di Samizdat
Caro X,
rieccomi. Sono d’accordo con te: oggi manca un “progetto” comunista. Io stesso non so come uscire da una difesa del comunismo (o, meglio. dell’idea di comunismo) quasi solo di principio, fondata quindi soprattutto su una convinzione morale. (Già sento le battute: una cosa per anime belle, una attardata nostalgia per una Rivoluzione che non è stata poi così gloriosa ma piena di tragedie reali). D’accordo anche sul fatto che, a rigor di teoria, la sinistra sia altra cosa rispetto al comunismo (“ Marx non era di sinistra”). Ora, però, voglio partire da una questione che mi ha sempre appassionato: quella della continuità/discontinuita (sia nell’elaborazione del pensiero che nelle pratiche politiche e sociali). E osservare una cosa: in tempi che sono stati più dinamici e favorevoli alle lotte dei “dominati” o delle “classi subordinate” (Otto-Novecento, all’ingrosso), l’idea del comunismo ha potuto essere rielaborata tenendo conto dei bisogni concreti delle società in mutamento. E questo è accaduto soprattutto quando è riuscita a “nuotare” nell’acqua di una sinistra, magari culturalmente generica ma ampia. E credo che tornerà forse a “nuotare” se una nuova sinistra si dovesse ricomporre. Altrimenti ci dobbiamo rassegnare all’aridità di un “comunismo interiore” come quello dello scrittore Francesco Pecoraro (qui) o a parlare di comunismo inter nos (io e te e magari alcuni altri che rifondano ogni tanto qualche “partito comunista” o ora gruppi di discussione in alcuni loculi di Facebook o del Web).
Questa complementarità (ancora dialettica?) tra comunismo e sinistra è però un problema nel problema. Infatti, nella storia dei movimenti di sinistra e/o comunisti si sono verificati momenti di crisi e di dilemmi (essere comunisti o essere di sinistra?). E, in situazioni drammatiche, si è arrivati alla tragica eliminazione fisica dei rappresentanti di posizioni “estreme” da parte dei rappresentanti di posizioni “moderate” o giunte al potere. Per essere chiaro, mi riferisco non solo alla fine di Rosa Luxembug e della Lega di Spartaco per mano della socialdemocrazia di Noske nel 1918-’19 ma anche alla repressione della rivolta dei marinai di Kronštadt nel 1921 da parte dei bolscevichi al potere. Eventi assolutamente terribili e tragici. Chiunque voglia ancora oggi parlare (o riplarlare) di comunismo non può sorvolarli.
Tuttavia, malgrado questi eventi-incubo, non riesco a pensare ad una continuazione o ripresa del discorso sul comunismo operando una separazione tra discorso di ricostruzione della sinistra (o di una “nuova sinistra”) e discorso comunista. Tra le due esperienze c’è una relazione. Il comunismo – uso un’immagine forse arrischiata e persino ottimistica? – lo vedo come un bambino che la sinistra porta in pancia e non riesce a far nascere. O che rifiuta, tanto da scegliere di abortire o persino , udendone i primi vagiti, di soffocarlo.
E pertanto ritengo impossibile che si possa ricostruire un “tessuto comunista” in assenza di un (ricostruito) “tessuto di sinistra”. Il comunismo non può rispuntare a parte, in assoluta autonomia, come dire per secessione da ogni idea o pratica di sinistra. Specialmente oggi, che sono venute meno sia le organizzazioni operanti fino agli anni ‘70 del Novecento che resero possibili – assieme e in contrasto – esperienze di sinistra ed esperienze comuniste. Questa mia convinzione nasce da un rigetto che si è consolidato negli anni sia verso l’agire da setta, da puri (e, comunque, tengo a dire che il modello del partito di Lenin, che ancora mi suggestiona, nulla aveva a che fare con una setta) sia verso l’agire trasformistico che scolora o annacqua ogni pensiero democratico di sinistra.
Passando a quello che ci divide, io non sono d’accordo su quanto sostieni: «oggettivamente adesso come adesso, il massimo di teoria e di progetto di sinistra, qui da noi, è, piaccia o meno, il cosiddetto “sovranismo” di sinistra». Schiettamente: sposare questa ipotesi mi pare liquidare in anticipo ogni riflessione su una ipotesi comunista.
