario chiamare “poesia” certe espressioni che l’autore definisce poesie ma non risultano né necessarie né belle, anzi sono piuttosto banali e spesso sconfinano nel sentimentalismo. Esistono i diari (io ne ho una collezione), le testimonianze, e diverse altre forme per lasciare traccia di sé e dei propri vissuti.
2. Poesia e politica
Marina:
Per me “Né acqua per le voci” è un libro sull’io fragile o meglio sull’io flessibile, formulazione che meglio esprime il mio pensiero (Vedi anche qui). In questo libro secondo me è molto presente la mia sensibilità sociale e politica, la passione e la sofferenza per il mondo ingiusto in cui viviamo, la mancanza di azione in cui siamo relegati, l’assenza di un “noi” a cui riferirsi.
Ma voglio partire dall’inizio – la nostra contemporaneità è quella dell’IO fragile, che riesce a fatica a stare in piedi.
L’uomo, come insegna la biologia e l’analisi del sistema di omeostasi della cellula, tende a non volere cambiamenti; ne può assimilare solo in modesta quantità e con un certo tempo per ritrovare l’equilibrio perduto – a cui tende.
In pochi decenni abbiamo dovuto adeguarci alla rivoluzione tecnologica/informatica e all’altra grande, la globalizzazione. Con la conseguenza, anche, dei flussi migratori planetari.
La riduzione di certezze poi, anche sul piano economico/lavorativo, ha fatto la sua parte, così come il sentirsi esposti a continue catastrofi naturali, che rimandano ad un altro grande tema, il nostro rapporto con il pianeta, con la natura, con gli altri esseri che popolano con noi umani la terra (gli animali appunto).
Non occorre scomodare “Psicologia delle masse e analisi dell’Io” (Freud pare superato, ma comprese molte dinamiche nella sua epoca che si preparava alla guerra e all’olocausto) per capire che questo soggetto debole e incerto di fronte a tanti cambiamenti si fa ancora più “fragile” di fronte a trasformazioni enormi e che si sviluppano in tempi relativamente brevi. Non ce la fa ad assimilare, imparare, familiarizzare, si destabilizza.
Lo scarico dell’angoscia avviene, come insegna la storia, creandosi un nemico esterno e in modo del tutto irrazionale buttando su una certa categoria di persone – oggi i migranti – “il male” che opprime e inquieta.
L’ “Io” di cui parlo nel libro è questo; fragile, traballante, che vacilla, trema, sta per cadere.
Ma non attacca, non diventa feroce, non cerca nemici! L’ io fragile, se evita il ricorso al leader potente e alla semplificazione falsificata dei problemi, può diventare un io flessibile, che accoglie gli urti dei cambiamenti, li regge, cerca di comprenderli e di attrezzarsi per farvi fronte, attraverso un aumento della propria plasticità e dunque della sua capacità di accogliere le trasformazioni lasciandosi trasformare. In “Né acqua per le voci” questo io cerca a questo scopo AIUTANTI (questo è molto importante, le mie poesie sono popolate di aiuti e aiutanti – la natura, gli animali, le persone che forniscono le bende, etc. …).
“Addomesticare vipere” “…. finché esaurito il veleno si possa ringraziare l’operatore, il coach, l’allenatore, tutta l’équipe che ha dato il suo contributo allo sminuzzamento del cielo e fornito le bende finché, rappezzate e infine ricompattate tutte le parti….”
Questo io invoca acqua e latte per tutti (l’uomo dell’ultima poesia … stramazza a terra, si abbandona nel cercare un nuovo modo di vivere – senza accumulare beni di consumo, soldi, simboli di potere – un modo semplice e essenziale, tra acqua e terra e sassolini biancghi e rotondi per giocare). Non rivoletti, saune finlandesi, ma veri “lavacri” e cascate … questo ci vorrebbe per nutrire una umanità che percepisco come stremata – “non pipette … goccioline … ma flussi …” – e il latte “cascate a ragnatela” –
Questo io piccolo e fragile va dunque nutrito; perciò bisogna dare da bere ai fili d’erba, uno per uno, anche se stanno dritti lo stesso – alfieri di una fiera resistenza. Allora, come i fili d’erba, può essere capace di flettersi al vento senza spezzarsi e dopo un po’ di assestamento tornare alla sua verticalità, quella dell’uomo, tutta l’umanità, che cammina sulla terra, un piede dopo l’altro, nel suo equilibrio stabile/instabile.