Infine, sui tentativi falliti di “fare gruppo”. È dagli anni ‘90 che tento e ritento di ragionare su militanza, “fare gruppo” ( o rivista), “essere comunisti oggi” con chiunque ancora pronunci il nome di Marx o del comunismo (anche per criticarli). E, però, non credo che le difficoltà di pensare e agire in modi collaborativi vengano dal fatto che «l’età avanza e con l’età la vita cambia». Non è questione di età a impedire la cooperazione e a costringerci all’isolamento. Anche se vecchi anagraficamente lo siamo davvero. È che abbiamo in testa ancora troppe schegge di teorie vecchie o di ideologie appena riverniciate con una mano di “nuovo”. E riusciamo a ripulirle o a metterle definitivamente da parte nell’unico modo che ritengo giusto e indispensabile: accettando un confronto assiduo, leale e coraggioso.
Per poter parlare seriamente di comunismo bisogna risolvere alcuni problemi chiave che il marxismo e tutte le dottrine comuniste e socialiste non hanno mai risolto, né in teoria né in pratica. Non basta ripulire la testa dalle « schegge di teorie vecchie o di ideologie appena riverniciate con una mano di “nuovo”». Perché le schegge di vecchie ideologie di cui ripulirsi non riguardano solo la tradizione del comunismo marxista ma tutta intera la tradizione della politica dello Stato moderno, dal Cinquecento in poi, e dello Stato o forme diverse di statualità antiche, dalle prime concentrazioni di potere in poi.
1) Il primo problema è quello della conciliazione fra comunismo (fra Stato, di qualunque tendenza sia) e libertà. Finché il comunismo (lo Stato) è concepito come regime “per tutti i cittadini”, non ci sarà soluzione: una parte dei cittadini si sentirà libera (perché ha interesse a conservare il particolare rapporto di non-libertà in cui si trova) e un’altra parte si sentirà imprigionata in leggi e obblighi imposti con la forza.
2) L’unica soluzione possibile è che ognuno possa vivere in un regime scelto in modo libero e autonomo, il che presuppone un cambiamento totale dell’odierno sistema per Stati, dove, se il potere è comunista, tutti devono vivere da comunisti, se è liberale, devono vivere da liberali, e così via.
3) Una società in cui le persone si auto-organizzano liberamente è concepibile. È necessario riformulare il sistema giuridico sulla base del concetto di autogoverno; abolire lo Stato come ente sovrano assoluto che si articola in funzioni, fra cui quella di governo, e organizzare le funzioni di governo come espressione e articolazione dell’autogoverno, dal basso all’alto e non viceversa.
4) Non pretendere una società uniforme di uguali, perché non siamo uguali. Ma tendere a una società in cui le differenze non costituiscano conflitto ma libere tendenze di persone e gruppi, dove, cioè, il comunista può vivere da comunista insieme a tutti i comunisti e il liberale da liberale insieme ai liberali.
5) Le varie “isole” sociali possono associare le comunità analoghe e stabilire regole comuni per ciò che riguarda i rapporti esterni. Il federalismo, anche a più livelli, è lo strumento che può permettere la convivenza fra “isole” a organizzazione interna diversa basata su diverse ideologie. I poteri federali devono essere ben distinti dai poteri interni delle comunità federate e riguardare solo ciò che è comune alle diverse “isole”, senza intromettersi nell’organizzazione interna dei corpi federati. Si tratterebbe di applicare davvero il principio di sussidiarietà, sbandierato in tanti testi giuridici ma negato in pratica da tutti gli Stati odierni.
6) In questo modo, con l’applicazione dei principi di adesione volontaria, di autonomia e di autogoverno delle diverse comunità, si risolverebbe anche un altro problema mai risolto nella teoria e nella pratica dei regimi comunisti: come conciliare il comunismo con la più efficiente organizzazione della produzione e la proprietà collettiva con la distribuzione egualitaria della ricchezza prodotta.
Semplicemente, se un’«isola» comunista non funziona, le adesioni volontarie cesseranno e quell’isola si svuoterà. Viceversa, se funziona, le adesioni volontarie aumenteranno. E così per le “isole” liberali o di altro tipo. Oggi una concorrenza interna sembra così assurda che la sinistra è sempre stata contraria anche alle più attenuate autonomie comunali, provinciali e regionali, in nome di un’uguaglianza di diritti che anziché arricchire tutti impoverisce tutti. Autonomia e autogoverno comporterebbero necessariamente anche concorrenza e differenza di diritti, perfettamente giustificata anche moralmente, secondo tutte le teorie morali, quando la differenza non diminuisce ma accresce la qualità di vita di tutti. Differenze fra “isole”, come oggi c’è comunque fra Stati e regioni storiche fino alle differenze fra quartiere e quartiere e famiglia e famiglia. Ma maggiore uguaglianza all’interno delle “isole”: nessuno vieterebbe a chi ha scelto di vivere in un’isola comunista di realizzare la perfetta uguaglianza sociale o almeno quell’uguaglianza fino alla quale può spingersi un autogoverno ispirato a una dottrina comunista.
6) A questo punto, perché aderire a una società comunista? Perché lo si ritiene giusto, perché si ritiene che sia una scelta morale positiva anche ai fini dell’organizzazione politica, sociale ed economica. E queste sarebbero poi le stesse ragioni che spingerebbero altri, sempre volontariamente, ad aderire a una società non comunista.
7) È possibile, senza uno Stato centralizzatore, organizzare i servizi comuni fra isole diverse e autogestite? Questo è un problema di fondo discriminante fra la scelta dello Stato tradizionale e dell’autogestione come qui in sintesi accennata. Secondo i teorici libertari è possibile farlo. È possibile costruire strade, governare il territorio, gli spazi aerei e i mari, organizzare un servizio di polizia e un esercito di difesa con accordi fra gli enti federati. I servizi necessariamente in comune, che superano i confini e i poteri delle “isole”, per quanto grandi queste possano essere, sostanzialmente sono pochi e possono essere gestiti con i criteri di un “supercondominio” , dove non è un potere centralizzato, uno Stato, ma i condomini federati, a decidere.
8) Questa non è la sede per approfondire ulteriormente il discorso e parlare di diritto privato, di diritto penale ecc. ecc. Basti riaffermare alcuni principi di fondo: libertà individuale di scelta, autonomia autogoverno e autogestione delle comunità che si organizzano spontaneamente e volontariamente, federazione fra le diverse comunità, differenza e concorrenza positiva (cioè che promuove e migliora le condizioni di tutti: non a somma negativa o a somma zero, ma a somma positiva).
9) Le guerre sono sempre nate da due motivazioni principali: la prima è la sete di potere e di dominio (e di furto delle risorse naturali e sociali), e questa motivazione si è aggravata, non ridotta, con gli Stati moderni. Lo Stato è di per sé un fattore di conflitto internazionale e di guerra. La seconda è l’obbligo di vivere in una condizione non accettata, per mescolanza di posizioni diverse (soprattutto ideologiche o etniche). Entrambe queste due motivazioni diminuirebbero moltissimo con una organizzazione federale di comunità autonome, anziché per Stati che impongono regimi politici, sociali, economici e giuridici uniformi al loro interno e in conflitto all’esterno.
A Luciano [Aguzzi]
1.
«tendere a una società in cui le differenze non costituiscano conflitto ma libere tendenze di persone e gruppi, dove, cioè, il comunista può vivere da comunista insieme a tutti i comunisti e il liberale da liberale insieme ai liberali».
È una visione pacificante che non regge di fronte alla realtà conflittuale in cui siamo costretti a vivere. Guardiamoci attorno: questione curda, questione catalana, Brexit, ecc. La differenza d’idee (o di ideologie) rimanda a differenze (o contraddizioni) reali. Non possiamo distrarcene. Come fa il comunista a vivere da comunista se il liberale, vivendo da liberale, inevitabilmente è costretto a negare quel “vivere da comunista”? O prevale una società comunista o prevale una società liberale. Le due visioni ( e realtà sociali conseguenti ad esse) sono inconciliabili. Ci potranno forse essere dei compromessi – temporanei o più o meno duraturi – nella realtà, a seconda dell’andamento dello scontro. E verranno fuori società “ibride” (tali potrebbero essere considerate quelle del “socialismo reale” impostosi con la creazione dell’Urss o, oggi, quella cinese….ma ci vorrebbero approfondimenti seri per dirlo con una certa sicurezza).
2.
«nessuno vieterebbe a chi ha scelto di vivere in un’isola comunista di realizzare la perfetta uguaglianza sociale o almeno quell’uguaglianza fino alla quale può spingersi un autogoverno ispirato a una dottrina comunista. […] È possibile costruire strade, governare il territorio, gli spazi aerei e i mari, organizzare un servizio di polizia e un esercito di difesa con accordi fra gli enti federati. I servizi necessariamente in comune, che superano i confini e i poteri delle “isole”, per quanto grandi queste possano essere, sostanzialmente sono pochi e possono essere gestiti con i criteri di un “supercondominio” , dove non è un potere centralizzato, uno Stato, ma i condomini federati, a decidere.»