Questa poesia si potrebbe anche definire come uno sconfinamento sul limite (appunto perché l’Io/corpo è soggetto a continui pericoli o trasformazioni o sbandamenti) ed ha appunto bisogno di una struttura (la forma) che tenga e regga il limite. Diversamente ci sarebbe il caos primordiale o il “flusso di coscienza”. La mia intenzione, almeno in diverse poesie di questa raccolta, era lasciar fluire stati di coscienza in cui si mischiassero elementi reali con altri immaginari, inconsci, o tratti dal materiale onirico. Vi sono poi elementi emotivi e affettivi che delineano il fondale di altri testi, che invece partono da vissuti, anche se lo svolgimento può poi portare altrove… Ma da tutto ciò che così fluisce, grazie proprio alla struttura della poesia che tiene e contiene, l’idea era riflettere nell’insieme un senso più grande e più aperto, che guardasse all’umanità contemporanea.
Ennio:
A me pare che tu rivendichi, un po’ contraddittoriamente e già adesso, la politicità della tua poesia. Sono perplesso. Il rapporto tra poesia e politica è oggi ben più problematico che in passato. Su questo punto – in un intervento del 2011 contro gli autori antologizzati in “Calpestare l’oblio” (qui) e più tardi in una discussione con gli stessi (ora ex) redattori di Poliscritture (qui) – mossi delle critiche (forse brusche?) ai poeti e ai vari autori di “poesia civile”. Ora il dissenso con te a me pare questo: parlare solo dell’io fragile è, secondo me, rinunciare al pensare/costruire un *io/noi* o un possibile *noi* diverso da quelli sperimentati in passato (gruppo, partito, comunità, associazione). Tu dici che l’io fragile «va nutrito». D’accordo, ma bisogna dire con cosa e non eludere la questione buttandosi nel metaforico: «perciò bisogna dare da bere ai fili d’erba, uno per uno, anche se stanno dritti lo stesso – alfieri di una fiera resistenza». La psicanalisi (più che la storia) c’insegna che lo scarico dell’angoscia avviene creandosi un nemico esterno? Sì, ma -almeno “noi” – capiamo che i migranti sono un falso nemico esterno; e, perciò, dovremmo ancora essere in grado di individuare nel capitalismo il nemico *reale* da contrastare costruendo un progetto di vita diversa. L’angoscia in cui vive l’io è prodotta o no dalle scelte fatte da uomini potenti e nemici? Per non scaricarla sui più deboli, cosa si deve fare (anche – e non solo – in poesia)? A tali problemi credo tu dia una risposta individualistica e materialistica. E quando, ritenendo che io voglia una poesia « più direttamente forte, di denuncia, di lotta», mi fai notare che nelle tue poesie « molte altre denunce ci sono (ad esempio, l’olocausto – in Majella – trittico –, il disastro ecologico – i migranti – il terrorismo e altre varie cose…).» trascuri la mia vera critica ai poeti e ai “poeti civili”. Che, invece, è la seguente: in poesia queste denunce per me vengono compiute nei termini “sognanti” e addomesticati di un pensiero filosofico/politico/storico, che è ancora quello “democratico/ umanitario”. Ed io le giudico stanche, convenzionali, fallimentari. E vorrei che i poeti non continuassero su questa strada, che non delegassero ad altri la soluzione «in altra sede» dell’elaborazione di un «discorso politico» che riguarda il loro stesso lavoro poetico. É questo rimandare la questione ad altra sede che non ho mai sopportato. Perché sminuisce in partenza gli stessi compiti della poesia. La rende “debole” perché accoglie un pensiero debole. Per chiarire con un esempio: mi sento di dire che Dante non poteva parlare dell’altro mondo in quel modo così poetico senza disporre di un pensiero filosofico forte. Fu quello che nutrì la sua poesia. Noi forse fino agli anni Settanta del Novecento avevamo quello di Marx, ma dopo più di 150 anni un po’ si sarà appannato, un po’ l’abbiamo messo da parte o ce ne siamo distratti, a volte aggrappandoci di più alla psicoanalisi. (E – devo dire qui in fretta e senza approfondire – a una sua versione debole e addomesticata. Perché anche la psicanalisi, di cui parlò Ranchetti in alcuni saggi, aveva una carica rivoluzionaria oggi perduta). Infine, trovo eccessiva la tua fiducia nei «mezzi» tradizionali della poesia («metafore, simboli, immagini … costrutto del verso, sonorità, ritmo … scelta delle parole, consonanze, assonanze, rime …»). Perché non sono strumenti neutri e facilmente diventano decorativi, occultando invece di svelare le questioni complesse e laceranti della nostra epoca. Certo non ho io le soluzioni o le indicazioni chiare. Ma con fermezza ripropongo la mia interrogazione su una politicità della poesia non pigra o accondiscendente a questo eterno presente.
Marina:
Diciamo che la mia vita si è incontrata con la STORIA grande (e il ’68 è storia con la maiuscola …) che mi ha affascinato, travolto, rispondendo a bisogni giusti (fin dalle medie ero chiamata dai professori “l’avvocato delle cause perse” perché quando davano delle insufficienze alzavo la mano per protestare … – per farti un esempio di quel senso di giustizia che appartiene alla mia sensibilità fin da ragazzina) e ad altri invece che erano bisogni/sofferenze e avrebbero richiesto risposte diverse.