Tanti piccoli “stati” più piccoli ed omogeni di quelli nazionali e concentrati sulla loro “vita interna”, separati tra loro e non comunicanti o comunicanti “per l’essenziale” («i servizi necessariamente in comune, che superano i confini e i poteri delle “isole”» ? Mi pare una visione “monadica” o una semplice riduzione in scala degli stati-nazione storicamente costruitisi attraverso durissimi e sanguinosi conflitti, non scordiamocelo! È una visione “per isole” (e isolazionista?) che nasce sempre da quel desiderio (astratto) di pacificazione di cui al punto 1. Ma anche separarsi ( vedi adesso la Catalogna) è costoso e conflittuale…
3.
«Questa non è la sede per approfondire ulteriormente il discorso e parlare di diritto privato, di diritto penale ecc. ecc.».
Qui sembri suggerire una “via legislativa” alla pacificazione… Ma anche una legge “giusta” dovrà essere imposta e fatta rispettare con la forza o no?
4.
«le guerre sono sempre nate da due motivazioni principali: la prima è la sete di potere e di dominio (e di furto delle risorse naturali e sociali), e questa motivazione si è aggravata, non ridotta, con gli Stati moderni. Lo Stato è di per sé un fattore di conflitto internazionale e di guerra».
Ma non è che ridimensionando gli attuali Stati-nazioni a “Stati-regione” o a “città-stato” o “isole” sarà impedito ad alcune di queste isole (quasi nazioni ma più omogenee?) di non provare ad un certo punto «la sete di potere e di dominio (e di furto delle risorse naturali e sociali)».
La perfezione e la pace perpetua non esistono e forse non esisteranno mai. Si tratta di operare (e questa operazione è davvero una rivoluzione radicale, non violenta o limitata alla violenza come legittima difesa e non come soppressione del nemico. Vedi la tradizione gandhiana e quelle della disobbedienza civile di teorici e pratici statunitensi e di altri Paesi) perché le cause dei conflitti diminuiscano e perché i conflitti vengano regolati da contratti giuridici (da un diritto positivo contrattuale e non statale) e non da scontri armati.
I curdi e i catalani sono aggrediti da Stati forti, Turchia e Spagna, non da comunità autogestite, che potrebbero, per quel che riguarda la “politica estera”, rassomigliare a San Marino e al Lichtenstein, che non hanno mai fatto guerre di aggressione e di conquista.
In Italia una comunità comunista di un migliaio di persone che convive con ciò che la circonda esiste: è Nomadelfia. In questo caso si tratta di comunismo evangelico, non di altro tipo, ma nulla vieta, specialmente se progressivamente cambiasse il sistema giuridico di tutta la “nazione”, che possano nascere su base volontaria delle comunità comuniste laiche e di qualunque altra dottrina comunista. Non è il comunismo in sé, o il liberalismo in sé, a produrre le reciproche aggressioni, ma la pretesa non laica (da clericalismo ideologico) di sottomettere gli altri al proprio modo di organizzare la società. Nel momento in cui un comunista o un liberale aggredisce chi non la pensa come lui, cessa di essere un comunista o un liberale e si fa conoscere per criminale.
Ma a parte le battute, i comunisti e i liberali non hanno nulla da perdere a convivere pacificamente, una volta che sia riconosciuta e garantita la propria autonomia. I conflitti fra mondo occidentale e Urss non nascevano, e oggi non nascono, nei confronti della Cina o di qualsiasi altro Stato, dalle differenze ideologiche e dall’organizzazione interna, ma dalla spinta al dominio fuori dai propri confini, alla conquista e al controllo delle risorse altrui, alla competizione per il potere. E i protagonisti non sono i piccoli Stati e i popoli, ma i grandi Stati e le oligarchie di vertice delle classi politiche.
Questa può essere un’utopia irrealizzabile? Può darsi. Ma se è così, a maggior ragione allora è un’utopia irrealizzabile quello che leggo nella segnalazione (qui sotto) che fai su Gramsci: «tradurre l’esigenza rivoluzionaria che anima da cima a fondo la sua riflessione teorico-pratica nel progetto di una democrazia radicale che abbia di mira sempre l’accrescimento delle libertà degli uomini e nell’impegno politico a difenderlo ogniqualvolta esso si riveli in attrito con il progetto capitalista di ridurre la società umana ad una platea di produttori e consumatori, asservendo tutto e tutti alle “logiche” della produzione».