Quindi il mio silenzio non è tanto sulla nostra storia politica, che è stata per me una grande scuola di formazione, sociale,personale, della sensibilità e la scoperta della potenza e del piacere del “fare insieme” essendo protagonisti di cambiamenti reali di condizioni di vita, di realtà territoriali, attori di lotte, di negoziati e vittorie sindacali. Ricordi entusiasmanti e indelebili. Di questo però credo che dovremmo parlare a parte dal discorso POESIA e POLITICA.
A parte l’analisi economica e delle classi marxista (che ancora ritengo in gran parte valido), il progetto di società comunista è fallito in tutto il mondo e non vorrei tornarci sopra. Pensare ALTRO? Un nuovo progetto di mondo alternativo al capitalismo? Sì … ma non lo vedo, non mi pare che questi orizzonti ci siano, se non per sviluppi di varie tematiche separatamente, forse … né sono capace di pensare politicamente così in grande.
Mi pare che non ci rimanga che l’umanesimo, ed è un pensiero insufficiente e troppo debole di fronte alla tragicità e complessitàdella contemporaneità. Su questo sono d’accordo!
Mi pare comunque importante che diverse mie poesie parlino di vicende del mondo e denuncino disumanità e scempio.
In particolare proprio “Né acqua per le voci” tratta anche del dramma dei migranti e della società vuota di pensiero e umanità, come quella che ho voluto rappresentare con l’immagine del cervo, che ci abbandona, noi uomini, con le nostre vasche vuote e arrugginite:
“Lo sguardo del sopra vede un cervo immobile nello slargo archeologico industriale, tra zampe all’aria di ferro arrugginite, contorte, ruote enormi che non girano più, vasche come occhi svuotati. Fissa i suoi in questi vuoti, freme e batte nello stare indeciso. Poi flette il capo e balza oltre. Si perde nel fitto, la macchia del verde chiuso.”
Se poi uso simboli (animali, alberi, altro…) per rappresentare questo disastro planetario, a me pare l’unico modo possibile per dire in poesia qualcosa di forte, che tocchi (o possa toccare…) chi legge.
Questo a te può parere appunto “impersonale”. Certo, non c’é in scena il mio io che urla e manca l’io-noi…ma – ripeto – io non credo che la poesia possa o debba veicolare in modo diretto un discorso politico; resto convinta che quello si debba fare in altra sede.
Quello che può fare la poesia è, invece, allenare la sensibilità, rivelare la realtà come oscenamente ingiusta, denunciare attraverso i suoi mezzi (metafore, simboli, immagini … costrutto del verso, sonorità, ritmo … scelta delle parole, consonanze, assonanze, rime …) quello che è oscurato alla mente, allo sguardo, alle coscienze. Se riuscisse a fare questo sarebbe già moltissimo …
3. Lessico, forma, struttura, scelte di composizione
Marina:
Gianfranco Contini, parlando di “Galateo in bosco” di Zanzotto, scrisse: «a lui tutto serve; le parole rare, e quelle dell’uso e del disuso; l’intarsio della citazione erudita e il ribollimento del calderone delle streghe». Io ritrovo qui qualcosa che mi appartiene e che ho già espresso in altra sede. Mi piace usare un linguaggio “misto”, quasi “uno contro l’altro”. A differenza di Zanzotto, non ho il dialetto o un gergo preciso sullo sfondo ma, oltre ad un linguaggio semplice, uso termini derivanti ad esempio dal lessico anatomo/funzionale e molto riferiti al corpo, oppure termini inusuali, obsoleti, o lessemi specifici di un qualche “sapere” particolare, così come neologismi o altro. L’Io di cui si parla è essenzialmente un Io-corporeo – concetto che mi é caro e che appartiene sia alla mia professione attuale che alla mia esperienza personale (dato che ho praticato per parecchi anni uno sport a livello agonistico). A questa mia esperienza giovanile credo di essere debitrice anche per la ricerca di musicalità che mi sostiene nella ricerca poetica, dato che il movimento del corpo é SEMPRE temporale, ritmico, o a volte (come nel pattinaggio) abbinato e modulato su una linea musicale.
Sono presenti anche i “modi di dire” della quotidianità, trattati spesso come inserti ironici, oppure parole obsolete, fuori dall’uso comune, o gergali, quasi da “lessico familiare”…
Mi piace a volte che una poesia sia “percussiva”, ma non rumorosa!
Come ho scritto nella corrispondenza con Vincenzo Frungillo, l’autore della prefazione di “Né acqua per le voci”, io cerco soluzioni formali che mi sembrino ben calibrate, con rime interne, assonanze e rime deboli, ad esempio, o allitterazioni, oppure richiami anche a sintagmi lontani qualche verso.
Misuro la lunghezza dei versi in rapporto tra loro, facendo attenzione a significati che si ripetono o parole che ricorrono magari collegando quelli iniziali a quelli conclusivi; ma sto sviluppando una ricerca anche più specifica relativa ai suoni, ai fonemi.
Lavoro sul “richiamo” di sonorità tra un termine e l’altro; ritrovo così la musicalità del linguaggio e cerco di trasportarla nel testo. Oltre ai dispositivi sopra citati, si genera così a volte una sorta di legame fonologico – i suoni delle singole lettere – che si tessono come ragnatele con richiami al senso (esempio: s/t/v/r sono ridondanti nei versi in cui domina il travaglio, il deragliamento … c/b/l/g/sci/sce ricorrono spesso là dove il tono si addolcisce, ci sono pause alla tensione, brevi ancoraggi, momenti di riposo o conforto, e così via …).
Intendo con ciò dire che lavoro molto sui suoni del linguaggio non solo facendo attenzione e ricercando assonanze, rime interne, misurando la lunghezza dei versi in rapporto tra loro, facendo attenzione a significati che si ripetono o parole che rimbalzano magari dai versi iniziali a quelli conclusivi, etc …; ma anche cercando proprio i SUONI – cioè i fonemi. Ci sono fonemi dolci o duri, graffianti o suadenti, percussivi o dilatanti; e per me questa ricerca linguistica è strettamente legata al senso che voglio assumano certe parole o versi. Non ricerco una lingua “sperimentale” come si faceva fino a poco tempo fa (o si fa ancora in certi casi …), ma sono convinta che la parola si possa rinnovare proprio in questo gioco tra senso e sonorità. Non so se tutto questo sia chiaro, ma certamente è la mia linea di ricerca”.
Un testo è “altro da me”, dalla mia esperienza; è somma di immagini, pensieri, vissuti, ma è anche una forma ricercata ed elaborata lungamente (le poesie più antiche di questo libro sono di dieci anni fa, e comunque tutte vengono riviste più volte).
Ricerco leggerezza e ironia (certo, certissimo … la mia ironia a volte è quasi impercettibile!), che mi permetta (con altri dispositivi) il necessario lavorìo sul “distanziamento” (anche dai vissuti più dolorosi).
Ennio:
Per me la tua ricerca si iscrive quasi interamente nel filone del simbolismo (e per alcuni versi in quello di un “lacanismo da poeti post-strutturalisti”). Restano, dunque, le mie perplessità e un po’ di scetticismo verso questa impostazione. Ti appelli all’autorità quasi intoccabile di Zanzotto e di Contini, ma non è detto che questa ricerca formale (intendo “alla Zanzotto”) renda la verità di quell’esperienza da cui si è mossa la tua poesia. Io non sono affatto convinto che il poeta migliore sia uno (o una) che abbia una cassetta di attrezzi linguistici e retorici particolarmente ricca e aggiornata ma quello/a capace di procurarsi gli attrezzi giusti proprio per dire l’esperienza singolare da cui muove la sua poesia o l’esperienza che altri – contemporaneamente a lui/lei – fanno del tempo in cui vivono ma anche del passato storico che – più o meno rielaborato – si trascinano nel loro cammino storico ed esistenziale.
Caro Ennio, cara Marina, la vostra discussione è molto interessante e coglie con acutezza e coinvolgimento questioni centrali del fare poesia, come i temi dell’io e del suo manifestarsi, il rapporto tra contenuto e forma, quale sia il modo migliore per esprimere la politicità di un testo. Naturalmente capisco che ci possano essere differenze, oltre che di interpretazioni storiche, anche di sensibilità, di cultura ed esperienza personale, che nulla tolgono alla validità delle varie espressioni poetiche e artistiche, come è chiaro a chi come te, Ennio, lavora con “Moltinpoesia” a una dimensione plurale del fare poetico. Rimane comunque il problema di quale espressione possa risultare maggiormente efficace.