Come può realizzarsi questa «democrazia radicale»? (Il cui significato andrebbe chiarito, perché non è affatto scontato che Gramsci pensi a una democrazia radicale; Gramsci non è Capitini). Come può realizzarsi se la si affida alla conquista dell’egemonia, alla dittatura del proletariato, al partito come “Principe” machiavelliano, al grande stato proletario e via dicendo? Il Gramsci realista è più vicino al bolscevismo sovietico che alla democrazia radicale e questa, nell’ambito della strategia bolscevica, non potrà mai realizzarsi.
Ma anche la rivoluzione contro il capitale e contro la produzione di merci che altro è se non utopia irrealizzabile, quando la si affidi alla violenza e a uno Stato centralizzato? Quando non si precisi, almeno a grandi linee, che cosa realmente si intende con queste affermazioni generiche e come dovrebbe essere organizzata una società in cui la produzione non sia produzione di merci? Naturalmente, una società che mantenga i progressi del capitalismo e non torni all’età delle comunità primitive di mera e poverissima sussistenza.
Come conciliare la democrazia radicale e la negazione della produzione di merci se non all’interno di comunità omogenee?
Ho letto anche la lunga recensione (di cui tu hai dato uno stralcio) sul libro di Marcello Musto (“Karl Marx. Biografia intellettuale e politica”). Fra le altre cose discutibili, trovo una giusta considerazione: «la necessità del capitalismo perché si possa avere il comunismo. Non si può saltare. È un’idea che in Marx è presente dagli anni quaranta in poi». Marx fa addirittura l’apologia del capitalismo, che considera però superabile in meglio. Ma purtroppo né lui né altri, fino a oggi, hanno detto in modo chiaro, realistico e credibile come sarà fatto questo “meglio” e come operare il passaggio dal capitalismo al “meglio” (socialismo o comunismo o come lo si vuol chiamare), evitando che i mezzi usati uccidano il “meglio” e ci precipitino nel “peggio”.
Se la mia idea libertaria è utopistica, il che posso anche ammettere, almeno in parte, mi dichiaro pronto a cambiarla appena mi verrà prospettata un’idea migliore e più realistica che mi dia qualche concreta speranza che possa portare a una migliore qualità della vita e non alla catastrofe delle rivoluzioni alla cieca.
Intanto, se mi guardo attorno, vedo una sinistra ridotta all’un per cento che si attarda in continue rivisitazioni di Marx da un punto di vista marxista, che è una contraddizione che non porta a nulla (se non sul piano degli studi accademici. Ma in questo caso studiare Marx è proprio come studiare Leibniz o Aristotele, benché Musto non la pensi così); o che si attarda in nostalgie passatiste. E poi una sinistra di governo, che forse con Marx non ha più nulla a che fare, che non chiede l’abolizione del capitalismo e dello Stato, ma più capitalismo (più investimenti statali e privati per dare sangue all’economia) e più Stato (keynesiano e spendaccione sulla pelle delle vittime di una dittatura fiscale feroce).
Che marcia, si può dire, su strade opposte a quelle della “democrazia radicale”.
E un sindacato parassitario che non lotta per il controllo e la gestione delle attività economiche (fabbriche e aziende in senso lato), ma perché i capitalisti siano più generosi e diano qualche soldo in più ai dipendenti. Il che potrebbe essere coerente con un sindacato che collabora con l’imprenditore e che si fa esso stesso imprenditore (alla statunitense, alla tedesca), ma non con un sindacato che nei comizi in piazza continua a gridare con estrema genericità contro il capitalismo, come se tenesse ancora nascosta in tasca l’opzione della rivoluzione comunista, e che in pratica costituisce più un ostacolo che un incentivo al buon funzionamento capitalistico. Insomma, né rivoluzione né collaborazione, ma solo elemosina?
Tutto questo, però, realistico o utopistico che sia, produce conseguenze immediate che si traducono nelle piattaforme politiche e nelle leggi del governo e del parlamento. E l’attuale governo di “sinistra” mi pare che ci allontani dalla prospettiva della democrazia radicale come da quella dell’abolizione della produzione di merci.
Al contrario, le posizioni libertarie, quando riescono ad avere una qualche influenza immediata e incidere sulle leggi, almeno portano a una maggiore libertà, a una maggiore efficienza, a una maggiore equità.
SEGNALAZIONE
La violenza e altri atti impolitici nella nuova fase di proteste
di Mikkel Bolt Rasmussen
https://quieora.ink/?p=3527&fbclid=IwAR1Rrrdt8C_LTPFJqvDDefR1XqolL1pimQ8MK7zYHS0oMkmG52tInvEHZAk
Segnalato da Franco Senia su FB ho appena letto questo articolo, che tocca il problema che proprio oggi ho cercato di chiarire e chiarirmi con questa LETTERA AL SIG. X.
L’autore, però, contrapponendo risolutamente democrazia (Butler) e “attacco rivoluzionario” in versione “destituente” (Tarì, Agamben), fa la scelta che a me pare sbagliata. E non solo sorvola sulle tragedie avvenute, che io ho richiamato nel mio scritto ma, quando scrive, riflettendo sui movimenti di Piazza Tahrir etc: “In altre parole, non è stata solo una protesta “politica”, una richiesta di democrazia, ma anche e soprattutto un attacco rivoluzionario alla realtà politico-economica di un neo-colonialismo”, non risponde ad una domanda elementare: Ma questo attacco è riuscito o fallito?
Ci vuole la violenza rivoluzionaria invece della difesa delle democrazia, perché si deve rifiutare un “capitalismo democraticamente controllato” e si vuole arrivare “all’abolizione della produzione di merci”. Potrei volerlo io pure. Ma quegli attacchi violenti hanno prodotto o produrranno – di per sé – questo risultato?
SEGNALAZIONE
Novità su Marx, novità da Marx
di Antonino Morreale
https://www.sinistrainrete.info/marxismo/16097-antonino-morreale-novita-su-marx-novita-da-marx.html?fbclid=IwAR2lJ_isnahGdaFsqZpIeBkqEQxC6jKIQpA5EtToiI_jNDVojGb-S20jhZo
l problema politico-culturale di inserire Marx, con le sue “tre fonti”, dentro una tradizione “nazionale” che fu il pallino del PCI di Togliatti, non esiste più. E infatti Musto si muove in tutt’altra ottica e su uno spazio “globale”.
E Marx va lasciato là dove è sempre stato, un grande intellettuale europeo, – per vocazione e per necessità-. Nella grande cultura europea, politica, filosofica, letteraria, economica. Con Hegel, Ricardo e i socialisti, mentre i suoi “autori”, oltre ai classici greci e latini e l’ovvio Goethe, sono Dante e Shakespeare, Cervantes e Balzac.
2.
Musto fa due scelte chiare e nette. Intanto lascia fuori il cosiddetto Marx “giovane” e affronta direttamente il cuore del problema: la critica della economia politica e la questione del metodo con l’Introduzione del ’57, cui ha dedicato nel 2010 una pubblicazione specifica molto precisa.
La seconda scelta è di non considerare il filosofo separato dall’economista, e il politico dal filosofo e dall’economista e tutti separati dall’uomo. Il capitolo sulle condizioni economiche, familiari, di salute, è il più angosciante del libro ma anche indispensabile per avere la percezione dell’abisso da cui Marx ha dovuto tenersi fuori, e di come potesse essere vivere a Londra, centro del mondo, per un intellettuale esule e avverso al sistema.
Non sono due Marx, ma certo qui c’è un Marx diverso da quello degli anni quaranta dell’800. È un Marx che ha ormai due poli ben chiari, l’analisi del capitale, la lotta politica. Entrambi ai livelli più alti: la stesura del Capitale, come teoria e storia di un sistema economico nato nel secolo XVI, e l’organizzazione dell’Internazionale come arma per combatterlo. Due ambizioni davvero “prometeiche”.
3.
Nel primo capitolo, si affronta uno dei nodi decisivi del pensiero di Marx: la necessità del capitalismo perché si possa avere il comunismo. Non si può saltare. È un’idea che in Marx è presente dagli anni quaranta in poi, dall’Ideologia tedesca al Manifesto fino ai Grundrisse. Ma è un’idea che subisce ripensamenti critici molto importanti. Fino al primo libro del Capitale Marx torna sul carattere necessario del capitalismo.