Parto da una questione apparentemente secondaria, tant’è vero che tu la introduci con un “Infine”: “Infine, trovo eccessiva la tua fiducia nei «mezzi» tradizionali della poesia («metafore, simboli, immagini … costrutto del verso, sonorità, ritmo … scelta delle parole, consonanze, assonanze, rime …»). Perché non sono strumenti neutri e facilmente diventano decorativi, occultando invece di svelare le questioni complesse e laceranti della nostra epoca”. Proviamo a considerare alcuni versi di Marina:
Siamo usciti dalla scatola proprio
stamattina giunture e riflessi crac
crac arrugginiti messa in moto…
Mi sembra che l’immagine e la sonorità di questi versi assuma direttamente un significato politico, poiché esprime con l’immagine di grande evidenza e la fisicità della voce che insiste con allitterazioni su toni aspri e stridenti una condizione di alienazione che costituisce un atto di accusa nei confronti dello stato di cose presenti. Fra l’altro, osservo che questi versi a me sembrano più espressionistici che simbolisti, come in genere la poesia di Marina (ma questo è un altro discorso, ogni testo presenta inevitabilmente varie stratificazioni), poiché non alludono vagamente, ma presentano estremizzando e deformando come fanno gli espressionisti. Mi richiamano infatti le varie rappresentazioni dell’umanità operate da artisti espressionisti: le caricature di Grosz, ad esempio, oppure le maschere di Ensor, o le ombre di Munch. Lo stesso effetto ottiene per me rappresentare l’uomo come robotizzato. Uomo robotizzato che è certamente un uomo “debole”, fiaccato com’è nel suo essere dall’esodo in cui viviamo e dalla privazione a cui esso ci sottopone. Da questo punto di vista, cioè ammettendo la politicità delle sonorità poetiche, può essere utile anche “una cassetta di attrezzi linguistici e retorici particolarmente ricca e aggiornata”.
L’immagine dell’uomo robotizzato mi porta a passare a un’altra questione che mi interessa, e che è collegata a questa, cioè quella dell’io. Tu affermi, Ennio, di essere “sospettoso verso chi … denigra o facilmente si atteggia a “superatore” dell’io”. Sono d’accordo con l’affermazione, e d’altra parte non è così semplice annullare la presenza dell’io dalla poesia lirica, visto che esso è costitutivo dell’identità del genere. Il punto semmai è un altro: che aspetto assume oggi l’io. Proprio per la necessità che tu affermi di “dire l’esperienza singolare da cui muove la poesia o l’esperienza che altri – contemporaneamente a lui/lei – fanno”, cosa che anche secondo me è basilare, l’io non è qualcosa di fissato per sempre, ma assume modi diversi di essere e di manifestarsi.
Tu affermi che “parlare solo dell’io fragile è, secondo me, rinunciare al pensare/costruire un *io/noi* o un possibile *noi* diverso da quelli sperimentati in passato”. In realtà secondo me non è possibile che partire dalla condizione in cui siamo, e in ciò consiste la politicità di ogni manifestazione artistica che non voglia essere espressa in termini che tu definisci “sognanti”, quali sono probabilmente affermazioni generiche e utopistiche. E bisogna dire, comunque, che sempre c’è stato e c’è bisogno anche di questo, di espressioni “sognanti” che contribuiscano anch’esse, non con la denuncia, ma con la prefigurazione di un’alternativa, a farci concepire la possibilità di un’alternativa. Insomma, le vie del cambiamento sono varie e complesse, sta a noi aprirne e mantenerne aperte tante.
Caro Giorgio,
intanto grazie per essere intervenuto nel nostro dibattito e per aver colto l’interesse di questa discussione.
Mi sembra molto acuta e condivisibile la tua osservazione sui “mezzi della poesia” e la tua puntuale analisi dei tre versi del testo con cui inizia il mio libro; che infatti “apre” la raccolta proprio a partire da una affermazione di base, che nell’analisi formale viene detta con, appunto, i mezzi della poesia. La condizione di alienazione del presente, l’uomo “robot” che secondo ordini ben precisi ogni giorno esce dalla sua scatoletta… i toni “aspri e stridenti” servono infatti, nelle mie intenzioni, a rendere questo stato. Certamente hai ragione anche quando affermi che è uno stile, questo, espressionista; estremizzare, deformare, aggiungerei (facendo una incursione sulla linea poetica di Ripellino) rendere paradossale o grottesca una immagine, significa svelarne il mostruoso sotto le spoglie della normalità.
Non sono in grado di dire se la mia poesia sia in generale più simbolista, forse sì, ma di certo anche questo utilizzo degli strumenti della poesia per una scrittura che dici espressionista mi piace e a volte lo uso. In questa stessa poesia poi il finale è altamente grottesco e “fa il verso” a comportamenti “politicamente corretti”, ma usando un linguaggio imperativo e ridicolizzante “ richiesta massima competenza” – “divieto di impostare nel contenitore/ non precisamente adibito allo scopo” – che definisce l’uomo rinsecchito e appena uscito dalla scatola come colui che si sente inadeguato e appunto “alienato” anche di fronte alle più banali azioni della giornata. Qui le allitterazioni rendono in una cacofonia di suoni la condizione umana (e dunque sociale) che in sé già parla di un “… uomo robotizzato che è certamente un uomo “debole”, fiaccato com’è nel suo essere dall’esodo in cui viviamo e dalla privazione a cui esso ci sottopone”.