Musto conclude:(p. 219-20):
“Con continuità, dunque, dalle prime formulazioni della concezione materialistica della storia, risalente agli anni ‘40, fino agli ultimi interventi degli anni Ottanta, Marx mise in evidenza la relazione esistente tra il ruolo fondamentale dell’incremento produttivo generato dal modo di produzione capitalistico, e le precondizioni necessarie alla nascita della società comunista per la quale il movimento operaio avrebbe dovuto lottare. Le ricerche condotte negli ultimi anni della sua esistenza gli permisero, però, di rivedere questa convinzione e di evitare di cadere nell’economicismo che contraddistinse invece le analisi di tanti suoi seguaci”.
È la riflessione sulla Russia. L’invito a” studiare separatamente i singoli fenomeni”. E poi le bozze di lettera per Vera Zasulic. “senza passare necessariamente”; “una transizione non sempre necessaria “scrive Musto. Così come Marx cambia opinione sul colonialismo britannico in India. Marx si allontana dall’idea che sembra deterministica nella “Prefazione del ’59” di un meccanismo necessitante.
4.
La fortissima tensione utopica che tanto affascina ancora oggi il lettore dei Manoscritti economico- filosofici non poteva sparire, e la ritroviamo ancora in qualche passo del Capitale. Anche se Marx non organizzò mai falansteri o “ricette per l’osteria dell’avvenire”.
Così come si tenne ben lontano dalle ricette dei cosiddetti utopisti che pure apprezzava e prendeva in giro, si sarebbe tenuto ben lontano anche dalle realtà del “socialismo” reale che abbiamo visto nascere e finire nel XX secolo.
Va condivisa infatti quest’altra osservazione di Musto:
p. 244 “l’dea di società di Marx è dunque l’antitesi dei totalitarismi sorti in suo nome nel xx secolo. I suoi testi sono utili non solo per comprendere il modo di funzionamento del capitalismo, ma anche per individuare le ragioni dei fallimenti delle esperienze socialiste fin qui compiute.”
5.
L’emergere di “nuovi” elementi sinora ignoti, o trascurati, e la lettura nuova di testi noti converge nel fornire di Marx un’immagine molto diversa da quella che ci si poteva formare in passato.
Novità su opere come l’Ideologia tedesca, che finalmente sappiamo cos’è, sul Manoscritto del Capitale, il capitolo che è anche il più laborioso da leggere, sull’epistolario, sui quaderni
In ognuno dei quattro settori in cui è suddivisa la grande edizione MEGA2 ci sono novità molto importanti che hanno contribuito a liberare Marx ed Engels da letture rigide, ideologiche, troppo interessate alla costruzione di una dottrina compatta, ufficiale. Tutto il contrario di quanto è nello spirito di Marx.
Il Marx più tardo è forse quello che ha beneficiato di più da questa ondata d’aria fresca filologica.
Un silenzioso quanto patetico convincimento continua ad accompagnare l’ultimo Marx. La stranezza di uno studioso che pubblica il primo libro del Capitale nel ‘67, e nei 16 anni che gli restano non ce la fa a pubblicare il secondo. Esaurimento fisico, crisi della creatività scientifica, irrisolvibili contraddizioni dell’impianto teorico del Capitale: è stato detto di tutto.
6.
A chi parla di “superamenti” di Marx ad opera di non si sa chi o che cosa, l’unica risposta possibile è:” magari!”
Perché le questioni sul tappeto non sono scomparse, semmai si sono acuite e non dobbiamo scambiare le sconfitte storiche reali per le soluzioni teoriche dei problemi, questo sì sarebbe hegelismo:
• Sul rapporto tra forze produttive e rapporti di produzione, c’è tensione oggi più di ieri.
• sull’eurocentrismo e globalizzazione, la storia universale, prodotto storico specifico del capitalismo, oggi è più vero di ieri.
• sulla questione ambientale oggi è più reale e più urgente di ieri
• la “critica”, il marxismo come “critica”, parola chiave in Marx, contro le mille teste dell’ideologia, è sempre più necessaria in un’epoca in cui il “capitale” investe nel software ideologico quanto nell’hardware tecnologico.
SEGNALAZIONE
Antonio Gramsci, ritratto di un rivoluzionario
Di Francesco Bellusci
22 Febbraio 2016
Stralcio:
Ereditare Gramsci, oggi, potrebbe significare allora tradurre l’esigenza rivoluzionaria che anima da cima a fondo la sua riflessione teorico-pratica nel progetto di una democrazia radicale che abbia di mira sempre l’accrescimento delle libertà degli uomini e nell’impegno politico a difenderlo ogniqualvolta esso si riveli in attrito con il progetto capitalista di ridurre la società umana ad una platea di produttori e consumatori, asservendo tutto e tutti alle “logiche” della produzione presentate come una fatalità inevitabile. E per questo l’insegnamento principale di Gramsci, ancora attuale, è appunto quello di non subire la storia come una fatalità, ma sforzarsi sempre di rimanerne attori.
Nota di E. A.
La “traduzione” dell’ «esigenza rivoluzionaria» di Gramsci proposta dall’articolo di Francesco Bellosi s’accosta alla posizione della Butler, come descritta da Mikkel Bolt Rasmussen nell’articolo da me precedentemente segnalato (qui: https://www.poliscritture.it/2019/10/18/comunismo-una-lettera-al-sig-x/#comment-94722)
Analizzando l’occupazione di Piazza Tahrir in termini di sovranità politica e democrazia, e descrivendo la sua occupazione come nonviolenta, Butler finisce per sottoscrivere quella che in Occidente è stata la ricezione dominante della cosiddetta “primavera araba”, secondo la quale i manifestanti volevano una “transizione democratica” e delle “riforme politiche”.[14] Il tentativo di ripulire le proteste e presentarle, contro ogni evidenza, come proteste democratiche nonviolente è un disperato tentativo tardo-orientalista di trasformare il rovesciamento di regimi filo-occidentali in vittorie per l’Occidente e i suoi ‘valori democratici’.
La descrizione delle proteste come nonviolente rischia poi di giocare a favore dei poteri locali. Come scrive Abdel-Rahman Hussein in “La Rivoluzione egiziana è davvero stata non-violenta?”, in Egitto, per tutta la durata delle proteste, le autorità continuarono a descrivere qualsiasi atto di violenza non-statale come delinquenza su commissione o piccola criminalità e cercarono di contenere e sviare le proteste, da un lato reprimendo aspramente gli elementi radicali, dall’altro cedendo su più modeste richieste.[15] Riducendo la lotta rivoluzionaria anticoloniale a una questione di democrazia, Butler è pericolosamente incline a replicare un’ideologia tutta occidentale – quella del cambiamento di regime limitato, ovvero della “transizione democratica”.
(https://quieora.ink/?p=3527&fbclid=IwAR1Rrrdt8C_LTPFJqvDDefR1XqolL1pimQ8MK7zYHS0oMkmG52tInvEHZAk )
APPUNTO VELOCE 1
Per non parlare astrattamente di violenza, ho spesso suggerito la lettura di Sofsky, Saggio sulla violenza. Ne ha dato un quadro terribilmente veritiero, portando esempi dalla storia di tutti i tempi. La sua visione improntata al pessimismo freudiano (che gli fa scrivere: «Nonostante tutti gli sforzi morali, tutte le fatiche per domare la brutalità, il male è eterno. Gli strati più primitivi dell’anima sono ciò che è realmente immortale», pag. 194) è forse, come gli è stato rimproverato, astorica e apocalittica. Ma la preferisco all’ottimismo vagamente progressista.
APPUNTO VELOCE 2
Perché solo quando si parla ( o si ritenta di parlare) di comunismo salta fuori il problema della violenza? Ma la violenza è in tutta la storia umana. Non è stata esercitata soltanto dai comunisti. Non è imputabile solo ad essi. Tutti gli Stati, anche democratici, sono sorti da processi violenti e, per conservarsi, continuano ad esercitare violenza. Ed è con questo tipo di violenza “democratica” che abbiamo soprattutto a che fare oggi.
APPUNTO VELOCE 3
Se, neppure nel mondo della teoria liberalismo e comunismo si conciliano, è davvero improbabile che liberali e comunisti si accordino sulle pratiche reali. Il riconoscimento di una «propria autonomia» (di pensiero) può esserci ma non penso che possano convivere pacificamente su interessi (di vario tipo) confliggenti. Certe soluzioni “ibride” tra privatizzazione e statalizzazione oligarchica restano “finto-comunismo”.
APPUNTO VELOCE 4
Credo che ‘democrazia radicale’ e ‘comunismo’ siano *pensabili* come forme di governo vicine e forse quasi gemelle. Realizzarle concretamente è problema aperto e insoluto.