Iniziare con questo testo era per me dunque come una premessa; intendo dire che le poesie a seguire, a parte qualche felice “epifania”, si inscrivono in questa cornice; il testo che chiude il libro allude ad un possibile mutamento di visione e prospettiva per la vita, sebbene praticata dal singolo, non essendoci, come dice Ennio giustamente, nel mio orizzonte al momento alcun “noi” a cui fare riferimento.
… e l’uomo caduto
arrota le unghie nella terra e poi
di colpo smette, appoggia la testa.
la solleva, guarda, raccoglie sassi, piccoli, rotondi”.
L’Io fragile o flessibile si manifesta qui come possibilità di uscita dal percorso delle merci, del denaro, delle mosche sul ronzino, delle colme bisacce, dalla stanchezza senza riparo in cui l’uomo della poesia si muove prima dell’arrivo del silenzio, dell’acqua, dell’ombra. Resiste, ma poi si lascia “impastare” e torna, al contatto con la terra, ad essere come i bambini, attratto dai sassi, (che si cercavano nella mia infanzia lungo la sponda dei fiumi padani), sassi di bella forma e colore, che prendono (qui simbolicamente certo…) il posto delle monete, che prima l’uomo stringeva , tratteneva, sfiorava… C’è un passaggio, che direi di liberazione, dove l’abbandonare “l’abito” precedente non significa resa, ma anzi rappresenta la più significativa, a mio parere, forma di resistenza. Certamente si tratta di una liberazione “immaginaria”, ma allude anche a concrete pratiche di cambiamento per stili di vita, di pensiero di sé e dell’esistenza, da cui si può tentare di partire per pensare “altro” anche a livello delle più vaste prospettive sociali e politiche.
A Giorgio e a Marina [Massenz]
Sì, sotto questo scambio tra me e Marina si affaccia proprio «il problema di quale espressione possa risultare maggiormente efficace» nella ricerca poetica che noi ed altri conduciamo. Da anni insisto a chiedere e a chiedermi: quale poesia oggi? E questa è un’occasione per tentare qualche risposta.
Purtroppo, credo che abbiamo delle notevoli divergenze di vedute, che cercherò di spiegare qui in breve. (Poi, semmai, continuiamo….). Vado per punti:
1.
In tutta sincerità io non ho – neppure in poesia – la tentazione “ecumenica” e la voglia di omaggiare il pluralismo moda, che mi paiono trapelare nella lettera di Giorgio, quando richiama le «differenze, oltre che di interpretazioni storiche, anche di sensibilità, di cultura ed esperienza personale», per poi conciliale in un pluralistico riconoscimento della « validità delle varie espressioni poetiche e artistiche».
No, lo dico senza arroganza, fin dall’inizio le mie riflessioni sui Moltinpoesia non si riducevano semplicemente ad approvare la «dimensione plurale del fare poetico»,
(Cfr. tra le tante cose che ho scritto in proposito almeno: http://www.backupoli.altervista.org/IMG/Abate_QUALE_POESIA_OGGI_26_MAG_2010.pdf
https://moltinpoesia.blogspot.com/2012/06/ennio-abate-una-riflessione-per-la.html?fbclid=IwAR0FesXCxVIAyREVradiB1Y_EsjnQIeCfG53X66OeJSPNIyCvR3i9-rCNyo#more
2.
Giorgio conclude l’analisi di alcuni versi di Marina affermando in contrasto implicito con me: «Da questo punto di vista, cioè ammettendo la politicità delle sonorità poetiche, può essere utile anche “una cassetta di attrezzi linguistici e retorici particolarmente ricca e aggiornata”».
Ma io non demordo dalla mia posizione e gli chiedo: siamo sicuri della « politicità delle sonorità poetiche» (sia dei versi di Marina che più in generale)? E siamo sicuri che «“una cassetta di attrezzi linguistici e retorici particolarmente ricca e aggiornata”» possa essere davvero – di per sé- utile?
Io rispondo no ad entrambe le domande:
– perché una buona «politicità» (non quella superficiale e generica) neppure in politica è automatica o garantita. Figuriamoci in poesia o nelle sue «sonorità poetiche»! Essa deriva da altre scelte di vario genere, che il poeta nel suo lavoro sul linguaggio compie (quando le compie); e persino dal contesto storico, che riesce ad assorbire e rielaborare nel suo lavoro specialistico in poesia.
– perché la tecnica (metrica, figure retoriche, etc.) e anche una buona o ottima tecnica (varia, aggiornatissima) può aiutare, ma non produce di per sé un’opera valida. Penso che ogni spinta autenticamente costruttiva di un poeta si scelga la strumentazione tecnica adeguata (e può essere in certi casi persino poverissima o in altri ricchissima ma sempre in relazione a quella spinta costruttiva a volte confusa e non ad altre, di cui spesso astrattamente si sente parlare.
3. Sulla questione del troppo facile “superamento” dell’io (o del genere lirico) concordiamo. Non so però quanto completamente. Perché su questa questione si gioca anche sporco (Cfr. questa mia polemica con Guido Mazzoni: http://www.leparoleelecose.it/?p=36829#comment-421958 ).
Concordiamo pure sul fatto che «l’io non è qualcosa di fissato per sempre, ma assume modi diversi di essere e di manifestarsi», come scrive Giorgio. E però è arduo oggi tentare di definire quali siano questi «modi diversi di essere e di manifestarsi» dell’io (o della maschera-io, che, da secoli e nel genere lirico, tanti singoli poeti hanno messo sul volto). Qui tocchiamo un altro punto di divergenza o di contrasto tra noi.
Giorgio non solo non condivide la mia critica all’ «io fragile» (formula usata da Marina e, devo dire, affine a quella dell’«io debole» heideggeriano e vattimiano), ma ribadisce, sempre in sintonia con Marina, che questa (dell’ «io fragile») è oggi la «condizione in cui siamo»; e che le sue forme caratteristiche – quelle «espressioni “sognanti”», che io ritengo un dato di fatto ma anche un limite, perché impediscono o inducono a «rinunciare al pensare/costruire un *io/noi* o un possibile *noi* diverso da quelli sperimentati in passato”» – sarebbero non solo da preferire alla «denuncia» (penso che alluda ad una poesia direttamente politica o “civile”, che – preciso – io ho criticato: https://www.poliscritture.it/2011/04/05/sullantologia-calpestare-loblio/ ), ma addirittura le uniche che permetteranno «la prefigurazione di un’alternativa». ( E qui l’affinità con le tesi di Mazzoni è per me forte). Contestare l’io fragile sarebbe dunque irrealistico o volontaristico.
D’altronde, anche Marina riconosce che nel suo orizzonte non c’è «al momento alcun “noi” a cui fare riferimento». (Ma il problema è come costruirlo o ricostruirlo, anche in poesia, non già averlo o non averlo). E a me pare – mi spiace usare un verbo “forte” – che lei feticizzi l’importanza dell’«io fragile». Sostiene, infatti, addirittura che «l’Io fragile o flessibile si manifesta qui come possibilità di uscita dal percorso delle merci, del denaro, etc». O insiste sulla importanza di «un bambino in contatto con la terra».
E questa sarebbe la «liberazione»? Questo tornare “bambini”? Questo «abbandonare “l’abito” precedente» (suppongo si riferisca a quello adulto o a quello politico, magari “rivoluzionario”, della nostra giovinezza)? Questa «la più significativa […] forma di resistenza», sia pur «“immaginaria», che alluderebbe «anche a concrete pratiche di cambiamento per stili di vita, di pensiero di sé e dell’esistenza, da cui si può tentare di partire per pensare “altro” anche a livello delle più vaste prospettive sociali e politiche»?
Se è così, devo dire, ancora più bruscamente di quanto detto nello scambio con Marina qui sopra pubblicato, che non sono d’accordo. E per ora mi limito a due obiezioni, che non sviluppo: – esiste davvero questo «io fragile» o è una costruzione ideologica, che la sconfitta politica ha reso più credibile? ; – tanti io fragili costruiranno mai qualcosa in grado di affrontare le tragedie della nostra epoca (guerre, migrazioni, ecc.)?
Caro Ennio, credo che ci sia ancora qualcosa da chiarire e/o approfondire riguardo al tuo terzo punto.
Penso di essere stata un po’ fraintesa; infatti non volevo certo affermare che “questo tornare alla terra… tornare bambini…” che tu dici (ma che è diverso da quello che volevo esprimere io nella poesia di cui stiamo parlando) sia una soluzione. Nemmeno intendevo riferirmi ai “tempi passati”, alludendo simbolicamente all’idealismo giovanile, al ’68 o alle lotte di allora, che abbiamo entrambi vissuto.
Piuttosto, prima di entrare nello specifico, vorrei mettere una cornice secondo me importante a questo discorso; in quale contesto storico ci muoviamo ora? Un contesto nel quale un “noi” comune di riferimento non è in scena, anche se esistono tante realtà di impegno sociale, volontariato, gruppi di azione politica territoriale o tematica, grandi iniziative sul piano della difesa dell’ambiente… Tante micro-realtà spesso validissime, ma che faticano a collegarsi in una “rete” di azione comune e che non hanno, a mio avviso, alcuna rappresentanza politica sul piano istituzionale.
In questo quadro dobbiamo dirci con sincerità che la poesia (più o meno esplicitamente sociale, di denuncia, apertamente “politica” o no…) non muta nulla nel quadro generale ed aggiungerei che è ai margini di una “dimenticanza” più grave e ampia, cioè quella della cultura umanistica nel suo insieme. La poesia oggi non ha alcun mandato sociale a cui riferirsi o rispondere.
Dunque la domanda per me è: come può un testo poetico avere in sé una valenza che sia almeno una testimonianza della diversità possibile nei modelli di vita e di azione, che porti chi legge a sentirsi nella “distanza”, non quella sublime di classica matrice, ma quella che permette per un momento di aprire spazi di libertà alle emozioni, ai pensieri, alle ribellioni, spazi che attraverso la parola poetica portino aria al “trito” quotidiano che tutti ci ingabbia, in mancanza di speranze di cambiamento condivise?
L’ipermodernismo in cui siamo immersi non è neanche più quel mondo a cui potevamo applicare la categoria dell’”alienazione”, ma piuttosto direi quella dell’”omologazione”. Da ciò discende secondo me il forte individualismo e la costante presenza di tentativi (anche orribili, oppure ingenui, banali, comunque di vario genere…) di soggettivizzazione, intesa come manifestazione espressiva di sé, ma in assenza di coordinate di valore, di etica, e persino di senso…
Trovo ad esempio impressionante il fenomeno degli “influencer”; personaggi famosi, o che lo diventano, che hanno molto seguito perché permettono agli utenti dei “social” di usarli come specchi in cui riflettersi. Utenti spesso giovani, ma non solo, che attraverso “copiature” più o meno parziali, abbozzando comportamenti, stile di abbigliamento, espressioni addirittura, cercano di fare propria una identità “di successo” presa a prestito, a cui omologarsi per quanto possibile.
Anche la poesia non è esente da questa diffusa necessità espressiva e spesso è territorio di elezione per un narcisismo esasperato, che si realizza in un egocentrismo lirico autoaffermantesi senza necessità di alcuna conferma altrui, di un confronto critico, della verifica dell’efficacia o bellezza del proprio lavoro.
La poetica dell’”Io flessibile” per me dunque si inserisce in questo contesto, dove non esiste per ora un “noi” che possa consentire una anche parziale identificazione o si costituisca come luogo comune e condiviso nella logica di una prospettiva di cambiamento politico o sociale.
Quindi la mia teorizzazione si limita modestamente ad attribuire un valore “politico” alla poesia lirica che io scrivo (senza voler con ciò affermare che questa sia l’unica o la migliore strada…) in quanto vi sono presenti due grandi temi; quello dell’Io poroso, inteso come una soggettività aperta verso l’esterno e riflettente i conflitti le sofferenze i disagi della società in cui è immerso e quello dell’Io flessibile. Come contraltare al narcisismo e all’assertività dell’Io autoriale potremmo dunque valorizzare (anziché negare o ritenere una debolezza da cui difendersi) una flessibilità, (che si spera non “crolli a terra” in forma di fragilità), capace di modularsi di fronte alle difficoltà del presente senza perdere le proprie capacità di resilienza. Resistere e testimoniare sono funzioni per me di grande valore e attualità. Esiste una fatica reale nel “reggere” gli urti del presente senza assumere rigidità o posizioni autodifensive, senza dare risposte forti …. né farsi portatori di autoritarie e univoche gestioni del disagio vedendo solo la propria condizione; è necessario lo sguardo largo e aperto che ci permette anche di accogliere la sofferenza, l’altro e il diverso da me, quello che sullo stesso pianerottolo si comporta come non dovrebbe o, forse, come può.
Perché, su questo concordo con Guido Mazzoni, dell’Io non solo non si può fare a meno, ma anzi è una forma di controllo di istanze più selvagge primitive e regressive (che dilagano a partire da pulsioni come l’autodifesa, per cui il nemico è sempre fuori di sé e ci si fonda su certezze forti e semplificanti ogni questione). Vorrei precisare però che non mi riferisco qui al pensiero di Vattimo, in quanto questo autore ha teorizzato il “pensiero debole” mentre il mio discorso si riferisce piuttosto ad un costrutto psichico o meglio ad una “resilienza” dell’Io.
Fuggire le “parole di massa” poi, cercare il termine il linguaggio la forma che “dica la verità” e che la dica bene, in modo esatto e pulito, è un altro compito importante che proprio la poesia lirica oggi potrebbe assumersi.
Dunque il mio esempio – i versi della poesia che chiude il mio libro – non voleva alludere ad una facile “liberazione” regressiva e infantile, ma piuttosto ad un cambio di stato – dall’adesione omologante ai miti del potere, del denaro, della produttività in un tempo graffiante – le cicale assordanti – che non concede pause, ma incalza – ad uno stato di debolezza e di abbandono … che semplicemente prefigurano altre forme del vivere, metaforicamente innestate sul tema dell’acqua “abbondante” “nutritiva” “per tutti” che è un tema/chiave di questo mio libro.